Introduzione ai rituali del Baseball

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readJul 29, 2013
Baseball

Se siete tra coloro i quali a sentir parlare di baseball vi spunta un baloon dalla testa che recita “???”, non preoccupatevi. Non capirci niente di uno sport è una condizione comune a molti, perfino chi vi scrive ignora che tipo di gioco sia, per esempio, il cricket se non una disputa tra coloni fomentata dall’odio verso la ex-madrepatria. Se obiettate che in fin dei conti i due sport siano molto simili vi state sbagliando di grosso; nonostante le apparenze e le similitudini baseball e cricket non sono nemmeno parenti. Il baseball discende da un gioco inglese chiamato rounders, ma con il passare del tempo si è trasformato da uno sbiadito passatempo britannico ad uno sfavillio di luci e colori che nemmeno la Strip a Las Vegas, impregnandosi di tutto quanto l’America ha concepito e saputo partorire nel corso di quasi due secoli. A volerla buttare in campo filosofico, potremmo dire con Jacques Barzun che non si può comprendere la mente e il cuore dell’America se non si comprende il baseball. Indipendentemente da come la pensino i tifosi di football, basket o hockey il baseball è l’America. È come mettere in un frullatore leggende, business, prestanza atletica, spirito di squadra, integrazione razziale ed un paio di palle di gelato e agitare forte.

Ma prima di qualsiasi altra disquisizione tecnica o supposta tale è necessario fare una piccola introduzione sul rapporto che esiste tra baseball e tifoso e sul modo in cui questi ultimi concepiscono il gioco.

Qualcuno ha sintetizzato che noi italiani andiamo allo stadio come se stessimo andando in guerra (e viceversa, ha aggiunto). Guardare una partita di calcio, per esempio, richiede uno stato psicologico di tensione. Concentrazione, urla e insulti, travasi di bile o eccessi di estasi sono il prodotto dei 90’ minuti, che spesso, se consideriamo la moviola e le polemiche sui giornali, arrivano a durare anche svariati giorni. Se invece proviamo ad immaginare un Homer Simpson che guarda il baseball lo vedremo con il cappellino porta-birra mentre, magari, sostiene la tesi secondo cui è impossibile guardare una partita da sobri. Questa immagine ci aiuta a riassumere la concezione degli americani per il baseball: si va allo stadio per divertirsi e per rilassarsi, standosene magari anche un po’ sbracati; spesso per fare tutto meno che vedere la partita. Non per niente una celebre definizione del gioco è “America’s favorite past-time”. Un perditempo per chi lo gioca, ma anche per chi lo guarda.

Si può apprezzare benissimo questo sconvolgente cambio di orizzonte culturale osservando i tifosi di baseball in tv. Un incessante andirivieni di gente che sbevazza o cerca di evitare di sporcare la maglietta propria e del vicino di posto mentre addenta hot-dog, nachos e ogni genere di cibo che può portarti a morire prima del previsto.Ovviamente la struttura della partita basata su nove riprese o inning e i suoi tempi dilatati (spesso un incontro può durare anche quattro ore) si presta bene a questo scopo; A completare il quadro le fasi del gioco e le sue pause che alternano momenti di — dai diciamolo- noia ad altri invece veramente elettrizzanti durante i quali un paio di giri di mazza fatti bene possono invertire il corso di partite che sembrano straperse. Inoltre una squadra in una stagione regolare gioca 162 partite distribuite nell’arco di sei giorni a settimana, e a volte anche sette. Per un tifoso di baseball concetti come l’ansia del risultato, tranne in alcuni frangenti della stagione, sono pressoché sconosciuti. Per cui è normale durante la partita dilettarsi in altro o addirittura essere naturalmente portati a farlo. Come, per esempio, assistere tra un inning e l’altro ad imbarazzanti mascot race in cui strampalate personificazioni di cose si sfidano e sulle quali la gente usa perfino scommettere.

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Oppure come al settimo inning, the seventh-inning stretch, quando tutti si alzano in piedi per stiracchiarsi e cantare la famosa canzoncina ‘Take me out to the ball game

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Il luogo dove questo rituale si consuma si chiama ball-park. Molti di essi sono leggendari e trasudano storia come il Fenway Park di Boston; altri, invece, sono collocati in scenari suggestivi come l’AT&T Park di San Francisco, che si erge a ridosso della baia offrendo agli spettatori, spettacolo nello spettacolo, la vista di una pletora di canotti e barchini che navigando nelle vicinanze sperano di conquistarsi qualche palla battuta fuori campo.

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Quella di disputarsi le palline che piovono tra la folla è un’altra usanza tipica dei tifosi che si spinge talvolta fino all’assurdo risultato di causare la sconfitta della squadra per cui si tifa, nel caso specifico i Chicago Cubs, in una partita decisiva dei play-off.

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Perché questo tizio, tale Steve Bartman, lo ha fatto? semplice: ogni tifoso che entra in uno stadio tenta di farlo. Punto e basta. Secondo un’altra versione la presa di Bartman è, invece, il risultato della maledizione di Billy ‘Goat’ Sianis, un tifoso al quale 105 anni fa fu impedito di entrare allo stadio durante una finale di campionato insieme alla sua capra perché, quest’ultima, avrebbe potuto infastidire gli altri spettatori. Offeso da tale rifiuto maledì i Cubs profetizzando che da quel momento in poi non avrebbero più vinto una partita delle World Series. E che ci crediate o no da quella volta i Cubs non hanno più giocato una finale.

Queste considerazioni potrebbero chiudere il cerchio sulla weltanshauung del tifoso di baseball ma in realtà si può andare anche oltre. Avete presente gli Isotopi di Springfield? Insomma la classica squadra della Minor League, che sarebbe una specie di serie B senza la possibilità di essere mai promossi nel paradiso della Major, comune a molte piccole e medie realtà americane. Queste squadre, spesso affiliate direttamente ai team delle Major e usate principalmente per far crescere i futuri campioni o far recuperare dagli infortuni gli altri, offrono uno spettacolo tecnicamente inferiore rispetto a quello della big-league, che però riescono ad arricchire con singolari competizioni di contorno come il food-contest in cui ogni anno si premia il miglior cibo da stadio. Quest’anno ha trionfato il Fantastic-Freeze Sundae dei Toledo Mud Hense: un chilo e mezzo, forse due, di gelato, completato una serie di gingilli ipercalorici, servito in un casco da baseball con tanti saluti a Carlo Cracco. Nei posti di rincalzo si sono classificati un piccantissimo hot-dog ed un panino tanto grande quanto impossibile da affrontare a mani nude, ripieno del succulento pulled-pork cotto alla griglia. Tanta carne al fuoco, in senso più o meno quasi sempre letterale, che probabilmente non sarà servita a rispondere alla domanda iniziale ma che, sono certo, ne ha introdotta un’altra: come si fa a non amare uno sport del genere?

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Nicola Palmiotto Laureato in lettere classiche per scommessa (persa), soffre d’insonnia e pertanto ha imparato ad amare gli sport americani. Odia lo slow-food e tifa per l’AS Bari (ahi-lui) e per l’AFP Giovinazzo di hockey a rotelle.

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