In serbo per voi

Crampi Sportivi
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20 min readSep 11, 2015

PROLOGO
Qui, in serbo per voi c’è ćaskanje, ossia chiacchierata.

Poco più di un mese fa mi sono sentito su Skype con un amico che vive a Londra. Niente di eccezionale in realtà, dato che con Jury — si chiama così — ci sentiamo molto spesso, quasi ogni giorno. Parliamo di cose stupide, di cose serie, di cose di lavoro e di altre cose. Qualche volta anche di calcio. Una delle ultime volte che ne abbiamo parlato era il 28 luglio, un martedì. Ecco, mi sembra che quella nostra chat — dopo una manciata di amichevoli (Alcione, Legnano, Lione, Inter) e prima di Romagnoli e Balotelli — sia un buon modo per iniziare a raccontare quel che possono significare le quattro parole Mihajlovic, allenatore, del, Milan.

La chiacchierata è partita da una domanda buttata lì da Jury. Riporto qui la chattata in perfetto stile Skype: senza maiuscole e con poche virgole.

J — diegous come vedi il nuovo milan di mihajlovic?
D — non so juruz, ma faccio una serie di premesse (* e qui ancora Jury non sapeva a cosa sarebbe andato incontro)
J — vai ti ascolto
J — anzi ti leggo
D — 1) le ultime stagioni del milan sono state completamente orfane di una anche minima progettualità. non si vedeva nulla, non c’era una fisionomia di gioco, lo spogliatoio era mentalmente debole, il tasso tecnico molto basso, la personalità nulla, i ritmi di gioco tartarugosi. questo significa che anche il minimo miglioramento sarebbe una grande inversione di rotta
D — 2) mihajlovic non è il tipo di allenatore che preferisco. lui è di quelli che mettono intensità, cattiveria, motivazioni davanti a tattica e volontà di fare gioco (* vedi anche la teoria dei barattoli al cap. II)
D — 3) la squadra è ancora molto incompleta. in mezzo c’è l’eterno equivoco di de jong regista e mancano piedi buoni, visione di gioco, personalità. dietro manca un centrale molto forte a cui affiancare a turno uno dei mezzi giocatori che ci sono. in avanti se arriva ibrahimovic c’è da trovare una difficile quadratura
D — mi ricorda la scelta di conte fatta dalla juve post del neri: arriva un allenatore di carisma che punta forte su poche cose semplici ma da fare bene, nel tentativo di arrivare presto a dare alla squadra delle certezze
D — ma penso che rispetto a juve, roma, napoli, inter e forse lazio siamo un gradino sotto (* oggi aggiungerei anche la Fiorentina alla lista)
D — bisognerà vedere cosa succede col mercato e come parte la stagione visto che nelle prime tre incontrano fiorentina e inter
J — sono molto d’accordo sui primi due punti, sul terzo pure ma non vedo qualità in quasi nessun reparto del milan, se non un po’ davanti…
J — comunque a me gli allenatori che puntano molto sulla grinta piacciono
J — sanno rendere competitivi anche giocatori che per natura non lo sarebbero
D — vero. la determinazione la puoi tirare fuori da chiunque, la tecnica no.
D — comunque io spero arrivino un centrale di difesa e un centrocampista tecnico di livello europeo
D — I mean un centrale di difesa col c**** grosso (* chiedo scusa)
J — ahahah uno alla stam insomma :D
D — ah, il vecchio jaap
J — vedo già la lacrima scenderti lungo il viso per scontrarsi e perdersi nella folta barba
D — poeta
J — poeta analfabeta
D — diciamo pure che per anni ho avuto dei centrali da autoerotismo

Fine della chattata.

CAPITOLO I
Qui, in serbo per voi c’è prošlost, ossia passato.

Vukovar. Dove inizia il passato di Mihajlovic e dove il passato è una cosa delicata.
Dove, per non dimenticarsene, la torre dell’acquedotto porta ancora i segni del sanguinoso assedio del ‘91.

Nel bignami del calcio da bar, alla voce “Cambi di ruolo nell’arco della carriera”, si legge: “Quelli che vengono portati a giocare più avanti, sono forti; quelli spostati più indietro, sono scarsi”. Una teoria che può essere comodamente demolita dalle storie di Pirlo e Zambrotta, per dirne due. Ma anche dalla storia di Mihajlovic, per dirne tre.

Non è mai facile trovare un legame tra il tipo di giocatore che sei stato e il genere di allenatore che sarai. Non credo abbia senso fare delle acrobazie per trovare un nesso tra questo e quel dettaglio del suo essere allenatore oggi con questo e quel dettaglio del suo esser stato giocatore poliruolo ieri. Detto questo, è saggio mettere ordine al suo passato per provare a capire qualcosa di più del suo futuro.

Gioca le prime stagioni da professionista a fare l’esterno sinistro di centrocampo nel Vojvodina. Una cosa che continua a fare anche nella leggendaria Stella Rossa Campione d’Europa del ’91. Il penultimo rigore della finale di Bari contro l’OM di Papin e Abédi Pelè, lo calcia lui. Quella sera la generazione di Jugovic e Savicevic, Prosinecki e Pancev, vince il suo primo grande trofeo. Poi sarà il buio. Sui Balcani scende la guerra. I primi colpi di mortaio di quell’anno fanno capire a chi è di quelle terre che il conflitto serbo-croato-bosniaco è alle porte. E che sarà terribile. Chi ha l’opportunità di fuggire all’estero, lo fa. Per i giocatori della Stella Rossa le opportunità sono le offerte delle grandi squadre europee ad ovest di Trieste. Real Madrid, Inter, Milan, Sampdoria e molte altre. In quel momento vogliono tutti fare indossare le loro maglie ai migliori giocatori Jugoslavi in fuga, Mihajlovic sale su quel flusso migratorio e scende a Roma. Poi prosegue tra Sampdoria, Lazio e Inter, vincendo scudetti, qualche coppa, e diventando il difensore più amato di sempre dai fantacalcisti.

E da allenatore? Passa dal campo alla panchina senza nemmeno cambiare spogliatoio. Lo fa all’Inter. L’allenatore è Mancini, che è già stato suo capitano alla Samp, suo compagno alla Lazio, suo allenatore sempre alla Lazio e, appunto, suo mister anche all’Inter. Sinisa è il vice di Roberto. In particolare il suo compito è quello di curare i movimenti della difesa. Una sorta di allenatore di reparto. Ma all’ombra di Mancini si riesce a capire ancora poco dell’allenatore che sarà. Per quello si deve aspettare che diventi lui un primo allenatore.

La storia inizia a Bologna, e non inizia per niente bene. Mihajlovic finisce nella dissennata gestione Menarini della stagione 08/09. Arriva a novembre dopo l’esonero di Arrigoni e viene a sua volta esonerato ad aprile. In quei 5 mesi e mezzo si vede qualche buono spunto ma anche qualche difetto d’inesperienza. Le cose iniziano a migliorare l’anno dopo, al Catania. Anche qui viene chiamato dopo l’esonero dell’allenatore che aveva iniziato la stagione. In Sicilia, per la prima volta nella sua carriera da allenatore, riesce a dare una chiara fisionomia alla sua squadra. I risultati sono molto buoni. Vince a Torino contro la Juventus e conclude l’anno con una convincente salvezza e il provvisorio record di punti per il club. Il buon lavoro di Catania lo fa notare dalla Fiorentina che sceglie di ripartire da lui dopo aver salutato Prandelli. La prima stagione, quella del 10/11, è un lungo insomma. Le attenuanti ci sono e una è sicuramente l’infortunio che tiene fuori Jovetic per tutta la stagione. La sensazione però è che le idee di Mihajlovic non siano così chiare come lo erano a Catania. Una sensazione confermata anche all’inizio della stagione seguente e sancita dall’esonero di novembre. Il secondo in soli 4 anni di carriera. Insomma.

Quando 6 mesi dopo, a fine maggio 2012, viene scelto per diventare il selezionatore della Serbia, la sua carriera sembra incamminarsi verso orizzonti anonimi. Un’impressione rafforzata dal terzo posto (quindi eliminazione) nel girone di qualificazione ai Mondiali brasiliani, dietro alla Croazia. Poi però cambia tutto. Tutto si ribalta. Il signor Rossi (Delio) che due anni prima l’aveva sostituito a Firenze, ora viene licenziato dalla Sampdoria. Chi lo sostituisce? Proprio così.

La Samp di Mihajlovic è storia recente. È la squadra che fino ad ora ha meglio incarnato le sue idee di calcio. L’esperienza a Genova è quella della maturazione di un allenatore che fino a quel momento aveva avuto troppi alti e bassi. Era la sua grande occasione per rientrare nel calcio italiano e l’ha sfruttata alla grande. Così bene che dopo nemmeno due anni si è ritrovato sulla panchina del Milan. Tutto bello quindi? Maturazione avvenuta e totali garanzie in panchina? Non lo so. A giugno, quando si parlava anche delle ipotesi Ancelotti e Montella, quel curriculum di due esoneri su quattro squadre allenate non lo faceva uscire benissimo dal confronto con gli altri candidati. Un dato di fatto: due volte su quattro, in Italia, non è riuscito a dare una fisionomia alla sua squadra. Domanda lecita: in quale dei due 50% finirà l’esperienza al Milan? Sono problemi che appartengono ad una fase di carriera ormai del tutto superata? Lungo l’articolo ho provato a darmi qualche risposta.

CAPITOLO II
Qui, in serbo per voi c’è komandir, ossia comandante.

Il criminale di guerra Ratko Mladić. Fu “komandir” delle milizie serbo-bosniache dal 91 al 96.
Qui ritratto da Owain Thomas nel 2011, in occasione del suo arresto.

In questo punto fate attenzione: stanno per piovere categorizzazioni un po’ semplicistiche. Non mi piacciono quando le fanno gli altri e mi piacciono ancora meno quando le faccio io. Ma non lo si può negare: dividere il mondo in categorie ha una sua comodità. L’importante è non prenderle per oro colato. L’importante è ricordare che poi la realtà è sempre più complessa e che gli schemi rigidi non possono starle dietro.

Fatte le premesse, prese le precauzioni, ora dico la categorizzazione-un-po’-semplicistica che di solito uso per gli allenatori. Quando ne vedo uno a bordo campo, oppure lo sento parlare nelle interviste, tendo a prendere in mano la sua figurina e a tenerla sospesa sopra a due barattoli. Uno ha l’etichetta “allenatori di nervi”; l’altro, l’etichetta “allenatori di gioco”.
Nel primo barattolo metto gli allenatori che tendono a costruire le proprie vittorie mettendo davanti ad ogni altra cosa la cattiveria agonistica, l’aggressività, i ritmi alti, la tenuta fisica, lo studio dei punti deboli dell’avversario. Tutte cose che in Sudamerica condensano in una sola, straordinaria, parola: garra. Nel secondo barattolo metto invece gli allenatori che puntano al successo prima di tutto attraverso il perfezionamento dei dettagli tattici, l’identità di gioco, la capacità di trovarsi a memoria, l’armonia dei meccanismi, la piacevolezza estetica.
Qualche nome? Nel barattolo degli ateniesi ci sono per esempio Ancelotti, Ventura, Sacchi, Wenger, Klopp, Pellegrini, Guardiola, Sarri, Bielsa. Nel barattolo degli spartani invece tipi come Mourinho, Conte, Simeone, Capello, Emery, Pochettino, Espirito Santo. E Mihajlovic.

Ciò non significa che gli uni non siano anche dei grandi leader e che gli altri non facciano giocare anche bene le loro squadre. Solo che danno differenti priorità. Ci sono quelli che si vedono come comandanti di un battaglione in trincea e ci sono quelli che si sentono direttori d’orchestra dentro un teatro. L’obiettivo, per tutti, è lo stesso: ottenere il successo. Le vie (o i barattoli) per ottenerlo sono invece profondamente diverse.

Che Mihajlovic sia più un comandante che un direttore d’orchestra, lo possono spiegare due casi lampanti tratti dalla sua ultima stagione alla Sampdoria. Caso uno, il difficile inizio con Eto’o. Caso due, uno scherzo telefonico di Okaka che poteva finire molto male. Con Eto’o i problemi sono nati quando il giocatore ha capito che l’allenatore non lo considerava un titolare a prescindere, e che gli avrebbe dato le stesse identiche garanzie che dava ad un Bergessio o ad un Sansone (a pensarci, una cosa molto simile alle panchine di Bonaventura e Montolivo contro l’Empoli, per far spazio al quasi-ceduto Nocerino e all’appena arrivato Kucka). Con Okaka invece è stata tutta colpa di Gazzetta dello Sport. L’avevano invitato in redazione per intervistarlo e commentare il grande avvio di stagione, sia personale, sia di squadra. Poi le domande si sono spostate su Mihajlovic e sui suoi modi decisi di tenere il timone del gruppo. Dopo qualche parola, al giornalista viene in mente di fare il brillante e di proporre a Okaka di fare in diretta uno scherzo telefonico al suo mister. Lui imprudentemente accetta. Stefano, ma perché?
- “Pronto mister. Volevo dirle che domani non posso venire all’allenamento” — “Ma che c**** stai dicendo” — “Mio fratello si sposa” — “Ma non me ne frega un c****, tu domani vieni che ti faccio un c*** così”. Queste le battute salienti, in sintesi. Ma val la pena guardarseli tutti quei 3 minuti di terrore.

In sociologia il potere viene definito come la costante minaccia di una possibile punizione. Un po’ come una spada di Damocle lasciata pendere su qualcuno. Finché quella minaccia intimorisce chi la subisce, allora il potere può avere l’influenza che desidera; quando la minaccia smette di essere temuta, il potere svanisce. Ecco, Eto’o e Okaka hanno potuto capire come Mihajlovic eserciti il suo potere dentro lo spogliatoio. E che la spada di Damocle assomiglia moltissimo anche a quella di Sinisa.

Non mi è mai piaciuto il discorso “dovrebbero tutti fare un anno di militare perché ti mette in riga e ti fa capire tante cose”. Ho sempre pensato che significa arrendersi all’idea che siamo come cavalli e che se qualcuno non ci batte un frustino sulla schiena non sappiamo vincere le nostre corse. Però ora mi contraddico un attimo: se lo spogliatoio del Milan — che non ha una spina dorsale dal 2012 quando se ne andarono Gattuso, Seedorf, Nesta, Thiago Silva eccetera — viene guidato da uno come il signore serbo che ha parlato al telefono con Okaka, sono fiducioso che la ristrutturazione caratteriale possa finalmente iniziare.

CAPITOLO III
Qui, in serbo per voi c’è revolucija, ossia rivoluzione.

Gavrilo Princip. Rivoluzionario serbo. A Sarajevo assassinò l’arciduca austriaco dando il la alla Prima Guerra Mondiale.
A Belgrado, proprio in via Gavrilo Princip, è ritratto in un famoso murales.

Il giugno del 2015 è stato un momento di svolta per la storia recente del Milan. In società, una rivoluzione di minoranza (con il 48% delle quote quasi in mano a Bee Taechaubol). In panchina, una rivoluzione di maggioranza assoluta.

La firma di Mihajlovic sul contratto biennale per l’incarico da allenatore del Milan, porta in panchina, per la prima volta nell’era Berlusconi (e dei “il bel giuoco”, dei confutabilissimi “sono il presidente più vincente della storia del calcio”, dei “la nostra filosofia è essere padroni del campo, ovunque”), un allenatore che preferisce l’intensità alla manovra. Per carità, ci sono comunque state storie finite male — tipo Tabarez e Zaccheroni — e storie nemmeno iniziate — come Leonardo e Seedorf. Però anche lì, anche se poi disattese, le aspettative erano di imporsi sugli avversari con la qualità del gioco. Con Mihajlovic no.
È una rivoluzione anche perché dopo 14 anni e mezzo, Tassotti ha smesso di essere l’allenatore ombra. Il Milan l’aveva imposto a Maldini padre, Terim, Ancelotti, Leonardo, Allegri, Seedorf e Inzaghi. Questa volta il passaggio di allenatore in allenatore si è interrotto. Il serbo ha voluto un vice diverso, il suo. Anche se quello di Tassotti è stato un addio poco mediatico, il suo lavoro è stato una costante molto di sostanza e molto poco d’apparenza. Difficile dall’esterno coglierne l’importanza, più facile apprezzarla facendosi aiutare dalla frase “Tassotti è un patrimonio inestimabile, l’ultimo a poter portare alla squadra tutta la cultura del lavoro e della vittoria che è stata faticosamente costruita nello spogliatoio negli ultimi 25 anni”. La frase è di Paolo Maldini, uno che di Milan ha potuto saperne, vederne e capirne come nessuno. L’ha detta in un’intervista del marzo 2014, poco dopo l’insediamento di Seedorf.
Infine, Mihajlovic è una rivoluzione non tanto perché interrompe la saga de Il Milan ai milanisti — nemmeno Allegri lo era, nemmeno Zaccheroni — quanto perché apre quella de Il Milan agli anti-milanisti. Un antagonismo riassunto dal serbo nel suo famoso “non potrei mai essere l’allenatore del Milan” motivato dal suo sentirsi interista. Un antagonismo poi elegantemente superato fin dalle nelle prime interviste da milanista, relegandolo ad un periodo meno maturo della sua vita. Una fase in cui, parole sue, doveva dividere il mondo in amici e nemici.

INTERMEZZO QUASI GLAMOUR
Qui, in serbo per voi c’è šal, ossia sciarpa.

Sulle panchine di Bologna, Catania, Fiorentina e Samp, all’arrivo della stagione fredda, Mihajlovic ha sempre sfoggiato delle bellissime sciarpe. Non potevi non notarle. Anche vedendole in tv, stando sul tuo divano, capivi che dovevano essere morbidissime e di ottima sartoria. Avevano tutte delle spesse rigone orizzontali con i colori della squadra che allenava in quel momento. Un’abitudine presa dal suo amico Mancini.
La riprenderà anche quest’anno, tra novembre e dicembre, all’arrivo dei primi freddi? Oppure non lo vedremo mai con una bellissima sciarpona rossonera? E se non lo vedremo mai con una bellissima sciarpona rossonera, sarà perché non la vorrà mettere oppure perché quando arriveranno i primi freddi, lui non sarà più sulla panchina del Milan? No, vero? Vero? Adesso vado a cercare qualcuno pronto a metterci la mano sul fuoco. Torno subito.

CAPITOLO IV
Qui, in serbo per voi c’è predjelo, ossia antipasto.

L’antipasto tradizionale della cucina serba è la Čorba. Una minestra piuttosto leggera, di carne o verdure,
ideale per preparare il palato alle portate successive.

A giugno, prima di scegliere Mihajlovic, attorno al Milan già orfano di Inzaghi (terribile la gestione del suo addio, quanto quella di tutto il caso Seedorf, due allenatori tuttora stipendiati da Casa Milan) giravano anche altri candidati. C’erano Conte, Emery, Montella, Sarri e Brocchi. Ma il tentativo più ostinato è stato quello fatto con Ancelotti. Era appena stato esonerato dal Real e — non è chiaro se come consolazione o come ulteriore punizione — si è ritrovato, per 4 giorni, nella sua casa di Madrid, l’ospite Adriano Galliani. Ancelotti ha confermato che voleva fermarsi almeno per una stagione e così il Milan ha virato su Mihajlovic. E qui c’è qualcosa che mi sfugge. Non riesco bene a capire quale coerenza ideale ci sia nel passare dal guru del Milan del 21esimo secolo ad un allenatore che, per quanto interessante, ha una concezione di calcio diametralmente opposta. Credo rientri nel fatto che il Milan non ha un direttore tecnico e che ogni scelta di mercato, anche riguardo agli allenatori, viene presa seguendo le presunte competenze e la non-progettualità del solo amministratore delegato.

Detto questo, si può comunque razionalizzare la virata su Mihajlovic. Manca in società la capacità e la volontà di aprire un progetto tecnico? La rosa è composta di buoni giocatori ma nessuna eccellenza? Si arriva da una stagione in cui è mancato tutto? La squadra non ha più alcuna certezza? Allora lui può essere una strada molto efficace per ripartire dalle basi, dall’orgoglio, dalla fame.

L’antipasto del Sinisa pensiero hanno iniziato a servirlo venerdì 3 luglio. Immediatamente l’ambiente Milan ha sentito che aveva un sapore molto diverso da quello solito. Niente frasi di circostanza, niente discorsi banali, niente conferenze che i giornalisti avrebbero potuto scrivere ancor prima di averle sentite, ma soprattutto, niente sudditanza rispetto all’amministratore e al presidente del club.
Per assurdo, uno dei miei timori era legato ad uno dei principali pregi del serbo. La tendenza a parlare chiaro usando poco la diplomazia. Mi dicevo, ok questo arriva, impone le sue scelte, alcune partite vengono bene, altre meno. E cosa succede quando Berlusconi inizia ad invadere il campo? Quando inizia a dire chi e come dovrebbe essere schierato? Succede che o Mihajlovic lo prende per il bavero oppure dà le dimissioni. Magari già dopo due mesi. Destabilizzando così l’ambiente e cancellando mesi di lavoro.
Invece la sua presentazione mi ha messo tranquillo. Ha fatto capire da subito che è lui che comanda. Una gioia per il non-più-cavaliere. Eccitante. Come quei top manager abituati a impartire ordini tutto il giorno, che poi nel privato godono nell’essere maltrattati dalla escort di turno. Si cerca sempre quel che non si ha. Berlusconi l’ha trovato in Mihajlovic e nel suo polso.

Fa impressione ricordare l’umiliazione subita dal povero Inzaghi solo pochi mesi fa, a Milanello. Il suo presidente che, davanti ai giocatori, gli insegnava come gridare alla squadra in quel ridicolo teatrino dell’ATTACCAREEEE!! Fa impressione se quell’umiliazione la si confronta con la naturalezza con cui, all’opposto, Mihajlovic ha zittito Berlusconi nella sua prima conferenza stampa da nuovo leader tecnico del Milan (pochi secondi oltre il minuto 18).

Fin qui un antipasto con un sapore deciso. Lontano dalle timide salsine di Allegri e Inzaghi; più vicino all’habanero di chi sente di avere carta bianca.

CAPITOLO V
Qui, in serbo per voi c’è tržište, ossia mercato.

2 signore e 364 peperoni, in un mercato di Belgrado.

Quando si parla di allenatori, a meno che non siano manager all’inglese, l’argomento mercato è pertinente fino a un certo punto. Non è un loro compito.
Mi immagino sempre che se il mondo girasse come dovrebbe, sarebbero gli allenatori a indirizzare le scelte di chi fa mercato. “Sono o non sono quello che deve mettere in campo la squadra? Allora ti dico chi mi servirebbe e chi no”. Sappiamo tutti che in realtà poi è tutto molto meno lineare. Tranne però quando ci sono allenatori dalla personalità forte. Come mi aspetto che sia Mihajlovic. Ecco perché immaginavo un cambio di rotta netto anche nella gestione della campagna acquisti-cessioni. Un cambio che non c’è stato. Anche quest’anno, al Milan, la battaglia Improvvisazione vs Programmazione l’ha vinta la prima.

Zaccardo
Fuori squadra da fine luglio, escluso dalla tournée cinese, poi però improvvisamente convocato per la 2° di campionato. Appena prima di essere ceduto.
Kucka
Preso perché costato due rate da 1,5 milioni l’una e non certo perché aumenta il tasso tecnico del centrocampo. Arriva il giovedì e gioca il sabato. Quindi significa che era l’uomo che mancava? Che gli altri centrocampisti in due mesi di lavoro hanno appreso meno di quanto ha appreso lui in un solo allenamento?
Montolivo.
La fortuna vuole che sia intelligente e capisca la situazione. Questo disinnesca il potenziale problema della scarsa gestione comunicativa del suo passaggio da capitano a riserva dell’appena arrivato Kucka.
Mexes.
Prima non rinnova, poi a luglio, a ritiro iniziato, firma e torna. Poi a fine agosto decide di andare alla Fiorentina. Poi invece qualcuno, ma non Mihajlovic, lo fa rimanere. Dunque? Mexes serve o non serve?
E Suso.
Anche lui preso perché costava zero, non perché funzionale a qualche idea di calcio. Non ha quasi mai giocato con Inzaghi, non ha quasi mai giocato con Mihajlovic in precampionato. Promesso al Genoa. Rimasto perché lui non ha voluto. Poi improvvisamente titolare contro l’Empoli.

Scegliere Mihajlovic vuol dire scegliere di affidarsi a lui e alle sue scelte decise. Mi sarei aspettato che questa sicurezza limitasse la fantasiosa superficialità con cui il Milan è sempre stato costruito nelle ultime stagione. Credevo che avrebbe garantito un maggiore coordinamento tra mercato e campo. Che avrebbe scelto con chiarezza il gruppo di quelli su cui puntare, inducendo così i giocatori non utili a cercare altre squadre. Dove sarebbe mancato il mercato, avrebbe compensato una specie di selezione naturale. Invece Suso, Nocerino e altri non hanno mai avuto, in due mesi, la certezza di essere dentro o fuori dal progetto.

Credo che Mihajlovic abbia avuto il demerito di aver subito, oppure essere stato complice, dei casi elencati sopra.
Un demerito che non mi sarei aspettato da un allenatore che è riuscito a far acquistare Romagnoli, facendo spendere al club una cifra mai nemmeno lontanamente spesa per un difensore negli ultimi 13 anni. Il colpo Romagnoli è suo. In quella situazione ha saputo essere il direttore tecnico che il Milan non ha. In molte altre, invece, ha tenuto una linea meno chiara di quel che sarebbe servito.

CAPITOLO VI
Qui, in serbo per voi c’è opklada, ossia scommessa.

Lui.

Scommessa di nome e Balotelli di cognome. Un ritorno assurdo. Senza una logica tecnica, senza un obiettivo tattico, nato da un’idea passata in poche ore da Raiola a Galliani a Berlusconi a Mihajlovic. Ma quando arriva a Mihajlovic la scelta smette di essere assurda e inizia ad essere una scommessa.
La cosa più importante del remake “Balotelli 2” non è l’attore, è il regista. Non è Balotelli, è Mihajolovic. A differenza di quello che avrebbero fatto altri allenatori visti al Milan negli ultimi anni, decisamente più passivi, lui ha saputo e voluto giocare un ruolo centrale nella vicenda. Mihajlovic ama prendersi responsabilità e rischi, e ama far sapere a tutti che se li prende.

Balotelli è una scelta avallata da Mihajlovic. Un rischio calcolato. Non arriva come un giocatore importante, né per fare il titolare. Arriva come una riserva. Se farà il Balotelli buono, tutti diranno che sarà stato merito del serbo; se farà il Balotelli cattivo, tutti diranno che è un giocatore irrecuperabile. È stata un’occasione per saldare la sua posizione di nuovo uomo di riferimento del Milan.
Tutti hanno potuto leggere sui giornali che ha voluto incontrare Balotelli di sera, in un parcheggio, per guardarlo negli occhi e capire se davvero poteva fidarsi di lui. Una scena da film. Un Al Pacino di Ogni Maledetta Domenica. Un episodio che ci dice che l’allenatore del Milan lavora anche di sera, è istintivo, vuole parlare da uomo a uomo, è un duro (va in un parcheggio, mica nella hall di un hotel di lusso). Una sceneggiatura che racconta che è stato Mihajlovic a esporsi per riprenderlo, ma che in realtà sposta tutto il peso dell’eventuale fallimento sul giocatore.

In questa cosa di Balotelli vedo un allenatore che diventa un po’ manager. Un capo che usa astuzia, cinismo, azzardo e freddo calcolo per ottenere dai suoi uomini i risultati che vuole. Non riesco a capire né a condividere il prestito di Balotelli, eppure mi piace che il nuovo allenatore del Milan sia qualcuno che gestisce così un episodio del genere, che ha in testa una sua strategia e che per perseguirla non ha paura di prendere scelte nette. Addirittura impopolari.

ULTIMO CAPITOLO
Qui, in serbo per voi c’è očekivanja, ossia aspettative.

Aspettative di vulcanicità. Qui Mihajlovic sta cercando di aggredire Regini, un suo giocatore (il primo a sinistra).
Il motivo? A pochi secondi dalla fine del derby, ha fatto un errore di concetto che stava per compromettere la partita.

La sera in cui la Lazio è stata sconfitta a Leverkusen, nel ritorno del preliminare di Champions League, ho trovato le parole giuste per spiegarmi cosa volevo dal Milan di Mihajlovic. Me le ha suggerite Marco Parolo, nel dopo partita. Il giornalista gli chiede cosa non abbia funzionato e lui, con grande lucidità, risponde: “Il Bayer ha giocato con un’intensità superiore alla nostra. Ci hanno dimostrato come si gioca in Europa.” Oltre ad avere la riconferma che sia un giocatore interessantissimo, e altrettanto sottovalutato, Parolo mi ha dato la sintesi perfetta di quel che voglio aspettarmi da questa stagione, in due parole: ritmo europeo. Voglio che il Milan di Mihajlovic raggiunga quel tipo di ritmo. O che almeno ci si avvicini. O che almeno abbia quell’obiettivo.

Mihajlovic — che sono sicuro apprezza come me Parolo e gli piacerebbe molto allenarlo — può riuscirci. Vero: nonostante sia straniero, e abbia anche allenato la nazionale della Serbia, è maturato calcisticamente in Italia e non ha praticamente alcuna esperienza internazionale. Vero: sarà difficile riuscire ad acquisire dinamiche europee in un anno in cui la squadra giocherà sempre e solo sulla scena nazionale. Vero: quando Parolo parla di gioco europeo pensa alla velocità e ai pochi tocchi del gioco del Bayer, ma anche a come quel sistema possa contare sulla capacità di fare la differenza di giocatori come Çalhanoğlu, un esempio di personalità e incisività che al Milan attuale senza dubbio manca. Vero tutto. Eppure credo che passo dopo passo, scelta dopo scelta, Mihajlovic possa aiutare la squadra ad avvicinarsi a quelle caratteristiche europee.

Il serbo è una grande opportunità per il Milan. E, assieme, un grande rischio. Viene a portare una filosofia di calcio a cui l’ambiente Milan non è abituato. No palleggio, Si verticalità. No subire falli perché sei il più forte, Si essere il più aggressivo su ogni palla. No possesso, Si arrivare in porta il prima possibile. No un regista, Si rubare palla il più avanti possibile e passare in un istante dalla fase difensiva a quella offensiva. No centrocampisti che trovano linee di passaggio geniali, Si centrocampisti che scaricano palla e si inseriscono con la corsa.

Se vincerà, verrà visto come un’innovatore e lascerà alla squadra un prezioso bagaglio di coesione e intensità da spendere anche nei prossimi cicli.
Se non ci riuscirà, sarà come se la partita casalinga contro l’Empoli, alla 2° giornata, si spalmasse in eterno, da qui a maggio. Lo vedremo, durante le partite, chiedere ai preparatori in panchina perché i giocatori non corrano. Lo vedremo urlare ai giocatori che non stanno giocando con la stessa convinzione che hanno avuto tutta la settimana a Milanello. Si accorgerà che il motivo è la mancanza di personalità della squadra. Che non ci sono giocatori che vanno a prendersi la palla. Alla fine, nel dopo partita, dirà — e avrà ragione — che è un problema di testa e che hanno paura e che non hanno autostima e che si sentono ancora le scorie della stagione di Inzaghi.
Però allora, a quel punto, ci chiederemo se non potesse accorgersi già a metà estate dei difetti mentali della rosa. Ci chiederemo per quale ragione i molti milioni spesi sul mercato non siano stati impiegati per portare al Milan almeno un paio di giocatori di esperienza internazionale, di carisma, superiori, capaci di far crescere lo spogliatoio e di dare sicurezza ai compagni in campo. Un paio di giocatori in stile Bacca, per intenderci. Ma uno dietro e uno in mezzo. Perché ok che Bacca è un giocatore di quel livello, ma se dietro ci sono gravi difficoltà, come può incidere davvero? Ci chiederemo anche perché viene a dirci che il problema è nella testa se lui è stato scelto proprio perché è considerato uno dei migliori a lavorare sull’aspetto mentale e — come diceva il mio amico Jury su Skype — a tirare fuori dai giocatori più di quel che ci si aspetterebbe da loro.
E, infine, ci chiederemo se allora il suo approccio forse non funzioni meglio in situazioni in cui si ha tutto da guadagnare (vedi Sampdoria, vedi Catania) e meno in casi in cui si ha molto più da perdere (vedi Fiorentina, vedi Milan).

Ok adesso basta. Stop. Basta cattivi presagi. Dovrebbe esserci un regolamento chiaro su queste cose. Una norma che dica “fino all’inizio di ottobre, ad ogni sostenitore, è severamente vietato essere pessimista sull’esito dell’intera stagione della squadra a cui vuol bene”. Quindi basta cattive sensazioni. Non avevo detto “se vincerà, bla bla bla” e “se non ci riuscirà, bla bla bla”? Bene, limitiamoci al primo punto, quello del lieto fine.
Sono convinto che alla fine, anche al Milan come alla Samp, Mihajlovic troverà il modo per trasmettere sicurezza ai suoi uomini. Troverà le parole giuste e il sistema di gioco migliore. Capirà quali chiavi tattiche e psicologiche usare per costruire un Milan compatto, corto, veloce, efficace.

Voglio convincermi che succederà. Voglio pensare che a maggio saremo qui a dire che allora Mihajlovic aveva davvero qualcosa di importante da dare al Milan. Che aveva qualcosa di bello in serbo per noi.

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