Il giro della morte, il giro della vita
Durante le Olimpiadi di Atlanta ’96 avevo sei anni e mezzo, con quel “e mezzo” che a quell’età ti faceva sentire un uomo già arrivato. Indossavo una maglietta con Izzy, la mascotte di quella edizione, un essere blu informe con saette al posto delle sopracciglia, scarpe rosse e torcia tenuta alta in cielo.
Adoravo quella maglietta. Era il periodo in cui trovava spazio dentro me il feticismo per le cerimonie d’apertura, ma la mia ancora acerba cultura sportiva non mi consentiva di assaporare appieno uno dei momenti più emozionanti nella storia dello sport e non solo, con Mohammed Alì ultimo e irripetibile tedoforo.
Sono state le Olimpiadi di Michael Johnson, la cui doppietta 400–200 (con record del mondo) tecnicamente ed emotivamente vale più di tutte le doppiette 100–200 di un Bolt qualunque.
Con quel petto fin troppo in fuori e quelle scarpe fin troppo dorate è stato amore a prima vista. Un amore lungo un giro di pista, fatto in apnea con l’acido lattico che sopraggiunge appena si imbocca il rettilineo di arrivo e blocca le gambe come se fossero imprigionate nelle sabbie mobili.
Il giro della morte (così sono chiamati i 400 metri) nella gara femminile sarebbe potuto passare alla storia se Cathy Freeman con il suo argento non fosse diventata la prima atleta australiana aborigena a essere incoronata campionessa olimpica. Tra tutte le non-vittorie, forse la migliore possibile per lo sport australiano. Quale prodromo migliore per Sydney 2000.
Niente maglietta con mascotte questa volta, ma addosso c’era la stessa grande voglia di vedere la cerimonia d’apertura, curioso di scoprire l’identità dell’ultimo tedoforo. A far terminare la corsa del sacro fuoco olimpico c’era una faccia conosciuta, scoperta quattro anni prima, quell’australiana aborigena pronta a fare la storia. Il cerchio si stava chiudendo.
Cathy Freeman avrebbe dovuto rappresentare il ponte tra due Australie che fino a pochi anni prima erano separate da un solco profondissimo. La situazione razziali tra bianchi e aborigeni nel ‘900 era diventata insostenibile, con gli ultimi ad avere la peggio. Massacri, persecuzioni, violenze fisiche e psicologiche avevano colpito anche la famiglia della stessa Freeman. La nonna fece parte della cosiddetta Stolen Generation, una politica secondo cui i bambini aborigeni dovevano essere sottratti con la forza ai propri genitori e affidati a famiglie di bianchi.
Nel 1992, a pochi mesi dall’assegnazione dei giochi del 2000, l’Australia veniva considerato da molti un Paese non privo di tinte razziste, e la candidatura di Sydney, dato il trattamento che veniva riservato agli aborigeni, fu accolta con diverse perplessità. Ciò nonostante, nel 1993 la città australiana battè la concorrenza di Pechino e si aggiudicò le prime Olimpiadi del nuovo millennio.
Durante i sette anni di avvicinamento alla manifestazione a cinque cerchi, la situazione in Australia conosce un deciso miglioramento, ma viene comunque chiesto alla Freeman di boicottare le Olimpiadi di casa non presentandosi per le gare. La risposta dell’atleta non tarda ad arrivare:
“Non correre significherebbe privarmi di gran parte della mia vita. La gente vuole un segno forte, un atto di protesta e il più grande segno che potrò dare sarà correre i 400m e portare la bandiera aborigena sul gradino più alto del podio”.
Quella stessa bandiera mostrata più di una volta durante i suoi giri d’onore che le causò più di una reprimenda da parte della Commonwealth Association.
La Freeman arriva a Sydney da favorita dopo aver vinto i Mondiali del 1997 e del 1999, ma lo spauracchio francese di Marie-José Pérec — colei che l’aveva battuta ad Atlanta ’96 — è vivido e ingombrante. La cosa più ingombrante di tutte era però quello stadio con 112,574 mila persone trepidanti e speranzose di assistere a un momento irripetibile.
Lunedì 25 settembre è il giorno che tutta Australia sta aspettando. La Freeman sembra essere arrivata direttamente dallo spazio, con un body bianco-verde che la ricopre dalla testa ai piedi e un “peso” sportivo ed extra-sportivo paragonabile solo a quello che aveva avuto Jessie Owens. L’atmosfera è pazzesca; lo Stadio Olimpico è un calderone pronto a straripare.
Allo sparo dello starter, l’Australia intera esplode.
La Freeman controlla la prima parte di gara, rimanendo nelle prime tre posizioni: dopo la seconda curva, ai sessanta dal traguardo, l’oro è suo. Corre un enorme 12.97 negli ultimi 100 metri, mentre per le altre è il momento di vedersela con le sabbie mobili. Il maledetto acido lattico arriva, ma l’aborigena venuta dallo spazio sembra non curarsene.
Le gambe iniziano ad essere legnose, i movimenti non sono più armonici, la testa inizia a barcollare mentre la Freeman se ne va a tagliare il traguardo. Un boato lungo 49.11 secondi attraversa tutta la nazione per tornare sulla pista.
https://www.youtube.com/watch?v=CcFqCerFPNE
I secondi successivi sono un misto di incredulità e gioia. Tagliato il traguardo si leva il cappuccio, si siede e cerca di realizzare quello che è appena accaduto. Si rialza dopo alcuni secondi che sono sembrati un’eternità; bandiera aborigena in una mano, bandiera australiana nell’altra. Tutto il mondo è in piedi ad applaudire la nuova campionessa olimpica durante il suo giro di pista, quattrocento metri attorno ad una folla festante che non bastano, il cammino è ancora lungo.
Solo otto anni dopo infatti, nel febbraio 2008, è stato ufficializzato un passo importante verso la riconciliazione, sotto il governo del premier Kevin Rudd. Un primo grande mattone è stato però posato da Cahterine Astrid Salome Freeman. Nome più azzeccato non poteva esserci.
Il nome Catherine deriva dal greco e significa “purezza”; Astrid deriva dal tedesco e significa “stella”; “Salome” in ebraico significa “pace”. Il cognome Freeman tradotto in italiano suona come “uomo libero”.
Dichiarerà che quella vittoria non avrebbe avuto ripercussioni politiche, ma che almeno aveva reso felici milioni di persone, primi fra tutti gli aborigeni.
Allo scoccare del Millennio il volto rappresentativo dell’Australia è aborigeno, quello di Cathy Freeman.