In punta di piedi

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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4 min readNov 15, 2013

Ad Ashton-under-lyne, un paesino di 43mila abitanti nella contea della Greater Manchester, in Inghilterra, è stata eretta qualche anno fa una statua raffigurante gli unici tre calciatori nativi di quel borgo ad aver vinto una Coppa del Mondo.

Uno di loro è calabrese.

Non stiamo insinuando che Geoff Hurst, storico centravanti del West Ham — e tuttora l’unico calciatore ad avere segnato tre gol in una finale mondiale — possa vantare origini segrete da temerario consumatore di ‘nduja. La Regina se ne sarebbe accorta, al rinfresco, dopo averlo nominato Sir. Non ci stiamo riferendo neanche a Jimmy Armfield, difensore del Blackpool negli anni ’60. Stiamo parlando di un giocatore che ha avuto a che fare con una sola Regina, quella con due ‘g’. Stiamo parlando di quello al centro.

Stiamo parlando di Simone Perrotta.

Come si fa a raccontare uno come lui senza cadere nella trappola retorica tesaci da Ligabue, con la sua ‘Una vita da mediano’? Nella storia di questo calciatore ci sono infatti tutti gli ingredienti che già sono stati quelli di un Gabriele Oriali, di un Damiano Tommasi o di un Rino Gattuso (suo coevo, oltre che conterraneo): doti tecniche limitate, illimitato spirito di abnegazione, conseguimento di grandi risultati sportivi a fronte di capacità inferiori rispetto a quelle dei grandi fuoriclasse. Ha vinto Germania 2006 da titolare, ok, ma cosa lo rendeva veramente speciale?

Il fatto che fosse un trequartista.

Perlomeno negli anni che hanno rappresentato l’apice della sua carriera, infatti, Simone Perrotta ha giocato dietro le punte, ricoprendo un ruolo che in genere è riservato a chi nei piedi ha la grammatica dell’incantesimo. Nato (nella Reggina), svezzato (nel Bari, dopo una breve parentesi alla Juventus) e cresciuto (nel Chievo dei miracoli di Del Neri) come centrocampista di contenimento a tutto campo, con Luciano Spalletti Perrotta si è scoperto uomo chiave di un gioco spumeggiante, di cui lui era il cuore e l’anima.

Perrotta corre sulle punte, i suoi movimenti non sono aggraziati come quelli di De Rossi o Pirlo, è veloce, ma non una saetta con la palla tra i piedi. I gol li segna di piatto, i suoi tiri non si distinguono per la bordata di collo, non accade spesso che tagli il campo con passaggi illuminanti.

Eppure, nelle stagioni in cui la Roma si mette in mostra in Champions League — due galoppate dagli esiti sfortunati, ma durante le quali i giallorossi eliminano prima il Lione e poi il Real Madrid — il numero 20 eccelle da trequartista in quella che, per due anni di fila, si conferma una delle migliori otto squadre europee. In Italia, intanto, sfiora un paio di scudetti e vince due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, sempre da protagonista.

Pensate quanto sarebbe bello, nella vita, sapere sempre qual è il momento ideale per farsi trovare al posto giusto. Pensate quanto sarebbe meno utile, ai fini del gioco, avere doti di prestigiatore, essere più veloci degli altri, o avere un tiro capace di buttare giù le porte. Questo fattore speciale può essere riassunto in tre parole: capacità-di-inserimento.

Perrotta possedeva una capacità di inserimento rara. Questa, unita al fatto che il terminale offensivo, in quegli anni, fosse uno come Francesco Totti, creava una strana mistura calcistica in cui i difensori avversari trovavano difficoltà nel capire chi dovessero marcare, esattamente. Perrotta aggrediva gli spazi, e Totti aveva libertà di creare gioco. Totti portava via l’uomo, e Perrotta si inseriva. Perrotta entrava in area, e Totti aveva la possibilità di segnare. Valanghe di gol. Possiamo dire che, piedi buoni o no, il centrocampista calabrese è stato l’assist-man dei più recenti record del numero 10 giallorosso, non importa quanti palloni abbia toccato, indirizzandoli al suo capitano.

I tifosi romanisti, abituati da sempre a turbamenti emotivi che potremmo definire russi — non tanto nel senso delle montagne, quanto della roulette — dopo qualche anno di iniziale perplessità, dovuta anche a un paio di stagioni infelici che segnarono la fine dell’era Capello, hanno imparato ad amare questo campione atipico. D’altronde loro, storicamente conquistati dai profeti del “facciamo viaggiare la palla” non hanno mai resistito a chi opponeva a questa filosofia un atteggiamento che possiamo riassumere così: “Voi fate pure viaggiare la palla, ché al resto del campo ci penso io”.

Di lui non si ricordano liti in campo, polemiche, espulsioni eclatanti o mancanze di rispetto nei confronti dell’avversario. Perché la grinta vera, quella silenziosa, tiene conto solo dell’obiettivo, non si fa prendere la mano. Così fece breccia Simone Perrotta, come lui stesso ha dichiarato nel giugno scorso — in occasione del suo addio al calcio giocato -, “in punta di piedi”. Se non è capacità di inserimento, questa.

Potremmo interrogarci per ore su cosa ci sia dietro una simile dote. L’unica risposta che ci viene in mente in questo momento è: un grande cuore. Un cuore immenso.

Forse non basta per vincere tutto, ma per entrare in quello degli altri sì.

Simone Vacatello — Umanista, randagio della comunicazione, divano. Piedi fucilati, ma discreto terzo tempo. Quando non può scrivere di supereroi, scrive di musica. Quando non può scrivere di musica, scrive di pallone. @SimoneVacatello

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