Interregno incantato

Crampi Sportivi
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6 min readOct 24, 2016

Terraneo, Tassotti, Baresi, Galli, Maldini, Di Bartolomei, Wilkins, Evani, Hateley, Virdis, Rossi.

Questo era l’undici titolare dell’ultimo Milan di passaggio, ove per passaggio intendiamo quello di proprietà, dalla gestione Farina a quella Berlusconi. In panchina, ad accertarsi che la palla viaggiasse leggera da un piede all’altro, c’era Nils Liedholm. Il Barone dirigeva col suo fare serafico l’orchestra incerta di un undici sperimentale, relativamente giovane, dove se si esclude il portiere ultratrentenne i più anziani erano il re del Mundial Pablito Rossi (29) — che segnò solo due reti quell’anno e saltò persino le prime dieci partite di campionato per infortunio — l’ex capitano giallorosso Agostino Di Bartolomei, allora trentenne, il centrocampista inglese Ray Wilkins (29) e l’attaccante sardo Pietro Paolo Virdis (28). A compensare l’esperienza del blocco anziano c’era un Paolo Maldini solo diciassettenne e già titolare inamovibile, nonostante fosse soltanto alla sua seconda stagione in rossonero.

Quel Milan arrivò settimo a 31 punti, in un campionato di sole 30 partite e con soli due punti disponibili per vittoria, e lo fece vincendo solo un terzo delle partite a disposizione. Ne consegue che il paragone tra il Milan attuale e quello di allora venga comodo più che opportuno, anche se sarebbe disonesto ignorare la manciata di analogie che entrambe si prestano.

Per un Maldini enfant prodige di allora oggi ci sono gli epigoni Donnarumma e Locatelli, ai quali va aggiunto anche un relativamente meno giovane Romagnoli. Per un Di Bartolomei regista maturo di centrocampo di allora oggi c’è un poco più che trentenne Montolivo. Per un assortimento offensivo a metà tra l’esotico e il nostrano come la coppia Hateley-Virdis, oggi ci sono le alternative Bacca e Lapadula. Chiaro che la classe di Baresi non trova riscontri nella realpolitik di Paletta, al quale va comunque tributato un plauso per l’efficacia dimostrata fino a questo punto. D’altronde, nel caso dei ragazzi di Liedholm, stiamo parlando di un gruppo che soprattutto in difesa si scoprì base su cui poggiarono trent’anni di successi. Il Milan di allora ha dalla sua la storia, mentre il futuro di quello attuale è ancora tutto da scrivere: si sa solo che sarà orientale e, almeno all’inizio, anche un po’ fumoso.

I termini di paragone sono diversi, i protagonisti e le poste in palio altrettanto e, in ultima analisi, si riconoscerà come i punti in comune tra le due squadre siano gli stessi che si trovano alla fine di ogni ciclo societario: si fa quel che si può con ciò che si ha in casa, e si compensa come si può al resto, meglio se con l’esperienza. Quando la necessità si maschera da virtù, l’alchimia sarà proporzionale alla capacità di adattarsi di tutti gli elementi in gioco.

Da questo punto di vista, nel primo Milan di Montella, il termine adattamento è la chiave di quell’alchimia nella sua accezione più virtuosa.

La capacità di adattamento infatti, unita a un approccio equilibrato alla psicologia dello spogliatoio (quindi né eccessivamente paternalistico né troppo minaccioso) è infatti la caratteristica principale di un Vincenzo Montella che rispetto alla sua esperienza fiorentina non si incaponisce più su un’idea di gioco ma ricerca la prestazione che sarà più consona al conseguimento del risultato positivo, avversario dopo avversario, senza snaturare le caratteristiche del singolo bensì esaltandole in nome dell’ensemble. Il fatto che la materia nelle sua mani sia altamente plasmabile — e, in alcuni casi, qualitativamente molto promettente — fa poi sì che le due esigenze si vengano incontro e si scoprano non solo compatibili, ma addirittura complementari. Una squadra giovane con un futuro societario incerto ha bisogno di un allenatore equilibrato e brillante come Montella per darsi certezze, un’identità, un percorso comune qualsiasi cosa il futuro riservi. Al contempo l’ex tecnico di Sampdoria, Fiorentina, Catania e Roma ha bisogno di una squadra che sia duttile, desiderosa di imparare ma anche lontana da pressioni o aspettative che possano rivelarsi eccessive rispetto al suo reale potenziale.

L’attrazione, in sostanza, è reciproca perché Montella esibisce come sua caratteristica principale, sia a bordocampo che nelle interviste, un piglio deciso ma mai ostile nei confronti dei suoi giocatori, un atteggiamento che, unito alla richiesta di virtuosa concretezza che si cela dietro la sua idea di gioco, potremmo definire didattico, e che andrebbe esportato e adottato nelle scuole dell’obbligo se i risultati a lungo termine dovessero trovare continuità rispetto a quelli di inizio stagione. Vincenzo non è un professor Keating, tanto refrattario alla tradizione da ricercare lo shock iniziale nei suoi studenti, che infatti prova subito a portare fuori dalla loro zona di comfort.

Nel rendere manifesta la sua estraneità al manierismo accademico, Keating vuole animare il senso critico dei suoi ragazzi, alimentando la scintilla individuale di ognuno affinché questa possa diventare, un domani, il fuoco di un libero pensatore, pronto a forgiare una altrettanto libera società attraverso il proprio sguardo e la propria voce. Per fare questo, Keating si rende simpatico agli occhi dei suoi studenti creando una confidenza giocosa.

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Vincenzo Montella non ha bisogno di conquistare nessuno, la sua natura non è giocosa ma genuinamente seria, e non per questo meno bonaria. Il suo obiettivo non è quello di plasmare individui preparati a interfacciarsi con una società tradizionalista, e possibilmente a innovarla, bensì quello di forgiare una società innovativa, in cui il libero pensiero del singolo non sia oggetto di sacrificio o mortificazione nel conseguimento di un obiettivo sociale, quanto piuttosto di esaltazione dello stesso. Montella ha intenzione di far capire a tutti i suoi giocatori che è più gratificante scoprirsi individui ognuno nel ruolo più consono all’interesse del gruppo.

La portata della novità rappresentata da Montella e dai suoi ragazzi, in particolare della sensazione che genera la sua vittoria con la Juventus, l’ha colta bene il mio amico Alessandro, col quale mi sono trovato a parlare di Milan dopo il fischio finale di Rizzoli. Tra il serio e il faceto gli chiedevo: non trovi buffo il fatto che nel passaggio dal trentennio berlusconiano, selvaggiamente liberista, al futuro cinese (ma capitalista) la squadra in campo oggi, quella dell’interregno, sia invece figlia di uno sperimentalismo giovane e di un vago operaismo? Posto che si tratta di un operaismo per associazione più che per affinità elettiva, d’altronde passi per Poli e Paletta, ma sarebbe difficile appiccicare la targhetta da operai a Bacca, Suso e Niang.

“No — mi ha risposto — questo non è né il Milan dei giovani né degli operai: è il Milan di un mister che è uno psicologo raffinato e ci sta facendo vedere che eravamo, tutti, dei drogati di grandi nomi”.

Come dargli torto? Venticinque anni buoni di berlusconismo calcistico: grandi obiettivi, mercato milionario, competitività nel tempo.

“Quanto era facile quel milanismo lì?”.

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Era insomma prevedibile che il risveglio da un certo tipo di assuefazione ai grandi risultati sarebbe stato brusco, ma nessuno si immaginava un distacco di realtà tanto grande. Lo straniamento è tale che anche all’indomani di una vittoria del genere il proverbiale carro viene percepito come “semivuoto”, un po’ perché si tratta solo di una sensazione di rinnovamento avvenuto e non di una vittoria concreta, un po’ perché dopo una partenza talmente in sordina e un mercato talmente deludente il coefficiente di scetticismo di alcuni era troppo alto per precipitare così presto, e di netto.

Dato il momento storico del Milan, data la sua portata storica come società all’interno del calcio e data l’età media della squadra (poco meno di 25 anni) viene comunque da riflettere anche sul potenziale storico di questo incontro di percorsi, di istanze narrative. Fino a cinque mesi fa il Milan non aveva né arte, né parte, né forma, oggi ha degli interpreti riconoscibili sia in campo che in panchina e una sua altrettanto riconoscibile interpretazione del gioco. Per tirare le somme di questa riflessione c’è bisogno di tempo ma già il solo fatto di trovarci a parlare di rivelazione alla nona giornata, a prescindere dall’esito di questa stagione, ci mette di fronte a un segno che chiede di essere decifrato.

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