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Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readJun 22, 2018

La foto più iconica della storia del calcio inglese ritrae il compianto Bobby Moore che solleva al cielo di Wembley la Coppa Rimet mentre viene portato in trionfo dai suoi compagni di squadra. La nazionale dei Tre Leoni ha appena vinto in una rocambolesca finale contro la Germania Ovest il suo primo, e finora unico, Campionato del Mondo. Ma a mostrare orgoglioso il trofeo ai 100 mila del vecchio Stadio dell’Impero, quello delle due torri e non dell’arco, sarebbe potuto esserci stato un altro ragazzo dal sorriso gentile e dalla personalità dominante: Duncan Edwards. Lo pensa e lo racconta nel prologo del suo libro “Duncan Edwards, il più grande”, edito in Italia dalla 66thand2nd, il giornalista e scrittore gallese James Leighton, che prova a immaginare come si sarebbe svolto il corso del football mondiale se il giovane fenomeno del Manchester United e della nazionale inglese non fosse perito a soli 21 anni nella tragedia di Monaco di Baviera, che nel 1958 decimò i fantastici Busby Babes.

Secondo Leighton, la carriera di Edwards avrebbe assunto toni da leggenda: i Red Devils avrebbero inanellato una serie di trionfi domestici e in Europa tali da assurgerli allo stesso empireo del grande Real Madrid, mentre dopo averla sfiorata nelle edizioni del 1958 e del 1962, l’Inghilterra avrebbe vinto l’allora Coppa Rimet nell’edizione casalinga del 1966. Quest’ultimo evento è realmente accaduto, ma è evidente che, come narra Leighton, al posto di Moore ci sarebbe stato lui, il ragazzone delle Black Country ormai arretrato a perno della difesa dopo anni a dominare incontrastato a centrocampo. Sarebbe stata la ciliegina sulla torta di una vita dedicata al calcio e il momento che lo avrebbe consacrato come “il più grande”.

Nella sua minuziosa e certosina ricostruzione dei pochi ma intensi anni da calciatore di Big Dunc, come lo chiamavano i compagni, Leighton ha attinto da tutte le fonti a disposizione, più cartacee che in formato video o fotografico, visti i tempi. Accantonato un giustificato scetticismo iniziale, è giunto alla conclusione che un giocatore così completo, abile a occupare qualsiasi posizione su un campo da gioco, all’interno del quale sapeva fare tutto — che fosse un tackle, un tiro da 30 metri, un colpo di testa, un lancio millimetrico o un dribbling — e in possesso di un acume tattico e di una tecnica individuale fuori dalla norma, grazie a tutte queste doti messe insieme, sarebbe stato consacrato come il più forte della storia del calcio, più dei celestiali Pelé e Maradona, più degli all around Crujiff e soprattutto Di Stefano.

Chi non ha mai avuto dubbi sull’eccellenza assoluta di Edwards è il suo grande amico Bobby Charlton, scampato per miracolo all’incidente aereo di Monaco di Baviera e destinato a vincere il Mondiale del 1966 e la Coppa dei Campioni del 1968 (la prima del Manchester United e di una squadra inglese) da protagonista. Ovviamente non sappiamo se Leighton e Charlton avessero ragione e se Edwards sarebbe diventato sul serio il più bravo di tutti, però possiamo credere che tante delle cose che prefigura l’autore nel suo libro si sarebbero davvero potute realizzare, eccome.

“Aveva il fisico di un uomo, davvero di un gigante, anche se aveva il viso da ragazzo. / Un predestinato: come George Best imparò a giocare a pallone ancor prima di camminare”, è una delle testimonianze riportate nel libro per corroborare il suo titolo così ambizioso.

Non va dimenticato che il buon Duncan già da adolescente era stato temprato dalla scuola della vita, vivendo i durissimi anni del secondo dopoguerra e dovendo superare lo shock della morte della sorellina per una meningite fulminante. Un aiuto fondamentale glielo diede la grande passione per il calcio, che lo rese famoso già da bimbetto nella sua città natale: il centro minerario di Dudley. La eco delle sue imprese arrivò fino alla vicina Wolverhampton, dove la squadra stava vivendo il suo periodo d’oro grazie a campioni del calibro di Billy Wright e al manager Stan Cullis.

Duncan era una ragazzo timido, con una curiosa passione per i balli Morris and Sword e una voglia di studiare ridotta al lumicino. A lui interessava solo il football e, non a caso, bruciò le tappe nelle nazionali giovanili e seppe resistere alle sirene dei Wolves per sposare il “progetto”, come diremmo adesso, di Matt Busby. Il vate scozzese fu il primo a costruire una squadra fortissima incentrata su giovani talenti, cosa che da allora è divenuta il tratto distintivo dei Red Devils, valorizzato al massimo da Ferguson e ora miseramente svilito da Mourinho.

La scommessa di Busby pagò, eccome. I suoi fanciulli, con Edwards a comandare le operazioni a centrocampo, trionfarono in due campionati inglesi consecutivi. Si apprestavano a centrare il terzo e, chissà, a vincere la loro prima Coppa dei Campioni quando, proprio di ritorno dai quarti di finale della competizione continentale disputati a Belgrado contro la Stella Rossa, si consumò il dramma. Il 6 febbraio 1958, l’aereo che riportava a casa la squadra mancò per la terza, fatale volta il decollo e metà dei suoi passeggeri perse la vita. Tra le otto vittime dei giocatori dello United, c’erano anche il capitano Roger Byrne e il bomber Tommy Taylor, tutti e due destinati a giocare il Mondiale svedese nel giugno del 1958.

Edwards morì due settimane dopo a causa delle gravissime ferite riportate sulla pista di Monaco di Baviera. Al suo capezzale c’erano mamma Sarah e papà Gladstone, nonché la fidanzata Molly, che in quei terribili 15 giorni si erano a più riprese illusi che Big Dunc alla fine si potesse salvare. Certo, così come capitò ai suoi compagni Blanchflower e Berry, avrebbe dovuto quasi sicuramente smettere di giocare per l’entità delle ferite riportate. Tutta l’Inghilterra pianse un vero campione, che a soli 21 anni aveva già collezionato 18 presenze in nazionale e 151 nel Manchester United, piazzandosi al terzo posto nella classifica del neonato Pallone d’Oro.

La scomparsa del fenomeno di Dudley e dei già citati Taylor e Byrne, nonché le immaginabili pessime condizioni mentali con cui Charlton si presentò in Svezia, compromisero senza ombra di dubbio il Mondiale dei Tre Leoni, che furono pure sfortunati a non passare il girone di qualificazione, finendo per perdere lo spareggio di misura contro l’URSS. Come già accaduto nel 1950 — quando l’Italia non ebbe l’occasione di schierare i fuoriclasse del Grande Torino, crudelmente spazzati via da un incidente aereo ancor più terribile, quello di Superga del 4 maggio 1949 — , la storia dei Mondiali era stata in parte determinata da un evento luttuoso.

Last but not least, il libro di Leighton ha il merito non solo di raccontarci una storia bella quanto tragica, ma anche di immergerci in un calcio ben diverso da quello attuale, come spiega in maniera magistrale nella prefazione Wu Ming 4 (autore anche della traduzione dell’intero testo).

Spesso si imparava un altro mestiere e si lavorava part-time, mentre le vacanze si facevano in ordinari luoghi di mare inglesi, non in esotici e costosissimi resort da mille e una notte. Colpa o merito del tetto salariale, motivo per cui un calciatore guadagnava poco più di un operaio ed era letteralmente l’eroe della porta accanto, con il quale si poteva scambiare due chiacchiere di persona, non a distanza sui social network.

Articolo a cura di Luca Manes

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