InterNational Basketball Association

Marco A. Munno
Crampi Sportivi
Published in
6 min readMar 15, 2018

Da quando si completò la fusione fra BAA e NBL nell’autunno del 1949, in funzione della nascita di una lega unica, la denominazione per indicare il massimo campionato cestistico americano porta il nome di National Basketball Association.

Nella scelta del primo vocabolo, è possibile fra le righe trovare un velo di nazionalismo per una lega che si prefissa di essere aggregazione del massimo talento cestistico possibile e, da un certo punto di vista, ce n’era ben donde: sin dal 1936, nei confronti con le altre nazioni nelle competizioni di Mondiali e Olimpiadi, la nazionale statunitense è stata dominatrice assoluta, tranne in rarissimi casi, fino a mutare l’approccio a qualsiasi di queste due manifestazioni come una corsa per il secondo posto, dando per scontato il trionfo a stelle e strisce.

In ogni caso, la NBA — in un contesto come quello degli Stati Uniti durante il secondo dopoguerra, in cui dominava incontrastata la segregazione razziale — provò a porsi all’avanguardia del cambiamento con l’esordio, già nel 1950, dei primi giocatori afroamericani quali Earl Lloyd con i Washington Capitols, Chuck Cooper con i Boston Celtics e Nat “Sweetwater” Clifton con i New York Knicks.

Certo, il connotato patriottico è sempre stato ben percepito all’interno della lega; la preferenza per gli autoctoni e un minore stima sportiva per i non statunitensi è sempre stata percepita, con le rare mosche bianche a combattere il pregiudizio. Pensiamo all’impatto clamoroso di Hakeem Olajuwon (comunque un afroamericano), passando per i titoli da MVP conquistati dal canadese Steve Nash e dal tedesco Dirk Nowitzki, con quest’ultimo campione NBA da protagonista tanto quanto lo spagnolo Pau Gasol, fino ad arrivare all’ultima versione dei San Antonio Spurs titolati nel 2014, fieri di un gruppo fortificato dalla commistione di diverse etnie (dai francesi Tony Parker e Boris Diaw all’australiano Patty Mills, passando per l’argentino Manu Ginobili, il brasiliano Thiago Splitter e l’orgoglio italiano Marco Belinelli).

La compenetrazione di atleti di diverse origini in mezzo a un tessuto di nazionalità statunitense è proseguita con costante aumento, fino a toccare la cifra in questa stagione di 108 giocatori internazionali provenienti da una cifra record di 42 stati diversi.

Il fenomeno che però si preannuncia rappresenterebbe il completamento del processo di internazionalizzazione della lega cestistica più competitiva di tutte: se verifichiamo i principali prospetti sotto i 25 anni, coloro che realisticamente rappresenteranno i futuri volti della NBA, quasi tutti sarebbero non statunitensi.

Giannis Antetokounmpo (Grecia)

Parlare di futuro sembra azzardato quando si parla di uno che già quest’anno rappresenta un candidato al premio di MVP; non sarà il vincitore, con il premio avviato verso le mani del barbuto che gioca in Texas, ma la presenza fra i migliori 10 giocatori della stagione non è in dubbio per il greco. Come potrebbe? Medie di circa 27 punti e 10 rimbalzi a partita, giocando da uomo ovunque per la franchigia dei Bucks che, dopo anni di magra, è ai piedi, anzi alle falcate del vostro tipico playmaker di 2 metri e 11 centimetri.

Joel Embiid (Camerun)

Sono bastate 73 partite nella Lega, neanche quelle di un’intera regular season, a Joel per dimostrare di essere già il miglior centro della NBA. La partenza da titolare nell’All Star Game di questa stagione ne ha validato il titolo: sia offensivamente che difensivamente (senza dimenticare i social) per il ruolo è nei primi due della classe, il che ne fa un campione assoluto. Avete presente un africano, centro, che qualche tempo fa con la tecnica immensa associata a un corpo scultoreo dominava sotto i canestri in giro per gli USA?

Un esempio.

Kristaps Porzingis (Lettonia)

L’immagine del ragazzino in lacrime al momento della scelta del lettone nel Draft del 2015 da parte dei Knicks, i cui fan contemporaneamente sono i più esigenti e meno pazienti della lega, è ormai stata mutuata in un meme. Kristaps non si è rivelato una buona pick, ma molto di più: feroce nel concludere al ferro, mano eccezionale da tiratore anche oltre la linea da tre punti, grande istinto per la stoppata. Non a caso, si è guadagnato il soprannome di unicorno per la sua unicità, con una struttura fisica di 2 metri e 21 centimetri che non dovrebbe permettere tutto ciò. Ma Porzingod non lo sa e lo fa lo stesso.

Ben Simmons (Australia)

Un esordiente dal tale rumore alle sue spalle non lo si vedeva dai tempi di James. Ben Simmons si presentava alla NBA con una ridda di voci che lo vedevano quale successore del Re, una volta sbarcato nella lega. Ma, insomma, pensando alla povera tradizione cestistica dell’Australia, i workouts o l’ingaggio da parte dello stesso agente di Lebron sembravano solo delle mosse di facciata, tanto più che la prima stagione era stata saltata in toto. Poi però si inizia e Ben sembra davvero la reincarnazione di LBJ: corpo da ala forte ma playmaker della squadra, capacità di concludere con entrambe le mani facendo valere la sua fisicità, oltre ovviamente a rimbalzo… e, per chiudere la specializzazione in tutte le fasi del gioco, anche nel passaggio ad effetto. Un predestinato.

Nikola Jokic (Serbia)

Grande, grosso e atletico: questa dovrebbe essere la silhouette in mente per il vostro centro ideale. Sostituendo all’”atletico” il pacioccone, otterremmo un’immagine adatta forse a qualche tenero abbraccio e non a un campo di cestisti. E questo è l’errore che si compie a prima vista con Nikola Jokic; a spiegarcelo è la seconda vista, quella in cui lo si osserva in campo. Non solo canestri da due e anche da tre punti, oltre ai rimbalzi, ma è il miglior passatore nel suo ruolo (nonostante l’immensa stazza) e uno dei più bravi dell’intera NBA nel fondamentale. Di conseguenza a punti, rimbalzi e visioni paradisiache, arrivano in serie le triple doppie: come quella più rapida della storia, realizzata in soli 14 minuti di gioco.

Andrew Wiggins (Canada)

Nell’immaginario collettivo, la prima cosa che deve saper fare un giocatore di basket è “far canestro”. E la seconda è “fare le schiacciate”. Ecco, in questo immaginario, Wiggins è nella top 3 dei migliori della NBA. Poi, andando a fondo, si trovano i suoi limiti: poco contributo in altri aspetti del gioco, come un effort difensivo minimo. Ecco spiegato come, dopo una stagione a 23.6 punti a partita, sia ora stato “retrocesso” a terzo violino della sua squadra, realizzando comunque 18 circa ad allacciata di scarpa. Considerato che era entrato nella lega come buon difensore e discreto all arounder, le possibilità per diventare più di uno scorer fantastico ci sono tutte.

Lauri Markkanen (Finlandia)

Di Lauri ci eravamo già espressi a suo tempo, a sottolineare un Europeo giocato da semi-sconosciuto a livello FIBA in maniera maestosa: un ottimo viatico per l’avventura NBA che sarebbe iniziata da lì a poco. Alla sua stagione d’esordio, in un contesto in totale ricostruzione (in pieno tanking, così da accumulare assets con cui pescare giovani dal Draft alla stregua proprio di Markkanen), il ragazzo sta traslando le sue qualità anche nella lega americana. Con gli ups & downs tipici degli esordienti, Markkanen ha già dimostrato come la sua capacità realizzativa sia tale a tutte le latitudini, diventando fra l’altro il rookie più rapido della storia a mettere a segno 100 tiri da tre punti. Giocando da ala forte o da centro.

Luka Doncic (Slovenia)

Di gran carriera alla lista si aggiungerà il giovane sloveno; non ancora in NBA a causa della sua giovane età, ma destinato a essere uno dei migliori (se non il migliore in assoluto) durante l’imminente Draft del 2018. Con l’architettura di un LeBron James — quindi un playmaker, ma con un fisico da ala — , Doncic si muove con una maturità non certo tipica di un diciottenne, come leader di una delle migliori 2-3 squadre d’Europa, già pronto per responsabilità immediate anche al piano successivo.

Ora pallone a lei, Mr. Trump.

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Marco A. Munno
Crampi Sportivi

Pensa troppo e allora scrive. Soprattutto di pallacanestro.