Il nostro mondiale

Crampi Sportivi
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9 min readOct 14, 2014
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E niente. Abbiamo fatto un gran mondiale. C’è poco da dire. Il nostro mondiale, quello giocato in casa. Itinerante da Roma a Bari, passando per Trieste, Verona e Modena e chiudendo a Milano. L’Italia ha fatto sognare, emozionare, coinvolgendo due milioni e trecentoventottomila spettatori su Rai 2 per la partita che valeva il bronzo. Ha fatto il 14 % di share. Ma alla fine sempre la medaglia di legno ha preso.

Certo, direte voi, ma abbiamo perso prima con la Cina — che comunque sia avevamo battuto nel girone — e poi col Brasile, ci può anche stare. Ma il bronzo, ne sono convinto, sarebbe stato il giusto premio per un gruppo di ragazze che è andato oltre le più rosee aspettative. Di questo mondiale ci rimarranno i duecentodue centimetri di Diouf, i bicipiti della Arrighetti, gli sguardi persi delle brasiliane, le proteste di Ze Roberto, il dominio agonistico delle statunitensi e le ascelle commosse di Bonitta. È un po’ questo il riassunto di una lunga, lunghissima, rassegna iridata. Il sudore, la fatica, le infinite esultanze. La prima, la seconda e la terza fase. Le semifinali e il trionfo made in USA. E poi, c’è un non so che di divertente nell’assistere ad una finale Cina-USA. Non credo si vogliano un granché bene, ma potrei anche sbagliare.

Partiamo dal principio, dal ritorno in panchina di Bonitta, richiamato in fretta e furia dopo la conclusione della gestione Mencarelli. Il CT, non appena si è rimesso al timone del movimento rosa, ha fatto un ragionamento semplice semplice: c’è un appuntamento troppo importante, i mondiali in casa nostra. Bene, quindi che faccio? Mi affido a qualcuno che conosco a memoria, che ha esperienza, che mi dà sicurezza. Ecco a voi le convocazioni di Lo Bianco, Cardullo e Costagrande, con le prime due riesumate da non si sa dove e rilanciate in Nazionale. Non stiamo parlando di due qualunque.

Eleonora Lo Bianco è la più grande palleggiatrice della storia della pallavolo femminile italiana (quasi 600 cap con la maglia azzurra. Ehi. Seicento); Paola Cardullo è uno dei liberi che meglio ha interpretato il ruolo negli ultimi 15 anni. Due icone della nostra Nazionale, campionesse del mondo nel 2002 proprio con Bonitta (uniche reduci insieme alla Piccinini). E in fin dei conti, il commissario tecnico che si ispira a Mourinho (è un grande interista) ha fatto bene. Nessuno si sarebbe aspettato un mondiale giocato a questi livelli, in costante crescendo, sull’onda dell’entusiasmo del grande tifo di Roma, Bari e Milano.

Perdonate se ora apro una parentesi su Eleonora Lo Bianco. Ho cominciato a giocare a pallavolo nel 2002, l’anno in cui l’Italia ha vinto il mondiale di volley femminile ed Eleonora Lo Bianco era lì. Ad ispirarmi col suo 14 mentre disegnava pallavolo nel ruolo più bello, importante e determinante che questo sport possa avere.

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Essere alzatore vuol dire essere la mente della squadra. Averla in pugno, poter, in una certa misura, decidere le sorti dell’intera gara. Nella sua lunga carriera, Lo Bianco ha sempre fatto tutto questo con classe sconfinata, maestria e leggerezza. Ha superato tutte le sfide che la vita le ha posto davanti, compreso l’aver sconfitto un tumore al seno. Per tutto questo, ma anche per molte altre ragioni che non sono spiegabili, se non con un un amore sportivo sconfinato, ero convinto che Leo Lo Bianco non potesse proprio mancare al primo mondiale italiano. Il suo quinto. A 34 anni suonati. L’Italia le si è letteralmente aggrappata, e lei ha risposto presente, caricandosi ancora una volta la Nazionale sulle spalle e spingendola oltre i suoi limiti, sino in semifinale. Lì, poi, si è rotto qualcosa.

La bolla magica nella quale veleggiava l’Italia si è infranta ad un passo dalla finale, fatta esplodere dalla Cina. Improvvisamente, infatti, si sono rotti dei meccanismi che parevano ormai semi-divini. Su Lo Bianco e Costagrande, sin lì autentiche trascinatrici, è improvvisamente calata la grande stanchezza di un mondiale lunghissimo, nel quale si gioca tutti i giorni per tre settimane; la Arrighetti — che è stata il leader carismatico, la forza bruta, l’esuberanza — si è sciolta come neve al sole e il suo pianto a fine partita racconta della delusione e delle attese tradite: non è mai entrata in partita, disorientata sui raddoppi a muro, Bonitta è stato costretto a cambiarla praticamente subito. E poi mica possiamo far fare tutto alla povera Del Core, oppure affidarci alla seppur brava, ma ancora giovane e inesperta Diouf.

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Insomma, la Cina ha dimostrato di essere un filino superiore, non fosse altro perché ha fatto vedere di non soffrire minimamente la pressione e la fatica. Bravissima Lang Ping — parliamo di un totem della pallavolo mondiale femminile, ex allenatrice di Team Usa -, a modellare un gruppo di ragazze giovanissime e intercambiabili. Alla vigilia della semifinale con l’Italia la centrale titolare si è infortunata e in campo è scesa una ragazza di 17 anni. Tutti pensavano che sarebbe stata una passeggiata di salute. Ma si sbagliavano. La Yuan ha messo a segno, solo lei, 16 punti, mandando prima in confusione la Arrighetti e prendendosi gioco della Folie poi. In una semifinale mondiale, a quell’età, è una cosa mai vista prima. Se poi si aggiungono i 32 centri di una mostruosa Zhu, c’è ben poco altro da raccontare su questa semi.

Bonitta le ha anche provate tutte, affidandosi alla variante tattica dei due opposti in campo: Centoni e Diouf al tempo stesso, con la squadra sbilanciata in fase offensiva, concedendo qualcosa in difesa e ricezione. Una soluzione che, sotto per 2–0, ha portato un vento di novità, ha dato nuova incisività all’attacco azzurro, rimesso a posto il muro e permesso anche di portare a casa il terzo set. Alla lunga, però, le forzature non hanno pagato e le asiatiche, riprese le misure, hanno vinto il quarto set dominando sul piano fisico. Da segnalare la clamorosa prestazione in fase di difesa, con Danna Shan — il libero — fantastica su ogni pallone. La grande differenza è stata fatta lì: con l’Italia costretta quasi sempre a dover attaccare 2, 3, 4 volte prima di mettere a terra il pallone e una Cina immarcabile a banda e al centro. Aggiungiamoci inoltre che le azzurre non hanno inciso al servizio, fondamentale nel quale avevano eccelso fino a quel momento nel torneo. Non mettendo in difficoltà la ricezione cinese, è stato un gioco da ragazzi servire 62 palloni a Zhu (trasformati in punto al 49%) e 17 al centro a Yuan (che ha tenuto una percentuale monstre quasi del 70%).

Se la semifinale è stata una delusione, ma anche il momento nel quale ci siamo resi conto di aver ritrovato la nazionale azzurra a livelli altissimi, per il Brasile è stato un piccolo Maracanazo. La Seleçao, strafavorita alla vigilia, imbattuta in tutto il percorso mondiale, si è letteralmente schiantata sul capolavoro tattico di Karch Kiraly. Anche qui, come per la Lo Bianco, bisogna aprire una parentesi. No, non sono innamorato anche di lui, ma poco ci manca.

Ormai, anche grazie agli ultimi mondiali, alcune cose di Kiraly sono divenute di dominio pubblico, ma è bene rimarcarle. 1) è l’unico atleta nella storia ad aver vinto 3 ori olimpici nelle due discipline della pallavolo: 2 allori nel volley e 1 nel beach; 2) ha origini ungheresi e il suo cognome in lingua madre significa Re; 3) è stato eletto miglior pallavolista del XX° secolo insieme all’italiano Lorenzo Bernardi; 4) nel suo palmares infinito anche tanta Italia: con Ravenna vince uno scudetto, una coppa Italia, una coppa dei campioni, una supercoppa europea e un mondiale per club. Una leggenda vivente che ha costruito una macchina perfetta, in grado di sgretolare le certezze del Brasile.

Infatti, contro la squadra che fa del primo tempo la sua arma migliore, Kiraly ha risposto ignorando quasi completamente i propri centrali (Akinradewo ha attaccato 14 palloni, Harmotto addirittura solo 5). Gli USA hanno aperto il gioco a banda, sfruttando fino allo sfinimento Hill, Larson e Murphy (25, 22 e 32 attacchi tentati ciascuno) e sfiancando con continui raddoppi le centrali brasiliane che, pur fenomenali sulla carta, sono andate in tilt. Thaisa e Fabiana, infatti, hanno piazzato solo quattro muri vincenti sui 19 provati. Dopo un primo set dominato dalle americane (25–18), il Brasile ha provato a reagire, Ze Roberto è letteralmente impazzito per qualche chiamata arbitrale non molto precisa, e la vittoria del set delle stelle-strisciate (28–30) ha definitivamente chiuso la gara. Nel terzo parziale non c’è stata storia 25–20 e tutti a casa. Il Brasile, due volte oro olimpico, mai vincitore di un mondiale, ha pagato l’eccessiva sicurezza nei propri mezzi: alla prima vera difficoltà è crollato. Un classico psico-dramma alla brasiliana insomma. Team USA è stato praticamente perfetto in battuta e in difesa, mettendo in mostra quella carica di adrenalina e quell’agonismo che solo gli americani sanno mettere in campo.

Quando una grande competizione come un mondiale finisce, si tira una riga, si analizza e si volta pagina. Chi ne esce con le ossa rotte è sicuramente la Russia, di cui non abbiamo mai parlato, proprio perché non è pervenuta, nonostante fosse la detentrice degli ultimi due mondiali. Come al solito, quando tutto va bene le russe filano via che è una meraviglia, ma non appena si presenta una difficoltà, escono fuori tutte le magagne di un gruppo tutt’altro che unito. Si dice addirittura che le giocatrici stentino a rivolgersi la parola.

Ridimensionato il Brasile, lanciatissima la Cina, enormemente rafforzati gli Stati Uniti. Il dado è tratto. E noi? All’Italia non restano che i complimenti e la consapevolezza che è stata disputata una grande competizione. Il prossimo grande passo sono le Olimpiadi del 2016 e il progetto biennale del commissario tecnico dovrà necessariamente passare dalle giovani.

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Si dovrà ripartire da Valentina Diouf e dal suo braccio

Abbiamo messo in mostra dell’ottima qualità e da lì bisogna ripartire. Su tutte De Gennaro e Diouf: la prima, eletta miglior libero del mondiale, è una classe ’87, quindi nel pieno della crescita; la seconda è la più grande risorsa pallavolistica degli ultimi anni. Su di lei sarà costruita la nazionale che giocherà le Olimpiadi del 2016: ha immensi margini di miglioramento, può diventare un’arma micidiale. Non scordiamoci comunque di Chirichella (bella, brava, fortissima e del ’94) e Folie (classe ‘91), il duo di centrali del futuro, così come di Caterina Bosetti, per non parlare della sorella Lucia, purtroppo costretta ai box dall’ennesimo infortunio. Chi ha giocato poco è Signorile, buona palleggiatrice e futura direttrice d’orchestra dell’italvolley femminile. Insomma, il materiale umano sul quale lavorare c’è, anche se gioco forza Bonitta dovrà rinunciare, in questo lungo percorso d’avvicinamento a Rio, alle veterane rispolverate per l’occasione. Saluterà Lo Bianco, così come Costagrande e il capitano Francesca Piccinini, spesso relegata in panchina al ruolo di spettatrice di lusso. Magari ce la farà la Del Core, la migliore di tutte le azzurre in queste tre settimane, così come la Centoni, ma è tutto da vedere. In generale, il gruppo ha dimostrato di essere molto unito e coeso — a differenza dei maschi che hanno fatto una pessima figura poco tempo fa in Polonia — ma nonostante buoni e confortanti segnali, è comunque un ciclo da riaprire. O quasi.

Matteo Santi. Mai laureato, cresce giocando a basket, lo abbandona per altezza insufficiente e si dà alla pallavolo. Sogna il Tour. Odia tutti quelli che scrivono “qual’è” e che dicono “cannottiera” e “carammella” @matteosanti_5

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Ringrazio Francesco Fogu, ex tecnico della Pallavolo Trevi e della Sirio Perugia, per la grande collaborazione nella realizzazione di questo pezzo. Nella foto è con Bernardinho, CT del Brasile e suo amico fraterno.

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