Il Derby è una partita come le altre

Crampi Sportivi
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9 min readJan 11, 2015

Estratto dall’Ottavo Capitolo del libro “#Vola. Il manuale di chi tifa Lazio” di Stefano Ciavatta

“Il Derby è una partita come le altre” lo disse Zeman con la nostra casacca. Lo ha capito sulla propria pelle cosa fosse il derby. Contro di noi, passato all’altra sponda, ne perse addirittura 4 in una sola stagione. Il derby è l’ottavo colle di Roma e lo devi sapere affrontare. Non siamo Bologna, Firenze, Udine, Napoli o Palermo, piazze fortunatissime, indenni dalla croce del derby. Noi siamo Roma e a Roma c’è un derby che si gioca tutto l’anno. Il successo di una squadra è sempre un incubo per l’altra. Il derby non può prescindere dallo stadio, è un magnete della città. Al derby non puoi inventare, o restare lontano come fece Gay Talese in attesa dell’intervista a Sinatra che non si fece mai ma che pure scrisse e pubblicò. O vai o non vai. Il derby è stadio.
Per qualcuno vincere il derby è come il barattolo di latta attaccato alla macchina degli sposi, una questione di cinismo e goliardia, altro che amore. Insomma il derby sarebbe una sfida di ripiego, una partita da poco, giusto una ripicca. Per me invece è come andare all’Opera: lo sfarzo dei colori, la luce del tardo pomeriggio, la passione e la nevrosi, il campo è un palco dove a volte “ti sparano e tu continui a cantare” come diceva Woody Allen. Per vedere tutta Roma in una partita sola c’è solo il derby, per questo il derby nonostante tutto è un pezzo di casa e guai a chi lo tocca. Ci hanno provato a renderlo un Superbowl con l’esibizione del coreano Psy e la sua Gangnam style ma è stato sepolto da una lunga bordata di fischi da entrambe le sponde, in curva Nord la gente si è voltata mostrando la schiena in segno di dissenso. Purtroppo negli anni il tifo si è incattivito, e mentre per facile esotismo si guarda a Londra con l’invidia delle sue sei squadre in Premier, qui a Roma ne bastano due per farsi una guerra più incattivita di qualsiasi rivalità. Non ci può essere annata senza i due derby. Qualcuno però la pensa diversamente, qualcuno continua pure a intonare i cori contro Vincenzo Paparelli.

L’attesa per il derby mi sposta dalla parte di Foreman e non di Alì, come vorrebbe invece il mito. Nelle settimane che precedettero la sfida del 1974 Foreman aveva un rito che Norman Mailer racconta nel libro “La sfida” (Einaudi): tra rimandi della data dell’incontro e vari infortuni i due pugili passarono molto tempo senza fare nulla. Eppure quando Foreman incontrava la stampa o qualche ospite nessuno lo poteva toccare perché aveva le mani sempre in tasca nella sua vestaglia di seta, per non rompere il cerchio magico della concentrazione. Neanche l’inviato Norman Mailer riuscì a guadagnarsi un’eccezione. Quindi: tutto ciò che accade prima del derby non ha senso, è inutile, qualsiasi protezione è futile eppure qualsiasi contatto non va minimizzato. C’è una settimana che ci separa dalla partita e di modi per ritrovarsi a crederci e a illudersi è pieno ovunque e quindi bisogna evitarli tutti.

Anche se tutti ne parlano l’argomento è tabù. E la fratellanza laziale? È ibrida e fragile: l’apocalittico va a braccetto col moderato, il nichilista soffre per l’ottimista. E quando pensi di averla sfangata ti chiama a sorpresa l’amico che non senti da tempo e che gli è nato un altro figlio e il derby “boh, non so, magari un pareggiotto”. E ti si apre lo scenario del pareggio, che è come un posto macchina sotto casa e c’è sempre qualcuno pronto a soffiartelo. Se ti dice male ti tocca anche il commesso del Todis che ha sempre la bocca impastata di disfatta. Quindi meglio disertare, rinnegare, far finta di niente di fronte a commenti, pronostici, azzardi e speranze. L’attesa per il derby — ovvero la distanza fisica e spirituale che separa dallo stadio Olimpico qualsiasi metro quadro da te calpestato nei sette giorni che lo precedono — è una grotta da cui si esce da soli.

Sembra un paradosso ma l’attesa per il derby non ha scaramanzie o forse il tempo le ha sbriciolate tutte. Il derby è una bomba, non è un safari, non è un tramonto su National Geographic, è la marea umana, è un pezzo di casa e di Roma. Anche al derby si consuma la vita. Sono entrato allo stadio con i migliori propositi, sono arrivato con il cuore a pezzi, ho provato vertigini da doping e gioie di una libertà unica, sono arrivato in ritardo, a piedi da casa, di corsa sotto la pioggia, sono arrivato tra il fumo dei lacrimogeni e i carrelli degli hotdog lanciati nella nebbia, sono entrato col sudore freddo tra i manganelli dei carabinieri che roteavano sopra, sono entrato a venti minuti dalla fine, persino ingessato e in giacca e cravatta, ho varcato i cancelli dopo aver perso il lavoro e una donna, ho puntato tutto sul derby più di una volta per uscire da me stesso, quando stai in mezzo a un risultato che non si sblocca e tutto balla, oscilla e tutto può essere e balli pure tu. Ho conosciuto il fomento, non lo smile, il like, ma il fomento, quando le mani non erano più chiuse in tasca.

L’attesa per il derby non vuole troppi zuccheri. Dicono che quando i polacchi e i finlandesi caricarono a cavallo i carri armati nazisti, i polacchi ci credevano davvero. Il melodramma della tradizione e della memoria è concesso ma un giorno solo. Nell’attesa per il derby saranno mie tutte le canzoni, gli inni, le radio private, le telefonate alle radio, i filmati, youtube, i Meno Nove, gli scudetti, le coppe, i morti, i vivi, i dvd mandati a memoria, i forum. Saranno mie tutte le parole d’ordine, le dediche, l’esaltazione, il misticismo, le statistiche. Alla vigilia, nel giorno del melò che mi concedo, rivedo anche i gol inutili, quelli delle sconfitte, le azioni che potevano diventare magiche: la cavalcata in solitaria di Rocchi nel derby di Floccari, oppure nella stessa partita il gol di Rocchi sotto la Sud, oppure il palo di Cissè anche se poi tornammo a vincere. Fino a sera tardi mi è concesso tutto questo. Ogni tanto il jukebox del melodramma derby risuona come fosse la prima volta. Però bisogna ricordare che finché non si prende il biglietto questa cerimonialità sentimentale può finire per spanarsi come una vite.

Il derby accade soltanto due volte l’anno, spesso il seggiolino non è mai lo stesso. In basso ai Distinti Ovest ho visto Rocchi incornare su cross di Cesar fregando Panucci, un gol buono per un pareggio che mi ha acciuffato per i capelli e mi ha fatto di nuovo sentire la terra sotto ai piedi. Più in alto ho visto la prima stecca di Di Canio su cross di Sosa, io unico laziale in classe non ci potevo credere. In Monte Mario mi sono disperato ferocemente quando Floccari ha sbagliato il rigore del 2 a 0, un errore perdonato a fatica la sera di un gol alla Juventus. In Tevere, dall’altra parte, ho visto Zarate puntare la porta a 30 metri di distanza e scavalcare De Rossi, sempre in tribuna tra le teste fitte di una domenica a scrocco ho visto l’ex Di Mauro tirare sbilenco e strappare il pareggio, ero lì. O la sera del ritorno di “Paoletto mio come quindici anni fa”, e quell’altra in cui ho pensato di dare via la palla per difendere un pareggio e invece la Lazio l’ha giocata e con tre passaggi è arrivato il piattone di Klose a interrompere un lungo digiuno. Ora che mi ricordo ho visto anche il gol a porta vuota di Bertoni nella bolgia dell’anno al Flaminio con l’Olimpico demolito per i lavori di Italia ’90.

Dalla Nord ho visto Signori sbucare dalla nebbia, ho visto la furia di Nedved trovare uno spiraglio tra palo, Zago e Tommasi e segnare l’impossibile, ho visto Gascoigne correre sotto la mia curva dopo un colpo di testa, uno dei rave più belli a cui abbia mai partecipato, ho visto la Lazio in dieci per un’ora e passa fare tre gol, ho visto Zeman vincere il derby con la Lazio, ho sentito tutto pericolosamente in bilico prima che Behrami la mettesse dentro al 92°, ho visto Marchegiani parare un rigore al Principe Giannini e tanti saluti, ho visto Fiore segnare d’istinto e mi sono sentito per tutto l’intervallo in cima al mondo come Scarface, ho visto il pallone calciato da Veron girare fino a mettersi sotto al sette e quando ho vinto lo scudetto ero in campo e mi sono preso quella zolla, qui ho visto Lucas Castroman al 95° battere di destro e pareggiare un derby, colui che ha sorretto la sfera biancoceleste per una settimana intera, un gol che poteva costare lo scudetto alla Roma, ho visto sospese nell’attimo prima del rigore di Hernanes le preghiere di tanti derby passati, ho visto Mauri affossare la Roma in dieci prima di finire in galera e dopo la galera sollevare la Coppa Italia al derby.

L’attesa per il derby vive di poche, rare certezze. I derby persi me li sono sorbiti tutti, ma Totti ne ha persi più di me e anche i suoi li ho visti tutti. Dei derby persi non rivedo mai le immagini, dei gol presi intendo: lo stadio trattiene con sé tutto, anche sofferenze e dolori, e là devono restare. Il biglietto è sempre di sola andata. Loro hanno vinto spesso perché avevano paura di noi e la paura chiude parecchi buchi, ti tiene allerta e ti bastano quindici minuti velenosissimi e ti porti a casa il derby con merito. Noi abbiamo perso spesso perché pensavamo che vincere fosse un diritto dovuto, come quei ragazzini dei fratelli Winklevoss, quelli di “The Social Network”, oppure perché eravamo in campo troppo nobili e troppo puliti.

Ero in curva la scellerata sera del cinque a uno, eppure non è stata la serata peggiore, nel senso scellerato e sciupone del termine. C’ero anche al ritorno del primo derby di Di Canio, quando Roberto Policano in giallorosso segnò ma fu annullato, e mi ricordo il boato e la curva Sud che si alza in piedi: mi fece paura. Col tempo mi sono costruito gli anticorpi, anche se le scosse sono sempre forti. Ma è anche per questo che si va: per segnare il territorio, per dire io ci sono, senza ferire nessuno. È l’unica certezza, dopo aver preso il biglietto. Una certezza anche sportiva, che non trasferisce altrove e non strumentalizza il derby.

L’attesa per il derby si sbriciola proprio sapendo che in tasca c’è il biglietto. Mancano poche ore, è il momento in cui tutti si avvicinano al derby. Chi è rimasto fuori per scelta e sicurezza, gli occasionali, i tifosi da divano, quelli belli di coppa, quelli che aspettano solo le interviste a bordo campo: tutti danno un parere come fosse una finale champions su twitter. Arrivano battute lontane, le mani rimangono in tasca. Qualsiasi cosa si dica in risposta, non servirà a nulla davanti ai cancelli. Però inizi a ricordarti quell’aria incattivita del derby. L’attesa del derby è camminare celere dallo scooter verso i tornelli. L’importante è non aver preso il posto in Monte Mario perché altrimenti devi passare sotto la Sud, camminare di fretta nei due lunghi corridoi del Bar del tennis, e farti poi l’ingresso vero e proprio della curva avversaria. Allo stadio si va sempre di fretta, all’entrata e all’uscita, ma questa è una fretta diversa, è incazzata, arrabbiata. Lo senti nelle voci, negli sguardi, nel fiato sul collo mentre stai ai tornelli. È cambiato qualcosa, c’è un tifo di mezzo che ha ceduto gli argini e si è incattivito. Per dire: ho visto due derby in tribuna stampa, mai mi sono sentito così a rischio, pur da professionista. Un posto dove non tornerò mai più.
L’attesa del derby è anche ritrovare mischiato l’album dei ricordi. Vigilia è sempre, la memoria genera ricordi ogni volta diversi delle stesse partite già viste. Tutti i gol che passi in rassegna mentalmente cambiano connotati, li guardi da un punto di vista diverso. Ci sono pareggi a cui mancava poco per diventare vittoria, vittorie stravinte, e poi ci sono sempre quelle partite finite male, per episodi e atteggiamenti, e in sospeso da anni. A volte le sana il campo, a volte rimangono lì in attesa, sempre ad anni di distanza. Il gol di Behrami mette una pezza al rigore di Mihajlovic buttato su Antonioli, il gol di Klose versa cemento armato sulla ferita del rigore sbagliato da Floccari. Ma è una comanda che spunterai solo alla fine, a casa.

A fare da sanatoria generale è venuto il gol di Lulic nella finale di Coppa Italia 2013, la trentesima partita della stagione vista allo stadio. Un derby pericolosissimo per i suoi possibili rovesci, un dentro o fuori di vero azzardo. Da quando a gennaio si era ipotizzata la possibilità di una finale tutta romana avevo detestato questa ipotesi, perché nei marosi contestatari della Lazio sarebbe stata un trappolone. Soltanto 50mila spettatori, a fronte dei grandi derby anni Novanta, molta tensione e paura. Ma non si poteva restare a casa.

È andata che ha servito palla un ex galeotto, ha crossato un ex romanista, l’ha messa dentro un bosniaco di Mostar e sono corsi verso di lui un tedesco-polacco, un rumeno, un nigeriano e un albanese. Marchetti, Konko, Biava, Cana, Radu, Candreva, Onazi, Ledesma, Hernanes, Lulic, Klose, Ciani, Mauri e Gonzalez hanno vinto una partita da Lazio, e un incontro che perderlo avrebbe significato la di sfatta per mille motivi. Un altro giorno di Lazio non si butta via e così è stato: ho fatto le mie cinque ore di stadio, tra attesa, partita e festeggiamenti e poi sono andato da mio padre ad abbracciarlo. Ecco perché il derby è un comandamento del tifoso laziale (e romano).

Di Stefano Ciavatta

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