La “Discriminazione territoriale” negli stadi — Intervista all’Avv. Mattia Grassani

Armando Fico
Crampi Sportivi
Published in
6 min readAug 21, 2017

Sabato 19 agosto è tornata la Serie A, ed è ricominciata, idealmente parlando, da dove era finita il 28 maggio scorso: dagli insulti a Napoli e ai napoletani. Insulti gratuiti, denigratori, diffamatori e discriminatori, che ormai seguono gli azzurri in qualsiasi stadio d’Italia, senza eccezioni e senza variazioni sul tema.

O almeno fino alla sfida di ieri al Bentegodi di Verona, dove abbiamo assistito a uno show (l’ennesimo) cangiante e caleidoscopico della bassezza morale cui può spingersi una tifoseria organizzata. Di fronte quindi a tale varietà contenutistica (per usare un amarissimo eufemismo) viene da chiedersi quale sia il limite tra lo sfottò da stadio e la discriminazione, razziale o territoriale, che merita e richiede l’intervento della legge ordinaria e di quella sportiva.

Pertanto, allo scopo di fare chiarezza abbiamo intervistato l’Avvocato Mattia Grassani, uno dei maggiori esperti di diritto sportivo italiano.

Avvocato Grassani, cosa s’intende per “discriminazione territoriale” e quali sono le norme che la disciplinano? Cosa prevedono queste norme?

L’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva è rubricato ‘responsabilità per comportamenti discriminatori’, ed il comma 1 stabilisce che ‘costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori’.

Le declinazioni della norma sono molteplici, e conducono a varie forme di responsabilità, diverse in ragione dell’autore della violazione: calciatore, dirigente, club, sostenitori.

Le sanzioni sono molto pesanti: ad esempio, per i calciatori protagonisti di comportamenti discriminatori, la sanzione minima consiste nella squalifica per dieci giornate, mentre per i dirigenti, nell’inibizione per quattro mesi. Qualora si tratti di tesserati della sfera professionistica, è prevista anche l’ammenda.

Per quanto attiene le società, quando il fenomeno, per dimensione e percezione, è tale da integrare portata discriminatoria, si applica, come sanzione minima, la chiusura del settore in cui le condotte violative sono commesse, fino ad arrivare, ovviamente alla squalifica del campo o alla perdita della gara, con penalizzazione di punti in classifica.

La discriminazione territoriale, invece, è un concetto che non è ben definito nel Codice di Giustizia Sportiva, essendo stato abrogata, come espressione caratterizzante l’art. 11, comma 1, citato, con il C.U. n. 58/A del 18 agosto 2014. L’unico richiamo attualmente presente è quello all’art. 12, comma 3, del Codice di Giustizia Sportiva, secondo cui le società ‘sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza o che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di origine territoriale’, con conseguente riconducibilità dell’insulto per motivi territoriali al genus delle condotte violente, piuttosto che di quelle discriminatorie.

Facciamo ordine: cos’è cambiato dopo la riforma voluta da Tavecchio lo scorso agosto 2014?

Con la riforma voluta da Carlo Tavecchio, pubblicata sul C.U. n. 58/A del 18 agosto 2014, è stata intelligentemente eliminata la parola ‘territoriale’ che, unitamente all’origine etnica, rappresentava uno dei motivi per cui un comportamento insultante poteva assurgere a discriminatorio. In sostanza, dopo la riforma, un’espressione consistente in un insulto per motivi di origine etnica è qualificabile come ‘discriminatoria’, con applicazione delle relative sanzioni (chiusura settori o stadio) di cui all’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva, mentre non lo è se il motivo dell’offesa è l’origine territoriale (es: zingaro di m….. è discriminatorio, palermitano di m….. no). Prima della riforma, invece, le due fattispecie erano equiparate.

Quali effetti positivi ha generato l’intera disciplina e cosa invece non ha funzionato?

Nel primo periodo di applicazione della norma, nella vecchia formulazione ante 2014, allorquando la ‘discriminazione territoriale’ ricadeva ancora nell’ambito di applicabilità dell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva, si registravano numerose sanzioni di chiusura di settori o impianti (con conseguente pregiudizio per i tifosi, oltre che per i club) che derivavano, più che da comportamenti discriminatori, da semplici sfottò legati alla provenienza da una città piuttosto che da un’altra.

In sostanza, la semplice ingiuria legata all’aggettivo che connotava l’appartenenza a una città, assumeva, con la vecchia formulazione normativa, natura discriminatoria., con conseguente applicazione di sanzioni spesso abnormi rispetto alle condotte antidoverose effettivamente commesse dai tifosi.

C’è tanta confusione, eh. Non sulla giurisprudenza, ma proprio sulla geografia.

La normativa in parola non rischia di essere ultronea in Italia, Paese da sempre fondato sui campanilismi? Ricordiamo tutti infatti lo striscione apparso al San Paolo “Vesuvio lavaci col fuoco: e adesso chiudeteci la curva”.

Non credo, se la norma viene applicata con equilibrio e accortezza non è affatto ultronea, ma serve per disciplinare e reprimere alcuni odiosi fenomeni che ancora oggi si verificano in molti stadi d’Italia. È evidente che sia chi percepisce in diretta il coro e lo riporta negli atti ufficiali, sia il Giudice Sportivo che infligge le relative sanzioni, sono chiamati a valutare con attenzione, anche considerando le modalità con cui un comportamento è posto in essere, quale condotta sia realmente discriminatoria e quale, invece, rappresenti un mero sfottò.

Ciò che si chiedono tutti è: le società che pagano a cosa contribuiscono? E poi, come può essere debellato il fenomeno se a pagare sono principalmente le società?

In realtà, in caso di ‘comportamenti discriminatori’, non pagano soltanto le società, ma anche i tifosi. La chiusura del settore da cui è provenuto il coro o, nei casi più gravi, dello Stadio, sanzioni minime in caso di comportamenti discriminatori, impedisce ai tifosi abbonati in quello specifico settore di assistere alla gara, anche da una diversa posizione.

Quindi, non sono più soltanto le società a subire danni da questi comportamenti, ma anche i tifosi stessi che li commettono, magari abbonati, privati del diritto di assistere allo spettacolo sportivo qualora l’episodio si sia verificato nel proprio settore.

Questo ci conduce direttamente al tema della responsabilità oggettiva. È un istituto ancora necessario nel nostro ordinamento sportivo?

Purtroppo lo ritengo necessario, ma da adeguare ai tempi. Pur rappresentando un istituto di cui l’ordinamento sportivo sembra non poter fare a meno, occorrerebbe individuare strumenti e soluzioni che attenuino le conseguenze per le società virtuose. In parte questi strumenti ci sono già, e faccio riferimento all’art. 13 del Codice di Giustizia Sportiva, che prevede un sistema di attenuanti e esimenti direttamente connesse all’organizzazione dell’ordine pubblico approntato dai club in occasione delle gare. A maggior ragione adesso, con alcune società che iniziano a disporre di stadi di proprietà, consentire ai club che mettano in pratica una efficiente gestione della sicurezza di evitare l’applicazione, a proprio carico, di sanzioni per responsabilità oggettiva potrebbe rappresentare un ottimo risultato.

Rispetto ai fatti di Verona, facciamo un passo indietro e cerchiamo di ricollegarli a quanto accaduto in Sampdoria-Napoli dell’ultima giornata dello scorso campionato. La Giurisprudenza consolidata degli organi di Giustizia Sportiva come classificherebbe quei cori? Detto diversamente: c’è una differente percezione del fenomeno tra “i privati cittadini” e le istituzioni sportive di alcune manifestazioni “discriminatorie”?

Li classificherei esattamente come ha fatto il Giudice Sportivo della Lega di Serie A, ovvero ‘cori insultanti di matrice territoriale’, che danno luogo, solitamente, all’irrogazione di una sanzione pecuniaria in danno del club di appartenenza degli autori.

Tuttavia, la discrezionalità propria degli organi di giustizia sportiva, unitamente all’elasticità delle norme del codice, consentono al Giudice, nei casi di particolare gravità o di recidiva, di irrogare anche sanzioni più pesanti dell’ammenda (anche la chiusura dell’impianto) anche qualora la condotta non integri un comportamento discriminatorio ‘in senso stretto’ ai sensi dell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva, ma costituisca un ‘ordinario’ (ma spesso parimenti odioso) insulto per ragioni di appartenenza territoriale.

Se possibile, ci dia una Sua soluzione o una Sua visione del fenomeno.

Come spesso accade, la risposta, a mio avviso, risiede nella gestione equilibrata e intelligente degli episodi, l’uno sempre diverso dall’altro, e nella valutazione, tanto da parte degli ufficiali di gara, quanto da parte degli organi di giustizia sportiva, del disvalore di quello specifico comportamento.

La riconducibilità o meno alla fattispecie dei ‘comportamenti discriminatori’ rappresenterebbe un problema secondario, qualora gli organi di giustizia sportiva applicassero sanzioni più gravi ai comportamenti che, ancorché costituenti mera ‘discriminazione territoriale’, e quindi fuori dall’applicabilità dell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva, vadano oltre allo sfottò ‘di campanile’, perseguendo finalità più subdole e offensive.

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