Il nuovo re di Thailandia

Crampi Sportivi
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7 min readJan 5, 2017

Che si tratti di calcio o di altre discipline, gli allenatori italiani di questi tempi sembrano stare una spanna sopra gli omologhi stranieri: in Inghilterra dopo il trionfo di Claudio Ranieri sembra profilarsi all’orizzonte quello di Antonio Conte, mentre in Germania il Bayern di Carlo Ancelotti è giunto alla sosta del campionato davanti a tutte le altre pretendenti. E poi c’è Daniele Ferri, trentatreenne toscano che ha accettato — e vinto — la sfida di far sbocciare la pallanuoto femminile in Thailandia, non esattamente un Paese avvezzo a palombelle e controfughe.

Adesso che ha portato nell’èlite della pallanuoto asiatica una nazionale costruita ex novo sono tutti ai suoi piedi: lo adorano e lo venerano come se fosse lui il nuovo sovrano anziché Somdet Phra Chao Yu Hua Maha Vajiralongkorn Bodindradebayavarangkun (sì, si chiama così).

In occasione delle feste di Natale è tornato a casa per alcuni giorni, giusto il tempo di presenziare alla rimpatriata delle vecchie glorie del Benfica Pallanuoto di Viareggio, con cui ha giocato per cinque stagioni. Manco a dirlo, il più celebrato e cercato è stato proprio lui, con annesso jackpot di domande sulla sua esperienza in Estremo Oriente.

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Daniele Ferri (secondo da destra in piedi) con i vecchi compagni del Benfica[/caption]

Daniele, domanda banale quanto necessaria: come ci sei finito in Thailandia?
“Tutto è cominciato quasi cinque anni fa: mi trovavo in Georgia con Nikoloz Asatiani, ex portiere della nazionale e mio compagno di squadra alla Futura Prato e al Benfica Viareggio, quando venni a sapere che la federazione thailandese era alla ricerca di un tecnico con cui lanciare la pallanuoto femminile.

“Nel frattempo, guarda caso, avevo programmato una vacanza in Thailandia e Vietnam e così qualche mese dopo — siamo a settembre 2012 — ho fatto il colloquio: ‘Bene, ti faremo sapere’, mi dissero. A dicembre, poco prima delle festività, mi comunicarono che ero stato scelto. Così verso metà gennaio sono partito: pensavo si trattasse di un progetto a breve termine, tanto che inizialmente il mio contratto è stato rinnovato di anno in anno”.

Una volta arrivato in Thailandia cos’hai trovato?
“25–30 atlete, tutte provenienti esclusivamente da Bangkok e dintorni. Chiesi un video per verificare il loro livello: nel 2012 avevano perso 13–7 contro l’Indonesia e addirittura 15–3 con Singapore. I fondi a disposizione, poi, erano miseri. Dovevo partire letteralmente da zero: non esisteva neppure un campionato femminile.

Com’è stato l’approccio?
“Ho fatto ambientare le ragazze a me da un punto di vista sportivo, non il contrario: ho preteso che per un paio di anni si allenassero 5–6 ore tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Di lì a poco abbiamo vinto il bronzo alla Coppa d’Asia riducendo la distanza abissale che ci separava da Singapore, che poi abbiamo sconfitto per la prima volta l’anno seguente.

“Nel frattempo ci siamo allenati una quindicina di giorni a Melbourne con la nazionale femminile australiana: eravamo a corto di fondi e così le nostre ragazze sono state ospitate dalle famiglie delle giocatrici. Per loro è stata un’esperienza irripetibile, non solo sul piano meramente sportivo.

“La grande occasione si presenta nel giugno 2015 con i Sea Games, sorta di Olimpiadi del Sudest asiatico, a Singapore. Prima di quei Giochi ci siamo allenati un mese in Cina a Changdu, città famosa per i panda, assieme a una squadra molto competitiva che annovera svariate giocatrici della nazionale”.

Con quali credenziali vi presentate?
“Singapore, acerrima rivale della Thailandia, era indubbiamente la favorita: giocava in casa ed è da sempre la nazionale più forte, e più ricca, in questa regione in campo maschile e femminile. Di sicuro avremmo lottato per l’argento con Malesia, Filippine, Vietnam e anche con l’Indonesia, leggermente superiore a questo gruppetto.

“Ma io volevo vincere l’oro, ben consapevole che era durissima: pochissime delle mie ragazze arrivavano ai vent’anni, l’età media della squadra si aggirava addirittura sui diciotto. Dall’altro lato della vasca ci attendevano avversarie più navigate e smaliziate”.

Il torneo, però, parte nel migliore dei modi…
“Sì, battiamo 12–6 l’Indonesia ed è forse la vittoria più importante: dobbiamo bloccare il loro centroboa e per questo ricorriamo alla zona, ma al contempo dobbiamo evitare di concedere troppo spazio alle loro tiratrici. Hanno un punto debole nella marcatrice che fa fatica con il nostro centro: costruiamo così il successo sui rigori e le espulsioni a favore. Successivamente superiamo la Malesia per 13–5 e le Filippine per 10–1. E l’ultima gara, quella cruciale, è proprio contro Singapore”.

Non è difficile immaginare lo scenario in cui giocate.
“La piscina è gremita, sugli spalti fanno tutti il tifo per Singapore: pochissimi sono arrivati dalla Thailandia. La gara è equilibrata e nervosa, dominata dalle due difese: arriviamo all’ultimo quarto in vantaggio di appena un gol. In quei minuti finali sia noi che loro sbagliamo parecchie occasioni, ma nessuna riesce a segnare. Vinciamo noi 5–4. Pazzesco”.

E poi che succede?
“Succede che la Thailandia scopre, improvvisamente, la pallanuoto femminile: il video della finale su YouTube conta a oggi più di 125mila visualizzazioni. Per due mesi siamo su tutti i quotidiani nazionali e ospiti nelle televisioni: ci accompagnano al tempio della famiglia reale, incontriamo il primo ministro thailandese e il ministro dello sport, andiamo in giro per Bangkok a bordo di un autobus scoperto tra la folla in delirio, facciamo promozione nelle scuole e nelle università, firmiamo autografi… Una celebre azienda thailandese produttrice di patatine, poi, decide di dedicare a noi uno spot televisivo e migliaia di confezioni da distribuire nei supermercati di tutto il Paese.

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“Ma la più grande soddisfazione è stata il premio che hanno ricevuto le ragazze — circa 8mila euro a testa: con quei soldi hanno avuto accesso alle migliori università. E vorrei rimarcare che fino a quel momento si erano sempre allenate a spese proprie. Ero davvero felicissimo per loro”.

Lo scorso anno, invece, ecco il debutto ai Giochi asiatici.
“Finiamo al quinto posto, perdendo di misura contro l’Uzbekistan, dietro a grandi potenze come l’inarrivabile Cina, l’emergente Giappone e il Kazakistan. Non è stata, comunque, l’unica esperienza degna di nota: in estate abbiamo passato tre settimane in Italia tra Toscana e Liguria. Un giorno siamo andati a Ostia per allenarci nientemeno che con il Setterosa: era il 19 luglio ed esattamente un mese dopo le azzurre avrebbero vinto l’argento olimpico a Rio. Scherzando ho detto al ct Fabio Conti: ‘Quando hai bisogno di vincere qualcosa mi chiami’…”.

A proposito di allenatori: chi sono le tue fonti d’ispirazione?
“Dal punto di vista umano non potrei mai dimenticare Tommaso Ciatti, il primo che mi ha insegnato a giocare a pallanuoto: da lui ho imparato la disciplina e la voglia di vincere.

“Guardando ai tecnici di livello mondiale, lo stesso Conti mi piace per il suo modo di lavorare. E poi c’è Sandro Campagna, il migliore in circolazione: con il Settebello ha costruito un gruppo straordinario, capace di imprese altrettanto straordinarie”.

Con la lingua come te la cavi?
“Direi bene: male che vada, ripiego sull’inglese. Ma in partita cerco sempre di parlare il thailandese, almeno sono sicuro che le ragazze capiscono cosa voglio da loro”.

Dicci qualche termine della pallanuoto in lingua Thai…
Reu reu, veloce. Glin, tiro. To su’, combattere. Bang na, marcatura da davanti. Och-Ha, sei contro cinque. Giu giom, attacco. Ton kan, difesa. Shun, pressing. E tanti altri”.

Sii sincero: ti senti un cervello in fuga?
“Più che un cervello sono un cuore in fuga… Quando me ne sono andato mi ero laureato in economia da poco più di un anno e lavoravo in un’azienda informatica: diciamo che ho sempre avuto un’inclinazione per il lavoro all’estero e per le sfide affascinanti. Gli anni da giocatore nelle serie minori mi sono stati utilissimi, ho scoperto che mi piaceva un sacco allenare e così ho cominciato dalla Sestese, una piccola società della zona di Firenze. Mai, però, mi sarei immaginato che sarebbe potuto diventare una vera professione. E quando sono partito per Bangkok non l’ho certo fatto per soldi”.

Qual è adesso il livello della pallanuoto thailandese?
“Grazie ad alcuni sponsor siamo finalmente riusciti a tirar su il primo campionato femminile con quattro squadre, evitando di mettere assieme le giocatrici più anziane della nazionale in modo da avere un po’ più di equilibrio. Con la vittoria ai Sea Games, poi, tante giovani si sono avvicinate a questo sport. Ma l’obiettivo è riuscire a mandarle nei principali campionati esteri già formate: il portiere Satakamol Wongpairoj ha fatto un paio di provini a Rapallo e Bogliasco, mentre la marcatrice Alwani Sathitanon è stata tesserata dal Velletri in Serie A2 divenendo così la prima thailandese a giocare in Italia.

“Purtroppo, al momento la pallanuoto è diffusa soltanto a Bangkok: abbiamo lanciato dei campus a Chiang Mai, nella parte settentrionale del Paese, e a Pukhet, ma è chiaro che anche la federazione deve recitare la sua parte e investire seriamente. Potrebbe iniziare regalando palloni, porte e altro materiale tecnico: solo così le ragazze e la comunità locale vivranno la pallanuoto come un’opportunità anziché un costo. In Thailandia, poi, è difficile programmare nel lungo periodo: si vive molto alla giornata. Per fortuna il governo crede in noi e ci sostiene”.

Quello delle Olimpiadi è un sogno proibito?
“Guarda, se mi avessi fatto questa domanda un po’ di tempo fa ti avrei detto di sì. Ora, invece, non lo considero più un traguardo utopico. I prossimi Giochi si svolgeranno a Tokyo — a proposito: il Giappone darà filo da torcere ai grandi squadroni europei, appuntatelo — e ovviamente la nazionale nipponica sarà qualificata di diritto: tutto dipenderà dalla Fina. Se lascerà il torneo femminile a otto squadre, all’Asia toccherà soltanto un altro posto e sarà la Cina a qualificarsi: con loro non c’è gara.

“Se invece deciderà di allargare la competizione a dodici squadre come nel caso del torneo maschile, i posti a disposizione delle asiatiche diventerebbero due e noi non siamo così distanti dal Kazakistan. Del resto, quando arrivai in Thailandia alle mie ragazze dissi che se si fossero allenate con costanza avrebbero battuto Indonesia e Singapore. ‘L’Indonesia sì, ma Singapore no, sono troppo forti’, mi risposero. E invece”.

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