Il caso è un giunco e Bubka lo sa
In un albo di Tex, precisamente non ricordo quale, l’antagonista di turno — un cinico e spietato pistolero — sogna il padre che da un oscuro corridoio della casa dov’è cresciuto lo ammonisce: “prima o poi incontrerai qualcuno che spara più veloce di te, è fatale”. Il sogno sfuma e l’indomani il cattivone verrà liquidato a revolverate dal ranger di Bonelli.
Proprio qualche giorno fa, a Donetsk, in Ucraina, Renaud Lavillenie ha saltato con l’asta 6,16m e ha infranto così il ventennale record di Sergej Bubka. Così come, tra tutte le specialità dell’atletica leggera, la corsa è quella che ne distilla la quintessenza; così, il salto con l’asta, è quella che raccoglie in sé le maggiori suggestioni celesti e terrene: un gesto verso le stelle e al tempo stesso saldamente attaccato al suolo, poiché senza una buona rincorsa e una ritmica tarata alla perfezione non si spicca il volo e meno che mai si supera l’asticella. A pochi istanti dall’impresa il francese ha dichiarato: “non c’è niente da dire, è incredibile, sono ancora in aria”. Ma lui sa bene che senza la preparazione minuziosa che ha portato avanti in questi ultimi anni non ce l’avrebbe mai fatta a superare i 6,16m e, di conseguenza, a battere Bubka.
Quello che è successo ieri, oltre a segnare la storia, ci dice parecchie cose interessanti: in un alone di fatalità impressionante, accresce il fascino del caso, ne conserva la piacevole vertigine e insieme lo scalza brutalmente riconsegnando al mito del saltatore con l’asta la potente consapevolezza di poter padroneggiare e cadenzare il proprio destino, centimetro dopo centimetro. Mentre dominava la scena di olimpiadi e mondiali, nell’arco di dieci anni, Sergej Bubka, lo “zar”, oltre a incantare migliaia di spettatori con quel modo tutto suo di piegare l’asta e librarsi, rilasciava lapidarie sentenze degne del suo sguardo marmoreo e tipiche di quella corteccia interna che solo i sovietici hanno. Tra le tante, quella che mi è rimasta più impressa era: “Sei un atleta, non un seduttore. Non devi stare lì ad ammirarti, ma a gareggiare. Devi avere fame di successi, di risultati, di gloria. Lo sport non è una sfilata, è provarci per davvero con tutto te stesso”. Bubka inizia a fare pratica con l’asta da bambino ma è a Donetsk che comincia a fare sul serio, quando conosce Vitalij Petrov (allenatore navigato che sceglieranno anche la Isinbayeva e Gibilisco) e prende la necessaria consapevolezza di sé. A vent’anni vince i mondiali ad Helsinki con 5,70m, due anni dopo a Parigi è il primo uomo a superare i sei metri, nel frattempo lavora ancora e ancora, con Petrov, sulla forza e sulla tecnica. Provate e correre una decina di metri con l’asta in mano, non è per niente facile: dopo due passi hai già le gambe pesanti e il busto che soffre a stare dritto, se gli addominali non lo reggono, la schiena si affloscia e nel momento di puntare l’asta vai giù come un sacco di patate. La corsa poi, se i piedi non rullano e i polpacci non esplodono come dinamite, il terreno non ti restituisce niente e sei come un aereo che pretende di decollare senza rincorsa. Tutto questo Bubka e Petrov lo sanno, pertanto lavorano sulla forza e sulla tecnica. Sulla tecnica perché, a corollario di quanto già detto, se le gambe non mulinano con la cadenza giusta, che è quella di prima seconda e terza in rapida e precisa successione (e che spiegare richiederebbe un altro articolo), lo slancio si traduce in un nulla di fatto. Ci lavorano con metodo e tenacia: il primo è quello impostato dall’allenatore russo, talmente rigoroso da adattare il metodo al suo pupillo, che infatti è l’unico atleta ad avere un’impugnatura così alta; la seconda è quella ferrea che ci mette Bubka senza mai cedere alla seducente tentazione di vanificare quanto la natura gli ha dato in sorte. Tra Helsinki e Parigi c’è quella bellissima gara che Bubka disputa all’Olimpico contro il francese (incantevole coincidenza) Thierry Vigneròn che potrebbe essere riassunta drammaturgicamente così: “abitanti della città eterna, guardate! Questo è Vigneròn. Si fumava spinelli tra un leggiadro librarsi e l’altro, con capacità rara e invidiatissima. E ora ha incontrato Bubka” e che io ho raccontato un po’ di tempo fa. L’aneddoto sugli spinelli mi è stato confermato da parecchie persone che hanno assistito a quella sfida, come anche la straordinaria padronanza della disciplina che ostentava l’atleta francese. In quella gara, prima ancora di superare i sei metri per quarantatré volte (a Roma vinse con 5,94), Bubka già dimostrava al pubblico di avere in serbo tantissime sorprese, le quali poi ha centellinato centimetro dopo centimetro in altri dieci anni.
Una peculiarità dei saltatori con l’asta è quella di cadenzare i loro record centimetro dopo centimetro, cosa che ha cristallizzato ormai nel pubblico l’idea che questa sia un’operazione del tutto conscia e che non si sposi troppo bene con lo streben sportivo di un titano come Bubka. E tuttavia, a parte la non sussistenza di prove riguardo a questa intenzionale gestione, l’eventualità non può che solleticare ulteriori magnetismi per questa disciplina: il ritmo con cui un saltatore cadenza i propri record, centimetro dopo centimetro, evoca l’effetto di una scalata assolutamente controllata e volta a dosare le proprie forze fino a raggiungere il limite massimo. Più che un abile sotterfugio per rimanere sotto le luci del palcoscenico per me ha sempre avuto il sapore di una prova prometeica. Così Sergej Bubka, indomabile e machiavellico, ha saltato per circa quattordici anni più in alto di tutti i suoi contendenti, ha vinto tredici medaglie d’oro di cui solo una olimpica, quella di Seul nel 1988 (pesa parecchio l’incredibile debacle di Barcellona ’92 quando non riuscì a salire nemmeno sul podio, un po’ meno l’assenza per infortunio ai giochi di Atlanta ’96), fino alla vetta dei 6,15m, record siglato, guarda cosa combina il fato, proprio a Donetsk un lontano 21 febbraio del 1993. In quegli anni Renaud Lavillenie era venuto al mondo da poco e come tutti i bambini aveva sicuramente altro a cui pensare. Ma poi è cresciuto e, come succede spesso per chi è molto dotato e che intraprende uno sport in cui riesce, si è deciso a fare sul serio. Ben presto entra nel team della nazionale, perché è una giovane promessa e la Francia, nelle giovani promesse dell’atletica leggera, ci crede davvero e sa come gestirle. Dal 2008 a oggi Lavillenie confeziona una serie di risultati invidiabili, sei ori iridati e una medaglia olimpica oltre a prestigiosi piazzamenti e misure da urlo. Come lo “zar” deve fare i conti con qualche debacle scomoda (ai mondiali di Berlino 2009 è terzo sul podio, scalzato dall’australiano Hooker e dal connazionale Mesnil, mentre a quelli di Daegu 2011 stessa sorte con avversari, forse, meno minacciosi) ma il suo bottino è comunque ricco. La sua statura e in generale l’aspetto fisico ingannano da subito i profani di questa disciplina, lo vedono piccolo e in tremendo affanno quando corre e deve sostenere l’asta. Ma la realtà è un’altra: se lo si osserva bene il francese ha una carta in più dei saltatori comuni, quella dell’elasticità, che gli consente di piegarsi come un giunco e triplicare la velocità di risalita facendo sì che il corpo in movimento abbia meno tempo per sbandare e quindi scomporre gambe e busto al momento dello scavalcamento. In questo, nel passare l’asticella senza scomporsi, il francese si può dire già maestro. Negli ultimi sei anni in Europa e nel mondo dice la sua quasi sempre, autorevole e combattivo ma mai sfrontato conquista il suo primo oro proprio in Italia (ai mondiali indoor di Torino 2009) con un salto di 5,80. Chi ha visto quella gara ha un ricordo sbiadito e per nulla convincente del francese che pareva aver fatto una misura interessante ma senza troppo margine. Il bello viene due anni dopo quando ai mondiali indoor di Parigi il piccoletto, tutto fomentato il piccoletto perché sta a casa sua, scavalca il muro dei sei metri con una nonchalance (permettetemi) davvero atipica. Nel suo sguardo c’è umiltà e insieme fermezza biblica, ma quello che più conta è che nel suo gesto c’è ancora margine. Chi ha visto la gara di Parigi si è accorto che il suo busto non ha sentito neanche il solletico dell’ostacolo oltrepassato e che, di conseguenza, se ne possono vedere delle belle in futuro. Si arriva così alla gara dell’altro ieri, a Donetsk, dove Lavillenie, nella stessa città (ma al coperto) in cui Bubka era volato a 6,15m di altezza, chiede ai giudici di portare l’asta un centimetro sopra al record mondiale e poi la supera davanti lo sguardo ghiacciato dello “zar” che si gode il salto dagli spalti. La gioia incontenibile è poi sfociata nell’euforia da guascone; infatti il francese ha fatto posizionare l’asticella a 6,21m ma, ormai visibilmente scarico, l’ha presa in pieno. Ma questo non esclude che non abbia ancora centimetri a disposizione.
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Ma dicevamo di Bubka che ha assistito in tribuna. Da profondo sornione e sconsiderato amante di questa disciplina qual è, lo “zar” ha subito dichiarato che il francese “è il suo successore ideale” e che “non è deluso perché ha sempre pensato che il record doveva cadere prima e che, ben lungi dall’essere triste, questo è un bene per l’atletica e una giornata magnifica per la storia”. Bubka ci ha dedicato una vita al salto con l’asta e nelle sue parole, che possono sembrare dovute, è impressa la profonda verità che il caso è un giunco e può essere piegato tanto quanto un’asta. E infatti, fatalmente e nella stessa città, Lavillenie glielo ha dimostrato a corollario di quanto ottenuto negli anni dal russo. L’espressione di Bubka è la stessa di chi rosica ma al tempo stesso sorride consenziente: perché la fatalità rimane una bellissima suggestione ma il metodo, quello, resta una certezza sovietica.
Adriano Masci. ambisce tenacemente alle lettere e scrive cose che, sport a parte, sono poco serie. Cerca conforto nei libri per alleviare la tragedia di essere comunista e della Lazio.