Il Cristo di Avellaneda

Crampi Sportivi
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6 min readFeb 1, 2017

di Simone Vacatello

*Estratto di un articolo pubblicato per Rivista Undici nel luglio 2016

C’è un discorso tecnico da fare su Batistuta, e riguarda l’attrazione magnetica — al punto che potremmo definirla ossessione — nei confronti della porta, e la grazia e la potenza che si fondono e si sublimano nella capacità di toccare il pallone con il solo scopo di metterlo in rete. Non importa quanto spazio abbia a disposizione, né quanto tempo gli sia rimasto prima che il difensore o il portiere intuiscano la direzione del movimento o del tiro. Batistuta è una sorta di uomo di Vitruvio del gol: la posizione dei suoi arti, nel momento della conclusione, forma cerchi e quadrati che danno la proporzione perfetta della rete, poiché possono coordinarsi nella maniera più consona alla sua realizzazione. È come se il suo fisico producesse un campo biometrico adatto a interpretare istintivamente il movimento nello spazio.

Se a questi elementi si aggiungono anche l’incapacità di risparmiare il proprio corpo (ai fini del trascinamento della squadra) e soprattutto se si fa caso al fatto che le sue sembianze richiamano quelle di un Cristo nato ad Avellaneda, il profilo di Batistuta assume contorni semidivini.

Contorni resi più vividi dalla pietas del Nove dei Nove, dal suo rispetto per l’avversario, dall’esultanza liberatoria di chi non infierisce necessariamente sugli opponenti ma sfoga la tensione drammatica che ha portato al gol, spesso con un gestualità sorniona, con gioia incontenibile. Tutti questi sono fattori ascrivibili al Batistuta giocatore, elementi che vanno di pari passo ai gol, nella costruzione del suo mito.

Il primo miracolo

Poi c’è la dimensione personale e privata, in cui la seconda elementare mi sembrò una non scontata stagione in più, nella lunga strada verso la pubertà, strappata con i denti e le unghie a quel Vietnam che era stata la prima elementare. Una volta sopravvissuti al primo impatto con coetanei dalla varietà linguistica diversa, e con strade su cui era più facile sbucciarsi le ginocchia, era necessario trovare punti di contatto per arrivare in terza integri e integrati. Possedere il calcio, nell’epoca pre-Fifa e pre-Pes e soprattutto pre-pay tv, equivaleva a possedere le magliette originali o le figurine. In un pomeriggio di gennaio in cui si festeggiava il mio compleanno io possedevo Voeller, Baresi, Aldair e Van Basten, Kohler, Careca, Branco e lo scudetto del Napoli. Ma mi mancava Battistuta della Fiorentina, pronunciato con due “t”. E mancava anche a molti miei compagni di classe. Riuscii a ottenere da un mio cugino più grande quella figurina in regalo, e mi colpì il fatto che a differenza di molti altri giocatori, quell’argentino capellone aveva alle spalle non un campo d’allenamento ma uno stadio che sembrava gremito. Quel particolare conferiva a quella figurina una vitalità e un dinamismo che ne facevano qualcosa di speciale.

Detto questo, eravamo a metà della stagione 1991/92, in piena onda lunga di Nevermind dei Nirvana, e io non avevo la più pallida idea di chi fosse “Battistuta” della Fiorentina, alla sua prima stagione in Serie A. Perciò mostrai la figurina a mio nonno, per capire dalla sua reazione se fosse forte o meno. Mio nonno fece un cenno con la testa, e non lo faceva spesso.

Quando la mattina dopo, a scuola, mostrai il mio trofeo ai compagni, ricordo che levai il braccio al cielo come a imitare il prete durante l’eucarestia. «Il corpo di Cristo», ghignai, in anticipo sulla mia iconoclastia. Scelsi quelle parole in un secondo momento, perché mi colpì molto la reazione dei miei compagni, che alzarono la testa come abbagliati davvero da una visione divina. C’era qualcosa, in quella figurina, che la rendeva un oggetto di culto. Saranno stati i capelli lunghi, o lo sponsor Giocheria, lo stadio gremito alle spalle o un presagio delle meraviglie future. Fatto sta che io, il più piccolo della classe, possedevo Battistuta della Fiorentina, e di conseguenza guadagnai il rispetto dei compagni fino alla fine dell’anno.

Quello fu il primo miracolo di Batistuta.

Passione e resurrezione

14 aprile 2002, dieci anni dopo, dieci anni di gol di Batistuta utili alla crescita quanto il latte a colazione e le proteine a pranzo. In una giornata da mezze maniche, distante solo 3 turni di campionato dal 5 maggio, all’Olimpico si gioca Roma-Parma e domani mi interrogano in classico greco. Sono agitato, e non soltanto per via dei poeti ellenistici e degli opportuni cenni sulla lingua, ma perché ieri notte ho sognato di essere allo stadio e di assistere all’ingresso in campo di una squadra di casa in dieci. Quando domandavo perché, mi rispondevano che era morto Batistuta. Ma nessuno voleva dirmi come.

Da ancor prima del risveglio, quindi, sono pervaso da una sensazione luttuosa che a fatica riesco a togliermi di dosso anche ora che è giorno, perciò scelgo di ignorarla. Non è stata una stagione facile per il Nove dei Nove: l’età che avanza ha reso ogni infortunio più pesante del precedente, e l’unico scudetto della sua carriera, accompagnato da 20 gol segnati con un ginocchio malandato, ha chiesto il conto al fisico e fatto sollevare al suo nuovo pubblico i primi scetticismi. Dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme, le palme tricolori, gli onori, è bastata una stagione opaca per insinuare a Roma il sospetto che si tratti di un Messia a tempo determinato, il cui tempo è quasi scaduto. D’altronde per ogni Cristo c’è una passione, e per quello di Avellaneda ne è ufficialmente iniziata una.

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Intorno al quarto d’ora, inseguendo una palla vagante nell’area avversaria, Cannavaro la scalcia fortissimo in acrobazia per allontanarla, ma Batistuta ci mette la testa provando a controllarla. Risultato: Cannavaro scalcia fortissimo Batistuta in testa, e questi cade a terra privo di sensi. I giocatori del Parma chiamano subito gli infermieri con ampi gesti. Cannavaro fa un cenno e si allontana dal corpo vinto con un paio di passi ansiosi, scioccati, come un pirata della strada che chiama i soccorsi ma vuole allontanarsi per… boh, credo per elaborare. Dopo 30 secondi Batistuta non si rialza ancora. Chiaramente nella mia mente, a quel punto, si dipingono da soli quadri di Lord Byron e urla strazianti affidano al vento oniriche cassandre sui bastioni di Troia, peraltro in fiamme. Mi si gela il sangue, Batistuta non si rialza e viene portato via in barella. Le lunghe chiome immobili, il ginocchio traditore finalmente rilassato, l’espressione drammatica del volto, prima tesa verso il gol ora è ora spenta, e sorda. E non posso rivelare a nessuna delle persone a me vicine il vero motivo per cui sono diventato bianco come uno straccio appena lavato.

Quando, dopo qualche minuto senza respiro, arriva da fuori campo la notizia che Batistuta si è ripreso, sta bene e verrà sottoposto in settimana ad accertamenti, per tutti si è trattato di un brutto spavento, ma per me, per Lord Byron e per Cassandra soltanto, egli ha vinto la morte.

(continua a leggere su Rivista Undici…)

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