Il tradimento di Pulvirenti
Da circa un anno, sul desktop del mio pc, c’è un file .doc. È lì da quando il Catania è retrocesso in Serie B. In questi mesi ha cambiato nome più volte. Si è chiamato Viaggio al termine del Catania, quando volevo cercare di spiegarmi la parabola della squadra della mia città, individuando gli snodi centrali della sua storia, dal “clamoroso al Cibali” del ’61 alla promozione in Serie A nel 2006, dopo 22 anni, dal maledetto derby del 2007 contro il Palermo al gol sovrannaturale di Peppe Mascara a San Siro. Una parabola costellata di personaggi indimenticabili come il presidente Angelo Massimino che si sarebbe conclusa con il triste epilogo della retroocessione.
Fantascienza
Verso fine marzo ho rinominato quel file Chiù scuru di menzanotti (non po fari). È un modo di dire catanese: anche se la notte è buia e può far paura, è comunque destinata a finire. Una versione sicula del celeberrimo “non può piovere per sempre”. Era il momento peggiore: il Catania era stato sconfitto dall’Entella ed era scivolato in piena zona retrocessione. Sembrava di essere caduti dentro a un gorgo: una squadra senza un’idea di gioco, inadatta alla serie cadetta, come se la dirigenza non avesse preso coscienza di non essere più in Serie A e avesse costruito una rosa del tutto fuori luogo. Tutto l’entusiasmo dei tifosi, che aveva sorretto la squadra anche nei momenti difficili, si era trasformato in rabbia, in sfiducia, in contestazione.
Dopo quella sconfitta con l’Entella, c’era stata l’illusione della rinascita: un filotto di cinque vittorie consecutive, contro Avellino, Varese, Trapani, Latina e Ternana. L’illusione, appunto, e non è un caso che io usi la parola “illusione”, e stamattina è diventato tutto più chiaro. Sembrava una sceneggiatura di un blockbuster americano: la squadra rischia la retrocessione, c’è sfiducia, nessuna prospettiva di miglioramento, tutti pensano che finirà in merda; poi l’orgoglio torna ad ardere nei cuori dei calciatori, i nuovi acquisti cominciano a girare bene, la squadra torna a vincere e non solo si tira fuori dalle sabbie mobili della zona retrocessione, ma addirittura si spinge a ridosso della zona play-off. Una risalita entusiasmante e la prospettiva di un’impresa epica: quella stagione travagliata poteva finire in gloria con la lotta per tornare in Serie A. Mancavano cinque partite alla fine del campionato. E per un po’ ci abbiamo creduto. Io e mio padre studiavamo la classifica, calcolavamo i punti necessari a raggiungere la zona play-off, guardavamo le avversarie delle ultime partite cercando di capire quanto potessero essere temibili, se avessero raggiunto i loro obiettivi o se avessero giocato più distese, senza la pressione di una retrocessione da evitare o di una promozione da conquistare. Sognavamo e speravamo, ma ce lo dicevamo sottovoce.
«Hai visto? Potremmo farcela.»
«Shh, non diciamo niente, intanto salviamoci, poi si pensa.»
Intanto salviamoci. Giusto, prima la salvezza, prima evitiamo l’incubo di due retrocessioni consecutive.
Nelle ultime cinque partite il Catania non ha ripetuto quella cavalcata epica che erano stati i precedenti match. Due punti su quindici disponibili (uno, per giunta, preso all’ultima giornata contro il Carpi già promosso). Lo spettro della retrocessione era tornato: solo grazie a quel punto al Cabassi, contro una squadra già appagata da una stagione perfetta, il Catania è riuscito a non scivolare ancora più in basso.
Intanto ci siamo salvati. Ed eravamo quasi felici.
«Vedrai che adesso costruiscono una squadra per salire.»
«Dovrebbero aver imparato, d’altronde il mercato di riparazione l’hanno fatto bene, hanno capito cosa serve per giocarsela in B: meno argentini a caso, più gente abituata alla categoria.»
Durante il mercato invernale erano arrivati Gillet, Belmonte, Schiavi, Maniero, Sciaudone, Del Prete, Ceccarelli, Coppola, Mazzotta: calciatori con una certa esperienza in Serie B, in grado di capire la categoria, a differenza di Spolli, Peruzzi, Çani, Rolín, Monzón, Leto (ceduti in quella sessione di calciomercato). A stagione finita ho pensato che il peggio era passato. Mezzanotte era passata. Una stagione così tribolata deve aver dato una lezione a Ninuzzu Pulvirenti e a Pablo Cosentino. Dopo aver attraversato la tempesta uscendone indenni, la dirigenza avrebbe costruito la squadra giusta, magari attorno al mai dimenticato Pasquale Marino, l’eroe che aveva riportato il Catania in A nel 2006.
L’uomo della provvidenza
L’ultimo nome di quel file è stato Il liotru e la fenice: l’elefante aveva la possibilità di rinascere. Fino a ieri mattina, mi sembrava ancora possibile. L’unica cosa che si salva di quel testo è questo paragrafo:
Il Catania sceso dalla giostra Gaucci era debole, quasi inesistente: Lucianone (che avrei rivisto anni dopo in tv, con una polo rosa, la faccia un po’ meno opulenta rispetto agli anni rossazzurri, in collegamento da Santo Domingo, dove era latitante per scampare a una condanna a tre anni per bancarotta fraudolenta — pena che non sconterà mai, nemmeno al suo ritorno in Italia nel 2009, grazie all’indulto) si era portato mezza squadra a Perugia, compreso Peppe Mascara. Così come era stato fatto in un giorno di fine agosto, quel Catania era scomparso nel giro di pochissimo tempo. La squadra fu ricostruita dal nuovo proprietario, Antonino Pulvirenti, Nino, Ninuzzu, l’imprenditore che era partito da Belpasso, paesino in provincia di Catania, e piano piano aveva fatto fortuna, tra luci e ombre (da una catena di discount a un’industria chimica a Gela, dagli alberghi di lusso a Taormina alla compagnia aerea Wind-Jet). Un personaggio verghiano con il chiodo fisso del calcio: prima presidente del Belpasso, formazione che militava in interregionale, poi dell’Acireale dal ’98 al 2004, anno in cui fece il grande salto, abbandonò i granata e abbracciò i colori rossazzurri. Il 22 maggio del 2000, quando era in corsa con Luciano Gaucci per l’acquisizione del Catania, aveva rilasciato questa dichiarazione al quotidiano “La Sicilia”: «Nel calcio i soldi non bastano: è necessario avere passione, altrimenti l’arida realtà dei numeri può vanificare il lavoro di anni». Doveva essersela preparata bene una frase del genere, studiata nei minimi dettagli per evocare nei cuori dei tifosi il ricordo del presidente Massimino.
Nel calcio i soldi non bastano, aveva detto Pulvirenti. Quella frase, alla luce dell’arresto per frode sportiva, suona ridicola. Vanificare il lavoro di anni, poi, è quello che ha fatto Pulvirenti insieme a Pablo Cosentino e Daniele Delli Carri. Perché, da quando ha acquistato la società, non si può dire che non abbia costruito qualcosa. Ninuzzo il re dei discount ha investito parecchi piccioli nel centro sportivo di Torre del Grifo: una roba seria, piscine, palestre, un centro polifunzionale che ha fatto dire a qualcuno “non pare manco una cosa da sud, è cosa da continente”. E Torre del Grifo doveva essere solo il primo passo: il vero obiettivo sarebbe stato uno stadio tutto del Catania. C’erano i progetti, era stato scelto il lotto di terreni vicino al quartiere Librino. Come quando una coppia si mette lì e studia la planimetria della casa nuova, sceglie i mobili su misura, decide come pitturare le pareti. Salvo poi che lui tradisce la futura moglie, che verrà scoperto mandando in frantumi qualsiasi progetto, anzi, mandando in frantumi proprio l’idea di futuro. Perché Pulvirenti questo ha fatto: una grandissima puttanata che cancellerà il Catania dal panorama calcistico italiano dei prossimi anni. Perché ci meritiamo una punizione esemplare. Truccare cinque (forse sei) partite è un reato grave: è una frode. Ma è anche qualcosa di più, che va oltre l’ambito penale: è una questione sentimentale. Quelle cinque vittorie consecutive sono state una grande presa in giro. Non erano partite di calcio, erano pièce teatrali.
Nino perché l’hai fatto? E i nostri progetti insieme?
Torre del Grifo
Ma mi sento ancora più tradito da appassionato di calcio. Per me che sono nato nell’89, Calciopoli era stata la perdita della purezza. L’illusione che va a farsi fottere. Ma è su quell’illusione che si basa tutto: mi illudo che quelle 22 persone in campo si stiano autodeterminando, che stiano facendo del loro meglio per difendere i colori che indossano. Non posso immaginare che, invece, alcuni di loro si siano fatti corrompere per giocare male. Non posso immaginare che un presidente, un amministratore delegato e un direttore sportivo abbiano falsato il gioco. I congiuntivi delle frasi precedenti stridono: quelle non sono periodi ipotetici. Sono tristemente reali.
Due personaggi affidabili
Calciopoli aveva portato alla luce la sovrastruttura che aveva fatto a pezzi l’illusione. Una volta trovato il mostro, Moggi, pensavo che fosse stata fatta pulizia, che la parte marcia fosse stata tagliata via. Nove anni fa avevamo tutti pensato: queste cose schifose a noi non succedono; noi siamo i piccoli che quel sistema vessa in continuazione; noi siamo puri; a noi dei soldi non ce ne frega niente, noi abbiamo la passione. E tutta quella purezza, invece, abbiamo scoperto che non c’è. Che pure i piccoli giocano sporco. L’abbiamo scoperto mentre bevevamo il caffè e sfogliavamo il giornale con impazienza per arrivare al mercato delle squadre piccole.
https://www.youtube.com/watch?v=8mO_hpeQeXY
«È la morte del calcio»: un Pulvirenti profetico riguardo alla sua genialata di comprare cinque partite?
Non posso nemmeno tollerare che Pulvirenti l’abbia fatto proprio perché spinto dalla passione e dall’amore per il Catania. Non accetto nemmeno l’attenuante per cui l’ha fatto perché c’era qualche calciatore disposto a farsi corrompere. Le indagini proseguiranno, la giustizia sportiva prenderà i suoi provvedimenti, si accerteranno colpe e responsabilità. Ma resta il fatto che Pulvirenti è imperdonabile.
https://www.youtube.com/watch?v=VYBUOItoDvE
Peccato che Pulvirenti l’abbia preso un po’ troppo alla lettera.