Il mio amico D. e il calcio australiano

Crampi Sportivi
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11 min readDec 4, 2014

Il mio amico D. è una persona seria. È australiano, ma piuttosto europeo nei modi e nelle lingue che parla, soprattutto francese e tedesco. Ama tre cose, soprattutto: il cinema, che gli dà da vivere, che lo fa andare dall’altra parte del mondo a seguire qualche festival, o leggere oscure riviste di cinema pubblicate in Francia negli anni sessanta; la politica, che voi non lo sapete, perché non avete visto un capolavoro come Figli della rivoluzione, ma in Australia è pieno di comunisti; e il football. Il football, per lui sarebbe quello che qua, nel posto dove sia io sia il mio amico D. viviamo, chiamano soccer, ma noi no, ci ostiniamo. D. per anni si è svegliato ad orari improbabili, che l’Australia è un posto lontano e strano, per vedersi le partite di calcio. «Le partite più importanti, o almeno gli highlight, venivano trasmessi da SBS, un canale creato negli anni ’80 per le minoranze etniche, che in fretta trovò una nicchia di pubblico per il calcio (tanto che il nickname divenne “Soccer, Bloody Soccer”) e cinema d’essay europeo. Entrambe sono diventate per me ossessioni di una vita. Mi svegliavo alle 5 per vedere le partite in TV, prima di andare a scuola. Il calcio, per gli australiani, significa insonnia, le partite europee importanti sono sempre a orari scomodi, in genere tra mezzanotte e le 6. Per i mondiali e gli europei si mettono in conto maratone senza sonno».

Vivere in Australia e tifare Aston Villa

La Premier League la faceva, e la fa, da padrone. E il mio amico D. la notte non si svegliava per vedere il ManU, il Liverpool, l’Arsenal, e neanche Tottenham. No, lui tifa Aston Villa. Il perché di questa scelta masochistica sfugge anche a lui. «Chi se lo ricorda perché, ma sono sicuro stia stato casuale. Forse mi piaceva il nome, o i colori claret and blue. I miei fratelli, uno tifa Liverpool e l’altro Arsenal, per ragioni altrettanto arbitrarie. La prima volta che ho incontrato un altro tifoso del Villa è stato durante il mio primo viaggio al Villa Park, a 19 anni, quando li ho visti perdere 1 a 0 con lo Sheffield Wednesday in un partita valida per la League Cup. In ogni caso, sopporto questa decisione presa da un ragazzino di nove anni che mi ha assicurato una vita di miseria calcistica. Che poi fino alla fine negli anni ’90 potevo ancora sperarci, un anno buono, un po’ di fortuna, sono arrivati secondi nel 92/93, erano in testa fino a gennaio nella stagione 98/99 prima del prevedibile collasso. Abbiamo persino vinto un paio di trofei, League Cup 1994 e 1996. Ma adesso, è cambiato tutto in Premier, le prime quattro posizioni sembrano completamente fuori gioco: in queste condizioni, possiamo solo sperare che qualche ricco fund mediorientale si compri il Villa (attualmente in vendita)».

L’Associazione Polisportiva Italo-Australiana e il Grande Milan

Ma l’infanzia del mio amico D. non è popolata solo dalle aspirazioni gloriose del Villa. Mentre io soffrivo per la Roma degli anni novanta, affacciandomi ogni tanto a vedere la squadra locale che militava in serie D toscana, nella migliore delle ipotesi, e dove al bar dello stadio vendevano il vino caldo, il mio amico D. scalpitava nei campetti australiani. «Sono cresciuto in un quartiere italiano. Almeno l’80% degli alunni della mia scuola elementare erano di origini italiane, e da piccolo ho giocato anche come portiere nelle giovanili della squadra italiana della zona, l’APIA-Leichhardt: nel 1987 ha vinto il campionato nazionale, poi una lunga discesa fino a finire a giocare al Lambert Park, uno stadietto pulciaro, davanti a un 500 italiani rancorosi e vecchi. Pure se non ce ne era davvero bisogno — la linea di campo era un metro dalla recinzione — per un paio d’anni ho fatto pure il raccattapalle. Ma a quell’età, l’APIA era tutto per me, tanto che chiedevo pure autografi ai giocatori: una roba che di sicuro lasciava piuttosto perplessi questi sconosciuti calciatori part-time che alzavano, forse, qualche migliaio di dollari all’anno». Intanto sì, in Australia c’hanno i dollari, anche se non quelli americani. Poi l’amico D. non me lo dice, ma APIA sta nientepopodimeno che per Associazione Polisportiva Italo-Australiana. Roba nostra, insomma. Gli anni novanta sono anche quelli del grande Milan. Se sei cresciuto in un piccolo paesino della Toscana avevi almeno qualche amico o compagno di classe che ti fracassava i maroni sul Milan. Ma pure se sei cresciuto a Sydney, mi racconta l’amico D.: «Gullit, Van Basten, Baresi, Papin, Maldini, Costacurta, Donadoni, Savicevic, Massaro — un mio compagno di classe mi raccontava tutto, così a parte le partite casalinghe dell’APIA la prima volta che ho visto una partita dal vivo è stata durante un tour in Australia del Milan nel 1993, contro i Socceroos [cioè la nazionale] al Sydney Football Stadium. E continuo a pensare che il 4–0 con cui quel Milan ha demolito il Barcellona in finale di coppa campioni nel 1994 sia il miglior calcio che io abbia mai visto».

Il calcio passaporto globale

C’è una vecchia storiella, che noi malati di calcio ci raccontiamo. È quella del calcio come lingua globale, che dove vai vai, da Gaza all’Africa centrale, da Austin Texas alla Cina, trovi qualcuno con cui parlare della palla che rotola rincorsa da 22 tizi in pantaloncini. Vale anche per gli australiani: «Sono convinto di dover ringraziare il calcio per essere il cittadino globale che sono. Ci sono sport più importanti dalle mie parti, il football australiano (sud e ovest) e il rugby league nel nord est. Ecco, questi non sono certo sport che ti aprono particolarmente al mondo. Mentre gli altri ragazzini si preoccupavano di Manly vs Canterbury, o Collingwood vs Essendon [che, vi risparmiamo il copiaincolla su google, trattasi di sobborghi di Sydney and Melbourne] io seguivo Porto e Marsiglia in coppa campioni, o River-Boca in Argentina. Quando ho viaggiato all’estero per la prima volta non ho sentito lo shock culturale perché parlavo fluentemente la lingua universale del calcio: San Siro, l’ Olympiastadion, il Bernabeu e, chiaramente, Villa Park erano posti famigliari come Sydney».

Australian Football, l’altro. Se giochi con le maniche ti squalificano

Breve storia del calcio in Australia, tra immigrati, lacrime e neoliberismo selvaggio

«È una storia a luci e ombre, quella del calcio in Australia. Amatoriale fino a dopo la seconda guerra mondiale, poi le ondate di immigrati hanno modernizzato e professionalizzato il calcio, e hanno formato le loro squadre: italiani, squadre greche, croate, serbe, ungheresi, polacche, cecoslovacche o ebraiche in poco tempo hanno cominciato a dominare il calcio in Australia. Negli anni ’60 per le partite importanti allo stadio c’erano pure 30.000 persone, ma il “soccer” era ancora deriso come sport per wog dall’Australia mainstream. Questa base etnica lentamente divenne sempre meno importante, assimilata nella cultura australiana o morta, e il pubblico diminuiva, mentre i club erano corrotti o interamente criminali, con i migliori giocatori che se ne andavano in massa verso l’Europa. Il pantano in cui si era cacciato il calcio australiano si rispecchiava pienamente nelle disavventure della nazionale, che non si qualificò ai mondiali nel ’94 e nel ’98. E se nel ’93 la sconfitta, negli spareggi con l’Argentina per 2–1 poteva risultare accettabile visto che loro in attacco avevano gente tipo Batistuta, Balbo e l’ormai drogato Maradona, bruciò molto di più lo spareggio del ’97 con l’Iran. Andai con tutta la mia famiglia per la partita di ritorno a Melbourne [in macchina, da Sydney, ci vogliono più di nove ore], dove, guidati dal mister inglese Terry Venables, eravamo inizialmente sul 2–0, ma poi regalammo due gol agli iraniani nei minuti finali, e per la regola dei gol fuori casa perdemmo. I commentatori della SBS piangevano a fine partita, e non mi vergogno a dire che piansi fino a dormire nella mia stanza d’hotel quella notte. All’inizio degli anni 2000 la crisi terminale fu interrotta dalla rivoluzione messa in piedi dal miliardario Frank Lowy, l’attuale chairman della federazione, che creò nel 2004 la A-league, sul modello della J-League giapponese o della MLS americana. Sembrava veramente l’ultima spiaggia per il calcio australiano, ma va detto che l’esperimento ha funzionato. Lowy ha messo su un modello da corporazione neoliberale, ma come mi disse un amico marxista, la crisi del calcio australiano era così atroce che pure il neoliberalismo era un grande progresso. E quindi al posto di squadre come Marconi-Fairfield (italiani), Sydney Olympic (greci) e Sydney United (croati), la mia città era adesso rappresentata da una squadra nuova, non etnica, in cui riposi le mie speranze — visto che, a parte l’APIA, non ero mai riuscito a trovare a casa una squadra con cui identificarmi. Nacque così il Sydney FC».

Del Piero nella terra dei canguri

Già, il Sydney FC, la squadra dove ha giocato Alessandro Del Piero. A noi sembrava una di quelle operazioni, un po’ ridicole, francamente, di fine carriera, un po’ come quella indiana di adesso. Ma per il mio amico D. era molto diverso. Sapeva dei rumors, della possibilità che Del Piero andasse in Australia, prima di me, naturalmente, e allora quando firmò gli scrissi una email, congratulandomi, ma soprattutto chiedendogli cosa diavolo cercasse Del Piero, in Australia. Rispose: «Sono al settimo cielo, e sto già pianificando le vacanze per vederlo giocare il più possibile (anche se naturalmente devo negoziare con M. [la sua compagna]…)” Era il 5 settembre del 2012, poi non è andata benissimo, a livelli di risultati, la permanenza dell’ex giocatore della Juventus dall’altra parte del mondo. “Il Sydney, che dopo aver vinto lo scudetto nella prima stagione, ne ha vinto solo un altro in mezzo ad un turbinio di allenatori, giocatori, staff, tra cui Frank Farina (ex giocatore del Bari) come coach, e Del Piero, di cui però, a parte lo stadio molto più pieno, non siamo mai riusciti a capitalizzare la presenza, e adesso abbiamo il meno prestigioso Marc Janko dall’Austria [nota: nel campionato infatti c’è un salary cap, e si possono avere solo due giocatori, uno locale e uno straniero, pagati di più]. Il nuovo allenatore, Graham Arnold, ha però le carte in regola per risollevare il club. Ma insomma, sono un tifoso dell’Aston Villa, niente che non conosca”. Gli dico che comunque, dopo aver visto un paio di highlights delle partite recenti, già il livello mi sembra meglio di quanto ci giocava Del Piero. “Sì, il miglioramento è costante, anche se non siamo ancora al livello della fine anni ’90. E naturalmente ci siamo qualificati agli ultimi tre mondiali. Una volta in modo epico: ancora agli spareggi, nel novembre 2005, ai rigori con l’Uruguay, riuscendo alla fine passare. The greatest night of football our country has ever seen. Dove l’ho vista io? Via live blog update, a Berlino…»

Il derby più giovane del mondo

Qualche settimana fa l’amico D. ha provato a convincermi a svegliarmi alle quattro, che ormai il derby di Sydney è quasi come quello di Roma (ha detto proprio così), io l’ho ascoltato un po’ distrattamente, te pare, ho pensato, e lui ha rinunciato. Ha sbagliato, avrebbe dovuto insistere. Quello che mi ha detto, il giorno dopo, nella pausa di una conferenza fiume su Foucault, con gli occhi illuminati, quasi piangenti, suona più o meno così: «Sono ancora eccitato dal derby di questa mattina. Eravamo sotto di due a zero dopo venti minuti, pensavo fosse finita. Ma poi siamo riusciti a buttarla dentro prima dell’intervallo, e miracolosamente alla fine abbiamo vinto 3–2. I nostri tifosi sono impazziti, invadendo il campo dopo il terzo gol, mentre io urlavo festante davanti al pc in Bingham Library [una delle biblioteche di Yale, dove Derrida e De Man bevevano il the] alle sei del mattino guardando la partita con un pessimo streaming. Non penso ci sia niente di meglio nella vita». Che il derby di Sydney non è proprio come quello di Roma, gliel’ho spiegato, a D., ma un po’ di ragione ce l’ha nel dire che sta diventando una cosa di un certo spessore. «Il derby esiste da solo tre anni, è probabilmente il più “giovane al mondo”, ma posso onestamente dire sia già uno dei più sentiti. Come Berlino anche Sydney è divisa tra est e ovest, sono che da noi quella più ricca, più ceto medio, è la parte est, mentre ovest è più working class, diversa da un punto di vista etnico. Chiamare qualcuno “westy” a Sydney è come dire “chav” in Inghilterra o “white trash” negli Stati Uniti. Sydney FC è ad est, e con gli sprechi economici dei primi tempi si sono guadagnati il soprannome di “Bling FC”, che da allora stanno cercando di scrollarsi di dosso, ma naturalmente questo ha anche portato una sacca di tifosi più operai dei sobborghi a ovest a faticare nell’identificarsi con la squadra. Così quando nel 2012 fu espulso dalla lega il Gold Coast United si creò lo spazio per un nuovo team: la federazione creò in quattro e quattrotto il “Western Sydney Wanderers” (che prende il nome dalla prima squadra australiana, che giocò una partita nel 1881). Anche se sono nuovi, hanno guadagnato in fretta un sacco di tifosi, inclusi alcuni che hanno abbandonato Sydney FC, creando così una durevole rivalità tra le due squadre. E se noi abbiamo fatto fatica negli ultimi anni, i Wanderers sono arrivati secondi nelle loro prime due stagioni, e hanno vinto la finale di Asian Champions League la scorsa settimana. Ma sai, i tifosi del Sydney FC continuano a vedere l’altra squadra della città come un “fratello minore”, e insistiamo che rappresentiamo tutta la città, e non mezza.

Il derby è quindi diventato il momento clou della stagione per entrambe le squadre, eclissando facilmente l’altra rivalità del Sydney FC, quella con il Melbourne Victory, che è una specie di clásico australiano. Il nostro stadio, che ha 45,000 posti, è tutto esaurito in fretta, con grandi sforzi delle tifoserie — The Cove [proprio come il locale di Bologna], quella del Sydney FC, che prepara elaborate coreografie, e Red and Black Bloc (RBB), cioè i tifosi dei Wanderers, che invece preferiscono i fumogeni. L’atmosfera contagia i giocatori: l’espulsione del centrocampista brasiliano dei Wanderers Vitor Saba per un’entrata pericolosa ha provocato una rissa tra le due squadre. Come comunista, potrebbe sembrare che io debba sostenere la squadra della metà proletaria della città — che peraltro gioca in rosso e nero! — ma sono fedele al Sydney FC, e la mia famiglia viene dalla parte est della città (l’Inner West, che in realtà è tradizionalmente un’area working class). Per giunta, non è che la questione politica sia così chiara eh: di tanto in tanto, i tifosi dei Wanderers denigrano quelli del Sydney come soy-latte drinking Jewish homosexuals… Insomma, magari sembra una follia, ma non mi stupirebbe troppo se tra qualche anno si parlasse di Sydney FC-Western Sydney Wanderers come si parla di Celtic-Rangers, Liverpool-Everton, Real Madrid-Atletico o persino Roma-Lazio!»

La prossima volta, adesso lo sapete anche voi, dovete svegliarvi, non importa a che ora, per vedere Sydney FC vs Western Sydney Wanderers. Se tifate Sydney FC poi, il mio amico D. è contento, e magari pure un po’ Del Piero.

Articolo a cura di Luca Peretti, con l’amichevole partecipazione di Daniel Fairfax

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