Il futuro è una terra straniera
Le sensazioni sono una cosa strana, a volte hai come l’impressione che stia per accadere qualcosa di importante.
Chissà se S.G. l’ha sentita una cosa del genere quel 27 aprile 2014.
Un controllo, un attimo di distrazione, un’esitazione. L’avrà fatto migliaia di volte quel controllo a seguire, ma stavolta sente il terreno scorrere sotto i suoi piedi — due volte nel giro di qualche millisecondo — perché gli dei del calcio ogni tanto hanno la tendenza a prendersela con chi ci ha messo tutto.
Demba Ba che si invola verso la porta e mette la parola fine all’unico sogno rimasto da realizzare. Sarebbe sbagliato legare la carriera di un giocatore a una sola azione, ma ignorare quel momento vorrebbe dire anche ignorare il perché Steven Gerrard si appresta a salutare Liverpool dopo 17 anni di onorato servizio.
Un uomo può scrivere la sua storia, ma non sempre il finale sarà quello che più ti aggrada.
I rimpianti
Bisogna esser onesti: per Steven Gerrard non tutto ha brillato. Anzi, dopo i 26 anni sono state maggiori le delusioni che le gioie. Una carriera che parla di dieci trofei vinti, di 706 presenze e 183 gol con la maglia del Liverpool, dove sei nato, cresciuto e sfiorito… beh, non è facile da raccontare. Ma quel momento, da quella rete in Liverpool-Chelsea che forse è costata il titolo della Premier, la ferita è rimasta troppo grande per poter esser rimarginata.
Forse con una Premier in tasca, il buon Steven avrebbe già lasciato nell’estate 2014, da campione e capitano. Forse sono state le responsabilità a farlo restare ai Reds. La stessa che gli fece dire no per due volte a una super-offerta del Chelsea (come lo stesso Gerrard ha ammesso); nonostante dieci anni fa si fosse detto «non contento dei progressi che il club stava facendo», alla fine è rimasto. Mourinho l’ha ricordato prima dell’ultima visita del capitano del Liverpool a Stamford Bridge: «Gerrard è uno dei miei migliori nemici. Ho tentato molte volte di portarlo al Chelsea, ma lui è un romantico».
Invece, quel rimpianto della mancata vittoria in Premier League rimarrà una ferita aperta. Lo stesso StevieG l’ha confermato nella conferenza stampa prima dell’ultima ad Anfield: «Sono orgoglioso di ciò che ho realizzato. Certo, non aver vinto la Premier League sarà un grosso rimpianto, ma è ormai è andata così e adesso non posso farci niente». Un peccato, se si ricorda quanto dopo la vittoria con il Manchester City quell’incantesimo fosse stato vicino a esser spezzato (con tanto di huddle strappalacrime).
Se ci fosse poi qualche altro appunto da fare, riguarda l’impronta lasciata dal centrocampista sulla nazionale inglese. Gerrard ha vestito 114 volte la maglia dell’Inghilterra, segnando 21 gol. Nonostante tre partecipazioni al Mondiale e altrettante agli Europei, la sua era con i Tre Leoni è stata forse la più perdente di tutta la storia britannica. Lui stesso avrebbe potuto portare a quattro i Mondiali e gli Europei disputati, ma nel 2002 s’infortunò prima della Coppa del Mondo e nel 2008 l’Inghilterra non c’era, clamorosamente eliminata dalla Croazia nelle qualificazioni. Lasciare da capitano con la prima eliminazione nei gironi del Mondiale dal 1958 non è stato probabilmente l’addio in cui sperava. Come nel Liverpool, del resto.
A doppio filo
Sono d’accordo con Federico Buffa quando dice afferma che l’auto-referenzialità andrebbe tenuta fuori dal racconto di vicende come quelle calcistiche o sportive in generale. Tuttavia, come lo stesso Avvocato ha poi ammesso in alcune occasioni (vedi MJ o racconto di Messico ‘70), ci sono storie che sono troppo legate a quello che sei. Per me è così in alcuni casi, specie di quel signore con la maglia numero 8, il destro un filino potente e il rosso cucito sulla pelle.
IO SONO CRESCIUTO con Steven Gerrard. Andavo alle elementari quando uno sconosciuto StevieG giocò la sua prima gara con il Liverpool. Ero un ragazzo di 12 anni quando lo vidi esultare a Dortmund per il 2–0 sull’Alaves, in una delle finali più incredibili che abbia mai avuto la fortuna di vedere. E aspettavo una verifica importante quando inzuccò il momentaneo 1–3 nella finale di Champions a Istanbul contro il Milan. Ha segnato troppe tappe della mia vita per poterlo derubricare semplicemente come “un giocatore che mi piace”.
Ho la sua maglia a casa. A lui ho pensato per la mia email quando l’ho dovuta creare per la prima volta. La mia vita calcistica è un po’ Gerrard-centrica: mi sono ispirato a lui quand’ero bambino per pensare a quale tipo di giocatore di calcio avrei voluto essere (sui campi di terra però). Un mastino, un mediano dai mille polmoni e dalla legnata notevole. Alla fine sono diventato un centrale di difesa da partite di calcetto il martedì, ma in cuor mio penso sempre a quelle aspirazioni da ragazzino e a quanto Gerrard mi abbia influenzato.
E in fondo, non sono l’unico ad aver pensato molto a lui, se il Liverpool ha persino dedicato una sezione del suo sito per l’addio capitano con un apposito long-form.
Il suo decennio
Se vogliamo analizzare la carriera di Steven Gerrard (compito non facile), dobbiamo farlo con una premessa: parliamo di uno dei migliori dell’ultimo ventennio. No, non dei migliori centrocampisti, ma tra i migliori in generali. Perché StevieG non ha il gioco a battiti di colibrì come Messi o Di Maria. Non ha l’atletismo da automa di Cristiano Ronaldo o la visione di gioco cristallina come Pirlo. Ha un po’ tutto di queste cose, ma eccelle in altro. È uno che si è costruito una carriera con i sacrifici, con il duro lavoro e con una capacità di valorizzarsi fuori dal comune.
Se dovessi scegliere tre anni per raccontarlo al meglio, il trittico è facile da costruire: 2001, 2005, 2009. Sono probabilmente gli anni migliori della carriera di Steven Gerrard e segnano al tempo stesso tre tappe della sua maturazione come calciatore. Le annate in cui passa attraverso una sorta di trasformazione, di miglioramento costante, fino al picco raggiunto alla fine degli anni 2000.
2001: Parte I — Young Gun
Il 2001 è il momento del primo salto. Stevie ha sofferto di diversi problemi fisici a causa di una crescita accelerata. Cose che possono succedere a un ragazzo di vent’anni. E poi è reduce dall’Europeo 2000 con la maglia dell’Inghilterra: è il suo momento. Il momento di farsi vedere. Gerrard molla il numero 28 con il quale ha esordito e si mette addosso il 17, lasciato libero due stagioni prima da un collega eccellente come Paul Ince. Il 2000–01 sarà la prima stagione con 50 partite alle spalle, la prima conclusa in doppia cifra per quanto riguarda le reti. Ma soprattutto la prima in cui vince qualcosa. Anzi, diverse cose.
Il 2001 del Liverpool è indimenticabile. Se il campionato è avaro di soddisfazioni come al solito (-11 dal Manchester United campione), nelle coppe si vola. Il 25 febbraio arriva il primo successo, con la vittoria ai rigori nella League Cup contro il Birmingham City. Il 12 maggio Michael Owen completa un magnifico comeback sull’Arsenal in League Cup: nella splendida cornice del Millennium Stadium di Cardiff, il Liverpool vince la F.A. Cup in rimonta per 2–1.
Poi c’è la finale di Coppa Uefa appena quattro giorni dopo. In quel di Dortmund, si gioca uno degli ultimi atti più belli della storia del calcio: il Liverpool la spunta 5–4 ai supplementari contro il mitico Deportivo Alaves grazie a un golden auto-gol (quanti ricordi…). Gerrard segna il momentaneo 2–0 e festeggia un treble di proporzioni epiche. Ad agosto aggiungerà anche la Charity Shield e la Supercoppa Europea, per un totale di cinque trofei in un anno. Gli stessi che vincerà nei successivi 14 anni di carriera.
Segna un gol straordinario al Manchester United, buca anche l’Everton per la prima volta nel derby. Ma una grande soddisfazione arriva anche in nazionale. Lo so: la carriera con l’Inghilterra è stata tutt’altro che grandiosa. Tuttavia, la sera del 1° settembre 2001 non sarà dimenticata: nelle qualificazioni al Mondiale, la squadra di Eriksson sbrana la Germania per 5–1 a Monaco di Baviera. La star di quella serata è Michael Owen (tre gol) e la partita viene decisa dai giocatori del Liverpool (su cinque gol inglesi, il 100% è Reds).
Alla fine di quella stagione, Gerrard viene premiato come miglior giovane dell’anno dai suoi colleghi (la PFA) e giocatore dell’anno dai tifosi della Premier. Viene persino inserito nella top 11 scelta dai colleghi ed è giocatore del mese a marzo 2001. Sembra aver finalmente sfondato nel calcio che conta. Tuttavia, nelle successive tre annate, Stevie non tocca più la doppia cifra di realizzazioni. Cresce ancora, ma vince poco (un’altra League Cup). Diventa capitano, ma sembra stanco. Ama il Liverpool, ma vorrebbe vincere.
Arriva persino a consegnare una richiesta scritta di trasferimento al club. C’è chi già si dà allo sport preferito quando una bandiera se ne va in Inghilterra: bruciarne la maglietta (i tifosi del Liverpool ci hanno poi dato sotto con Torres e Suárez). La Kop è in subbuglio di fronte alla prospettiva di perdere la sua colonna, l’uomo di Huyton. Lo stesso Gerrard ha ricordato quella come l’estate più difficile della sua carriera nella sua autobiografia: «Mangiavo paracetamolo come fossero Smarties». Tanti i dubbi, altrettante le voci d’offerta. Finché non arriva l’incontro del destino.
2005: Parte II — The Reborn Identity
Il 2005 è il momento in cui diventi uomo a tutti gli effetti. L’estate prima ad Anfield è arrivato un vincente, uno dei manager più in voga a quell’epoca: Rafa Benitez. Giunto da Valencia, convince Gerrard a rimanere e si porta dietro un notevole contingente di lingua ispanica (da Josemi a Xabi Alonso, passando per Luis Garcia e Morientes). Rafa studia anche un piccolo cambio per Gerrard: quello di posizione. Vuole Stevie più vicino alla porta, anche perché si è accorto che il 24enne capitano del Liverpool è pronto per diventare una stella a tutti gli effetti. Il 2004–05 gli darà ragione.
Stevie ha chiuso il 2004 con il gol più importante della sua carriera: una bordata di esterno destro in casa contro l’Olympiacos, che è valso il passaggio del suo Liverpool agli ottavi di Champions League. Con la sua squadra sotto, il centrocampista se la carica sulle spalle e riesce a portare a termine l’impresa. È il segno definitivo che la sua carriera sta per cambiare: da brutto anatroccolo che pesta tutti a centrocampo a uomo decisivo per la manovra del Liverpool. Simbolo non solo fuori, ma anche in campo. Ancora oggi Gerrard rivendica quel momento: «È stato sicuramente il gol più importante della mia carriera».
In campionato le cose non vanno bene: come al solito, Benitez non è uomo per le lunghe distanze. Lui è un corridore a ostacoli, fatto per le coppe e le partite secche. Il Liverpool finisce quinto in campionato, persino superato di tre punti dai cugini dell’Everton, felici come non mai per il primo sgarbo da lungo tempo. In League Cup, il Liverpool arriva in finale, ma perde e regala il primo trofeo a José Mourinho da allenatore del Chelsea. Finisce 3–2 per i Blues ai supplementari, ma soprattutto i Reds avrebbero potuto vincerla già nei 90 minuti. In vantaggio con una rete di Riise, è un autogol di Stevie a regalare il pareggio con un beffardo colpo di testa.
Come al solito, le cose vanno meglio in Europa. Dopo il miracolo con l’Olympiacos, il Liverpool passeggia sul Bayer Leverkusen, poi fa fuori con quattro gare toste prima la Juve e poi il Chelsea (famoso il gol contestato a Luis Garcia nella gara di ritorno). Mourinho schiuma di rabbia, ma il Liverpool è a Istanbul, dove affronterà il Milan. I rossoneri di Ancelotti hanno sofferto molto contro il PSV, mentre il club inglese è alla prima finale di Champions dopo vent’anni dalla tragedia dell’Heysel. Benitez lo sa, ma non ha problemi: «Il Milan è favorito, ma noi siamo sicuri di noi stessi e possiamo vincere».
Eppure il 4–4–1–1 dello spagnolo viene spazzato via nei primi 45’ dal Milan. Un 3–0 netto a firma di Maldini, Shevchenko e Crespo. Una dimostrazione di gioco e di forza straordinaria, tanto che il sorriso a 48 denti di Silvio Berlusconi campeggia fiero sulle tribune dell’Ataturk. I tifosi del Liverpool sono immobili e Rafa Benitez tra primo e secondo tempo cambia qualcosa.
Benitez cambia dal 4–4–1–1 iniziale a un 3–5–2 con l’entrata in campo di Hamann per Finnan. I tre di centrocampo sono Xabi Alonso, il tedesco e Gerrard: i primi due si occupano di Kakà, il terzo deve buttarsi alle spalle di Baros. Certi uomini sbocciano nei momenti più opportuni: per Gerrard è così. Segna il primo gol della rimonta e si guadagna il rigore del pareggio. Non tirerà nessun penalty nella lotteria finale, ma va bene così grazie a san Jerzy Dudek: a 24 anni, alza la Champions League. Il Liverpool sarà anche l’ultimo club per regolamento Uefa che si potrà tenere una copia originale della coppa.
Ormai Gerrard è universalmente riconosciuto come un giocatore d’alto livello. Bastino per tutti due testimonianze. La prima è di quei tempi e a farla è Thierry Henry, che nel dicembre di quell’anno dirà queste parole su S.G.:
«Dopo Istanbul, è un peccato che Gerrard non abbia vinto il Pallone d’Oro. Per me, è il migliore di tutti. Non riesco a pensare a un attaccante che abbia segnato tanti gol importanti quanto lui, figuriamoci un centrocampista… quante volte l’ha fatto nei momenti finali di una gara?».
La seconda è di qualche ora fa. Nell’omaggiare un suo compagno per sette anni, John Arne Riise — oggi all’Apoel Nicosia — ha voluto ringraziare Gerrard. Lo ha descritto come un leader nato, come un uomo capace di qualsiasi impresa, nonché un amico. Ma soprattutto ha detto:
«Ho vinto una Champions League con lui, anche se penso sempre che lui l’abbia vinta per noi».
Il Chelsea lo cerca (e lo cercherà ancora), ma Steven conferma la sua permanenza ad Anfield con una frase semplice nel post-gara di Istanbul: «Come posso lasciare tutto questo?». Nonostante un’estate difficile in quel 2005, ad anni di distanza Gerrard lo pensa ancora:
«La finale di Champions League contro il Milan? La notte più bella della mia vita. Se ci ripenso ho ancora la pelle d’oca. Ha avuto l’andamento più bello possibile: penso che l’evoluzione della serata, come siamo riusciti a rialzarci dal 3–0, la farà passare alla storia come una delle finali più belle di sempre».
Gerrard arriva terzo nella classifica del Pallone d’Oro 2005, a mio modo di vedere uno dei più contestabili della storia. Tuttavia, la sua ascesa è appena iniziata: nella top 11 scelta dai giocatori della Premier per sei stagioni consecutive, Gerrard è il top-scorer del Liverpool nelle prime due annate con Benitez. Si porta a casa una F.A. Cup da solo (povero West Ham) ed è persino terzo nella classifica della personalità sportiva dell’anno stilata dalla BBC. Il top lo si tocca nel 2006: per l’IFFHS di Losanna è il giocatore più popolare al mondo.
Ormai Steven Gerrard è costantemente tra i 10 giocatori più forti del pianeta. Fino a quel fantastico 2009, dove — forse — si prende lo scettro in prestito per un anno, prima che Messi e Cristiano Ronaldo decidano di monopolizzare il trono di interprete più forte del mondo.
2009: Parte III — Stardom
Nel 2009 Gerrard gioca una stagione incredibile. Nell’anno in cui nasce il Barcellona di Guardiola e si consacra definitivamente un giocatore come Andres Iniesta, che a 31 anni e a metà dei giri di quegli anni fa ancora queste cose.
Benitez ha già spostato Gerrard in avanti da qualche anno, ma in quegli anni la partnership con Fernando Torres è qualcosa di mostruoso. I due hanno già avuto un anno di “apprendistato” (54 gol insieme), ma sono impressionanti nel 2008–09: il giocatore più forte del mondo insieme al numero 9 più devastante dell’epoca nei suoi anni migliori. Raramente ho visto una coppia composta da un centrocampista e da un attaccante così in sintonia. Il Liverpool — macchina da coppe negli anni 2000, ma mai vicina a vincere la Premier — sembra finalmente potercela fare. Insieme al 2013–14, è la chance migliore avuta da Gerrard in campionato.
La forza del Liverpool di quell’anno sta nel togliere un po’ di peso dalle spalle di Fernando Torres (che comunque fa 17 gol: gli stessi fatti nelle ultime due stagioni!) e dare più responsabilità al resto della squadra. Sembra un annata diversa dalle solite: la prima in casa finisce con una vittoria contro il Middlesbrough all’ultimo minuto, proprio grazie a un gol di Gerrard, arriva la prima vittoria di Benitez contro lo United. Le rimonte diventano il marchio di fabbrica del 2008–09: saranno ben otto i comebacks vittoriosi tra campionato ed Europa, tra cui quelli epici contro Manchester City e Portsmouth. Il Liverpool perde solo due delle 38 gare di Premier e ha il miglior attacco del campionato. Benitez fa sei punti su sei contro il Manchester United e conclude la serie di 86 risultati positivi del Chelsea a Stamford Bridge, battendolo per 1–0. Eppure, a fine anno, i troppi pareggi condannano il Liverpool all’ennesimo secondo posto.
In Champions le cose non vanno molto meglio: partiti dai preliminari, il Liverpool domina il girone. Poi viene estratto agli ottavi contro il Real Madrid, affidatosi a Pellegrini per tornare a vincere in Europa. Eppure il Liverpool tira fuori i migliori 180’ mai visti. Specie la partita di ritorno — vinta 4–0 ad Anfield — consegna ai tifosi Reds una squadra mostruosa. Torres e Gerrard demoliscono i Blancos. Nella sera della sua centesima presenza in Europa con il Liverpool, ho seriamente pensato che il numero 8 con la maglia rossa fosse diventato il miglior giocatore al mondo.
Il Liverpool uscirà nei quarti contro il Chelsea, e la stagione si conclude ancora senza trofei. Tuttavia Gerrard è il capocannoniere della squadra (terzo in classifica marcatori!) e viene premiato con il premio di miglior giocatore dell’anno sia dai colleghi che dai giornalisti. In un’annata senza tornei internazionali, Steven arriverà solo nono nella classifica del Pallone d’Oro. Mancano i trofei, ma anche questa volta la sua posizione sembra non rispecchiare il suo valore (24 reti in 44 presenze da centrocampista, una presenza costante in ogni vittoria della squadra)?
Come per chi raggiunge la vetta, da quel momento si può solo cadere. Benitez lascia Liverpool e la squadra torna a lottare soprattutto per l’Europa League. Di vincere il campionato non se ne parla. Al massimo si porta a casa una League Cup contro il Cardiff City nel 2012 dopo dei sofferti rigori (il cugino di Gerrard sbaglierà…). Togliendo The Slip, purtroppo, chance vere di trionfare in Premier League non se ne ripresenteranno.
Legacy
Paradossalmente, nonostante non abbia mai vinto né la Premier League né qualcosa con la sua nazionale, Steven Gerrard rischia di lasciare un’eredità maggiore di giocatori più vincenti di lui, sulla generazione di tifosi del calcio che lo ha visto crescere. Non soltanto per la sua identità col club (ne abbiamo già parlato qui), ma per quanto realizzato in campo.
Basti riflettere sulle parole di Daniele De Rossi e Claudio Marchisio, due che conosciamo bene. Il vice-capitano della Roma ha appena tre anni in meno di S.G., ma ha descritto così la sua figura:
«Gerrard è stato un mio idolo per dieci anni ed è uno dei migliori giocatori al mondo. Lui è l’esempio di quello a cui aspirano tutti i centrocampisti del mondo. Sempre nel cuore della battaglia, è ovunque tu possa guardare. Mi piacerebbe esser a quel livello».
Almeno a livello offensivo, non ci è mai arrivato: giocatori troppo diversi. Così invece il numero 8 della Juve:
«Mi è sempre piaciuto molto. Ricordo quando guardavo la rimonta del Liverpool del Milan nella finale di Istanbul: Gerrard era ovunque. Lo vedevi davanti, sulle fasce e persino in difesa, marcando il playmaker avversario. Non ho mai visto un centrocampista così completo».
E hanno ragione entrambi. Steven Gerrard ha giocato in almeno nove degli undici ruoli in campo. Nato centrocampista difensivo, ha poi giocato da mezzala pura. Poi Benitez l’ha spostato prima da trequartista offensivo, poi da seconda punta dietro Torres. Ha giocato sulle fasce. Delle volte, in emergenza, è stato persino l’unico centravanti. Senza dimenticare che a inizio carriera ha fatto anche il centrale difensivo, così come succede con Rodgers quando si imposta l’azione dalla propria metà campo. E nella sua prima gara da titolare al Liverpool — contro il Tottenham — dovette marcare David Ginola nella sua posizione di terzino destro. Insomma, gli è mancato il portiere.
Un’ultima citazione va al trademark di Gerrard, il suo marchio di fabbrica. Ovvero il tiro. Negli anni si è migliorato sempre di più. Che avesse una discreta legnata lo si era visto già quando aveva vent’anni, ma col passare del tempo ha perfezionato una tecnica che l’ha reso unico — nonché letale — per un buon decennio. In particolare, il destro di Gerrard ha quattro tipologie di manifestazione quasi oniriche.
E poi mi dovete trovare un centrocampista che ha segnato cinque triplette in carriera (di cui una in un derby).
Il momento giusto
Tuttavia, le bandiere sono fatte anche per essere ammainate. Lo stesso vale per Gerrard. La sua stagione è stata forse una delle peggiori della sua carriera. Come detto all’inizio, l’errore contro il Chelsea della passata stagione ha lasciato una cicatrice, una ferita forse non rimarginabile. Lui stesso ha ammesso che l’estate 2014 è stata un incubo: «Sono stati i tre mesi peggiori della mia vita». Tra la delusione con il Liverpool e l’eliminazione precoce da capitano dell’Inghilterra, c’è da credergli.
Forse il frame migliore per raccontare l’ultima stagione di Gerrard con la maglia del Liverpool sono i 38 secondi di follia che percorrono la sua testa nella gara interna contro il Manchester United. Entrato nell’intervallo al posto di Lallana, l’obiettivo è riequilibrare la sfida contro la squadra di van Gaal, in vantaggio per 1–0 ad Anfield. Un paio di passaggi, un intervento duro su Mata e poi la reazione stizzita nei confronti di Ander Herrera, reo di essergli entrato in maniera veemente. Stevie reagisce e gli calpesta il polpaccio. Con lo stamp più famoso dell’ultimo anno, si conclude la sua gara.
Lo so che potrei parlarvi dei suoi 10 gol in questo 2014–15, ma questo è il momento chiave della sua stagione.
Per altro, il Liverpool ha cambiato decisamente troppo quest’estate. Dopo aver aspettato Rodgers per due anni e aver raccolto i frutti del suo calcio-spettacolo, si è ceduto per forza il giocatore più fondamentale. Quel Luis Suárez che oggi fa le fortune del Barcellona, anche se il Liverpool si è preso volentieri i 75 milioni di euro della sua cessione. Al suo posto, sono arrivati Balotelli, Markovic, Lambert e Lallana. Nonostante l’importo totale equivalga a quello guadagnato dalla cessione dell’uruguayano, le cose in campo non sono andate per il verso giusto.
Innanzitutto l’Europa. Ci si aspettava di andar avanti il più possibile. Magari col passare del tempo i nuovi si sarebbero integrati. Invece niente: fuori al girone con Real Madrid, Basilea e Ludogorets. Una sola vittoria all’ultimo secondo contro i bulgari. Non è andata meglio in Europa League, dove il Besiktas ha eliminato il Liverpool ai rigori. Male anche nelle coppe nazionali, il campionato è stato un calvario, specie nella prima parte: il Liverpool alla fine del girone d’andata era ottavo. Ora le cose sono migliorate, ma più di un piazzamento in Europa League forse non si poteva fare.
Così, con l’arrivo del nuovo anno, S.G. ha sorpreso ancora una volta tutti: ha detto basta all’amore di una vita. Basta ai colori della sua infanzia, basta ad Anfield che loda il suo nome all’unisono, basta alle sue parabole magiche sotto la Kop che regalavano vittorie all’ultimo secondo. Lui ha spiegato così la sua decisione: «Sto dicendo questa cosa ora in modo tale che il manager e la squadra non siano distratti da speculazioni sul mio futuro. Il Liverpool è stato una grande parte della mia vita e dire addio sarà difficile. Ma penso che sia la cosa migliore nell’interesse di tutti, inclusi quello del club e della mia famiglia. Giocherò ancora, ma non in Inghilterra. Giocare contro il Liverpool è qualcosa che non posso contemplare».
In ultima ratio, l’addio è arrivato prima sempre perché l’uomo pensa più al suo club, ai suoi tifosi che a sé stesso. Ma il vero addio è arrivato sabato, giorno dell’ultima partita casalinga in questa deludente stagione del Liverpool. Uno stadio “apparecchiato” apposta per S.G. contro il Crystal Palace. Un match che è diventato un apposito saluto al centrocampista.
His Goodbye
Dicevamo all’inizio: sensazioni. Il vocabolario le definisce con molte accezioni, ma anche come «percezione indeterminata, impressione».
Chissà se S.G. ha sentito qualcosa di simile il 29 novembre 1998. Ad Anfield, il Liverpool ospita il Blackburn Rovers. I Reds stanno gestendo un tranquillo 2–0 grazie alle reti di Paul Ince e Michael Owen, finché l’allenatore Gerard Houllier non opta per un cambio da fine gara. Di quelli che si usa per far prendere a un determinato giocatore gli applausi. Quel qualcuno era Vegard Heggem, nazionale norvegese a Francia ’98 e titolare della fascia destra in quella stagione. Alla fine Heggem è rimasto famoso per due cose: un gol meraviglioso contro il Middlesbrough e l’altra è aver lasciato spazio al futuro simbolo della Kop.
E pensare che cinque giorni prima era stato in trasferta a Vigo con la squadra per giocare una gara di Coppa Uefa, ma alla fine non era entrato in campo. Il diretto interessato ricorda quel momento in cui tutto ebbe inizio:
«Tutti i panchinari hanno applaudito quando il tecnico ha mandato a riscaldarmi. Beh, quasi tutti…».
La Kop non era convinta, infatti, di quel ragazzo tutte ossa e niente muscoli. In un paio di mesi, la gente si ricrederà subito.
17 anni dopo, eccoci qui: l’ultima ad Anfield, la gara contro il Crystal Palace. Gerrard ha calcolato ciò che potrebbe succedere quel sabato: «Sarà sicuramente strano. Sarà un giorno emozionante per me e per la mia famiglia. So che sarò osservato durante il week-end. Non mi piace essere al centro dell’attenzione, ma spero di poter fare una buona prestazione per i tifosi. Così potrò godermi l’uscita al meglio». Quando gli ricordano che mancano solo un paio di partite prima che la sua carriera con il Liverpool sia finita, Gerrard fa lo schivo:
«Non ci voglio pensare molto. Molti ne parlano, ma io voglio solo rimanere concentrato sulla prossima gara e sugli allenamenti da fare. Ci sarà un sacco di tempo per esser sentimentali dopo queste partite».
Alle ore 17.30 locali, è tutto pronto. I cartoncini per la coreografia, i compagni, gli avversari: sembra il solito scenario, ma di abitudinario non c’è nulla. Ci sono quasi tutti ad Anfield. C’è Gerard Houllier, l’uomo che l’ha fatto crescere e che gli ha dato la fascia di capitano. C’è Ian Rush, leggenda del Liverpool e primatista di gol segnati con i Reds. E anche chi lo ringrazia da lontano (come Suárez o Agger) è come se lo stesse omaggiando da vicino. È come la scena finale di Scrubs, nella quale il protagonista J.D. rivede in una sequenza sognante tutti coloro che hanno caratterizzato la sua vita in ospedale.
Si potrebbe quasi scrivere un trattato in “Psicologia dell’addio” con l’ultima di Steven Gerrard ad Anfield. Il riscaldamento è come uno qualsiasi, ma quando vedi che tutti entrano in campo e che Gerrard rimane fermo nel sottopassaggio ad aspettare l’annuncio del suo nome da parte dello speaker, capisci che siamo di fronte alla fine. Lo spettacolo della Kop è il minimo per chi ha speso tutta la sua carriera con la stessa maglia, quella che amava fin da bambino.
Gerrard entra con le tre figlie al seguito: si vede che è commosso, ma c’è ancora la partita da giocare. Il capitano del Liverpool parcheggia momentaneamente le tre figlie e saluta tutti gli avversari a centrocampo. Poi c’è un momento che ci fa capire qualcosa in più di StevieG: la più piccola si copre le orecchie per il boato della Kop e lui scherza con la sua bambina. Ha gli occhi tipici di un padre colmi d’amore per la figlia, ma un velo di malinconia accompagna il suo volto. A metà tra quello che è stato e quello che sarà.
Sulla partita c’è poco da dire. Gli ultimi 90’ di S.G. ad Anfield sono un po’ come quelli del Liverpool di quest’anno: tanta grinta, molta confusione e poche occasioni. Dopo un buon inizio, Lallana porta in vantaggio i Reds, ma lo fa solo su un errore della difesa avversaria. Quando il Crystal Palace inizia a macinare gioco, il pareggio arriva subito. Nella ripresa il 2–1 è in fuorigioco e il rigore del 3–1 è in realtà una punizione fuori area, ma nessuno protesta. Nessuno s’indigna. La gara non interessa forse a nessuno.
Forse neanche a Stevie che spera di segnare un gol per lasciare Anfield in maniera adeguata, ma alla fine è costretto nel primo tempo a giocare molto basso, quasi ad aiutare Skrtel, Lovren ed Emre Can nella costruzione del gioco. Quando Rodgers nella ripresa fa entrare Lucas Leiva per permettere al capitano del Liverpool di avanzare, in realtà non cambia molto. Il Liverpool raramente tira in porta, lo fara due volte, proprio con Gerrard: uno è un destro di molto a lato, l’altro è una punizione alta. E pensare che c’erano tutti gli smartphones del mondo pronti a riprendere l’ultimo gol di Gerrard ad Anfield. Invece, quel titolo rimarrà alla rete decisiva per il 2–1 contro il QPR.
Arriva il momento del fischio finale. Sarebbe una gara di Premier League (per altro il Liverpool deve ancora confermare il suo quinto posto), ma tutto è edulcorato. È come quei momenti al rallenty dove vedi tutta la vita passarti davanti: senti la Kop gridare il tuo nome come tante altre volte, ma più forte. Sai che la fine è arrivata. Capisci che sono gli ultimi passi sul campo di Anfield da giocatore del Liverpool in una gara ufficiale quando gli avversari si complimentano con te e i compagni, che ti abbracciano come se tu stessi per scomparire in una dimensione esoterica, sono più emozionati di te.
Tutti si avvicinano. Soprattutto gli avversari sono i primi a tributare gli applausi a Gerrard: Scott Dann, che è di Liverpool e tifa Liverpool, abbraccia l’idolo di una vita; Martin Kelly, che con Gerrard ha giocato sette anni ed è cresciuto nelle giovanili Reds, si lascia andare a una veloce pacca sulla testa, come se non ce la facesse ad assistere a quell’addio; Yannick Bolasie — giocatore devastante, lo vedrete ancora meglio l’anno prossimo — è il primo a complimentarsi con Gerrard al fischio finale. Lo abbraccia, anche se S.G. sembra un po’ titubante. Come se non volesse iniziare il round dei saluti. Alla fine, dopo gli abbracci di rito, si torna negli spogliatoi.
I suoi compagni — in campo e non — mettono tutti la “8”, pronti a dire addio al loro capitano. Gerrard vive questo momento in una bolla di vetro, come tutta questa giornata. Arriva come al solito dopo gli altri, quando risale per l’ultima volta le scalette di Anfield (con la maglia della nuova stagione: indizio?), le gambe sembrano più pesanti. Il primo abbraccio è per Houllier, ma tutti sono lì per lui. Tutti pendono dalle sue labbra. Il suo discorso non ha un’esitazione.
«Mi sono preparato cinque mesi per questo e sto facendo del mio meglio per trattenermi. Quello che i fans hanno fatto per me oggi, oltre a questi 17 anni insieme, mi rende senza parole. Ho il cuore che mi batte forte come la prima volta che ho giocato ad Anfield: amo questo club, amo i giocatori e lo staff. Ho amato ogni momento di quest’avventura: è andata così veloce e sono devastato dal fatto che non tornerò qui a giocare. Ho provato a dare tutto. Ho sperato di vincere oggi, ma non è andata così. Sono però orgoglioso di quanto ho fatto e spero che tutti abbiano qualche ricordo legato a me».
Poi un momento d’esitazione. La voce non è rotta dall’emozione, ma gli occhi mostrano la difficoltà di un uomo nel dire addio a ciò che è stato per vent’anni.
Si chiude con la cosa più semplice, ma più sincera che un capitano possa dire ai suoi tifosi:
«Prima che le lacrime arrivino, fatemi dire una cosa. Ho giocato davanti tanti tifosi nel mondo, ma voi siete i migliori. Grazie molte, vi auguro il meglio!».
Comincia il giro di campo per salutare tutti. Lo stadio e i tifosi chiamano il suo nome all’impazzata. Certo, c’è un’ultima gara — il Liverpool sarà di scena a Stoke-on-Trent nell’ultima di campionato — ma l’addio ad Anfield, l’ultima presenza a casa tua prima di partire per l’America… beh, conta quella. Anzi, viene da dire che la carriera di Steven Gerrard finisce qui: quello che giocherà negli States sarà un fratello gemello. Ma è bello pensare che S.G. abbia dato tutto quello che aveva.
In vita mia ho pianto poche volte per il calcio: è uno sport emozionale, ma non l’ho mai vissuto con un sentimento negativo. Quelle poche occasioni in cui mi è capitato di piangere riguardavano risultati negativi. Mai avevo pianto per l’addio di qualche giocatore.
Eppure sono lì, davanti alla tv di casa mia e sento una lacrima scorrere sul mio viso. Poi un’altra. Finché non sono un rubinetto rotto e non riesco a fermarmi. In qualche casa ci sarebbe stupore. Da me non è così: sanno che significato ha Steven Gerrard. Attenzione: non per me. Non per i tifosi del Liverpool. Credo forse per l’intero mondo del calcio. In sottofondo un coro ci accompagna:
«Steveeeee Gerrard, Gerrard | He’ll pass the ball 40 yaaaards! | He’s big and fucking haaard! | Steve Gerraaaard, Gerrraaarddd…».
L’autoreferenzialità, lo so, è una brutta bestia. Però credo che aggiungere dei dettagli personali alle storie dei giocatori che ti hanno segnato sia essenziale. Come ha detto Khalil Gibran: «È sempre accaduto che l’amore abbia ignorato quanto fosse profondo fino al momento del distacco».
Vero, non se ne sta andando fisicamente. Ma forse spiritualmente sì. E per lui — un’intera carriera ad Anfield — che sta andando a vivere proprio nella città degli angeli per essere un Galaxy, non riesco a trovare una metafora migliore. Il presente piange, ma il futuro è una terra straniera.
Articolo a cura di Gabriele Anello