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Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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64 min readDec 19, 2016

Copertina di Fabio Imperiale

Diario della resistenza, giorno XL: l’altro giorno sono arrivati gli alieni sulla Terra per la sesta volta e ci hanno informato di volerla distruggere, brutti come i nostri sensi di colpa e, di conseguenza, non siamo riusciti neanche stavolta a sostenerne lo sguardo.

No, non è vero, gli abbiamo risposto. Ormai a voi importa soltanto di conoscere i nomi dei migliori giocatori di ogni Paese, per prelevarli dalla linea temporale del loro massimo splendore, portarli su Proxima Centauri con voi, sottrarli all’oblio e lasciarci senza pallone.

Volentieri, ci hanno risposto, sardonici.

Episodio 7 — Gli spagnoli

José Mari BAKERO

Basco di Navarra, arriva venticinquenne al Barcellona scelto da Cruyff che sta costruendo il suo Dream Team che vincerà poi tutto ad inizio anni 90. Bakero un po’ a sorpresa ne diventa uno dei giocatori più importanti. Un po’ a sorpresa perché in una squadra tecnica e di possesso come il Barcellona voluto da Cruyff il basco è un giocatore tutta garra e movimenti senza palla che se vogliamo dirla tutta non è in grado di tenere la palla per più di due tocchi. Nonostante questo viene però posizionato nel ruolo chiave di trequartista dietro il tridente offensivo nel rivoluzionario 3–4–3 a rombo del filosofo olandese. A Bakero non viene chiesto nulla di quello che non sappia fare: si muove tra le linee dietro il tridente offensivo facendo da bersaglio per i lanci dalla difesa. Senza neanche stopparla doveva con un tocco appoggiarla di prima ad un compagno per mantenere la circolazione di palla veloce. Con un algoritmo consolidato Bakero riesce a costruirsi una sontuosa carriera nella squadra che domina il calcio spagnolo per un lustro fino a diventarne capitano. L’algoritmo Bakero inventato da Cruyff funziona così: Bakero si smarca e gioca spalle alla porta, riceve e smista subito possibilmente all’ala così da girarsi poi e poi correre in area per essere lui stesso a concludere l’azione. Possibilmente di testa, sul secondo palo dal cross del compagno. Dove la difesa meno se lo aspetta perché sta seguendo la palla sul lato opposto. L’attaccante fantasma, che in area arriva e mai stazione ed è quindi illeggibile per le difese.

Martin VAZQUEZ

Secondo i più recenti studi di aerodinamica, l’equilibrio del corpo umano è dato dal rapporto tra la somma del perimetro di una geometria rettangolare e l’equidistanza speculare tra due ali di opposta cardinalità direzionale. La scienza, per evidenziare tali progressi, si è avvalsa dell’aiuto offerto dalle fasi di gioco del calciatore spagnolo ex Torino e Real Madrid Rafael Martín Vázquez, componente storico della Quinta del Buitre; gli studiosi — un team composto da due barbieri di Borgo Filadelfia, tre ingegneri di fluidodinamica computazionale, un giornalista del Guerin Sportivo ed Emiliano Mondonico — hanno indagato la relazione virtuosa capace di attivarsi tra le righe bianche del campo, più specificamente quelle attorno all’area di rigore avversaria, e la forma trapezoidale assunta dai biondi baffi del suddetto atleta, al fine di valutare e poi certificare come l’acquisizione di spazio nel vuoto palla al piede, la direzionalità del pallone verso la porta, la misura dei passaggi verso i compagni d’attacco, godesse di un innesco determinante nella spinta che appunto l’aerodinamica sviluppava tra le due secanti finite ad infoltire il labbo superiore.

Emilio BUTRAGUEÑO

Butragueño, invece. Emilione nostro, nonostante portasse quella camiseta blanca non sempre facile da amare sportivamente, è stato un idolo. Uno di quegli attaccanti sui quali si usano i soliti aggettivi retorici riferiti alla natura, tipo rapace, falco, falco pellegrino, poiana, colibrì, rettile, serpente, serpente a sonagli, cobra, caimano, insetto velenoso, scorpione, felino, lince, ghepardo, giaguaro, pantera, leopardo, coguaro, pesce, squalo, squalo bianco, pesce spada. Ed erano tutti non solo verosimili, ma appropriati.

Luis ARAGONES

Aragonés, nonostante il nome, è castigliano, anzi madrileno; fosse stato aragonese, avrebbe preferito, cinico figlio dei deserti, la vittoria facile, il bottino sicuro, la vita del pirata o del mercenario. Da castigliano, Luis ha invece privilegiato il sogno, l’utopia, l’impresa impossibile o comunque molto ardua: cresciuto nel Real, diventa un simbolo e la bandiera massima dell’Atletico, nonché il suo miglior realizzatore di sempre. Perché al castigliano non basta tentare l’impresa difficile, gli serve anche completarla, perché altrimenti a che pro essere spagnoli? E infatti Aragonés, Zapatonés per i suoi tifosi (scarpone; ma è un omaggio ai suoi calci di punizione), vince tre campionati e varie coppe da giocatore; da allenatore, una Coppa Intercontinentale e un campionato, oltre alle Coppe del Re — non più del Generalissimo. Ma non basta ancora; l’impresa della vita di Aragonés, non a caso la sua ultima o quasi, è vincere con la Spagna, rompere la maledizione dei quarti, facendolo nel modo più castigliano possibile: ossia realizzando l’utopia del giocare bene, dominare e assieme vincere, e portando il tiki-taka al trionfo prima di Guardiola e del Barça (e senza Messi ed Eto’o). Aragonés muore nel febbraio del 2014; un Atletico molto poco castigliano, semmai aragonese, arriva in finale di Coppa dei Campioni nello stesso anno, con il nome dell’antico condottiero scritto in oro sulla maglia. Perde: e non poteva vincere, forse, non nel nome di ma senza Aragonés.

Alfonso Pérez

Cresciuto nella cantera del Real Madrid (dove ha giocato prima che alcuni giovani lo spodestassero), Alfonso ha persino vestito la maglia del Barcellona, in un biennio nel quale non si è ricoperto certo di gloria. Tuttavia, al di là del piccolo prestito all’OM, la storia del caparbio attaccante è legata al Real Betis. Otto stagioni con i Verdiblancos, con i quali ha alzato “solo” una Copa del Rey, valsa per lui un’intera carriera. Carriera che, tra l’altro avrebbe senz’altro meritato di più.

Cesc FABREGAS

È così tanto che vediamo Fàbregas nel calcio che conta da dimenticarci che non ha neanche trent’anni nell’attuale linea temporale. Classe ’87, la sua carriera passerà alla storia con ritardo: nel 2003 l’Arsenal lo preleva nel silenzio generale dalla Masia del Barcellona. Probabilmente in blaugrana non sanno (o pensano) che per riaverlo otto anni più tardi dovranno sborsare 40 milioni di euro, in una delle rose più competitive della storia catalana. Tornato nel 2014 in Inghilterra, sponda Chelsea (i tifosi Gunners non l’han presa bene), Fàbregas è diventato la materializzazione di come si possa sopravvivere re-inventandosi continuamente. Vertice basso o alto di centrocampo, regista, mezzala, persino centravanti in nazionale. Fenomeno totale, se la voglia e la concentrazione lo accompagnano.

Manuel SANCHIS

Braccio armato della Quinta del Buitre (la cinquina di canterani che rivoluzionerà il Real negli anni ’80), è stato l’unico di quel complesso a giocare tutta la carriera nel Real Madrid. Dal ’79 fino al 2001, attraversando quattro decenni e più 700 partite con la camiseta Blanca. La cosa sorprendente è il rapporto con la nazionale spagnola: nonostante 22 trofei alzati con il Real, Sanchís ha giocato solo sei anni con la Spagna. Nel ’92 c’è l’ultima presenza con la Roja in un’amichevole con gli Stati Uniti: peccato.

PICHICHI

Era alto un metro e mezzo, e infatti, da Rafael Moreno Aranzadi che era, divenne Pichichi: che vale, semplicemente, piccolino, piccino, ciaffetto. Eppure era basco, gente alta e robusta quanto notoriamente seriosa e un po’ grigia. Ma lui aveva altri piani, in parte facilitati dall’essere fratello di uno dei fondatori dell’Athletic di Bilbao. La prima parte del piano era abbastanza facile: diventare forte, fortissimo, in un calcio ancora poco affollato, in quel Nord basco che magari aveva altro cui pensare. E questa, a forza di corse, di cuoi durissimi nascosti ai marcantoni che gli si affollavano attorno, fu presto realizzata, tanto che Pichichi diviene una colonna dell’Athletic — gioca quinto a sinistra nell’allora normale 2–3–5. Poi bisognava vincere i campionati regionali e nazionali, che per la verità erano più che altro Coppe: anche qui ci siamo, anzi ci siamo tre volte: curiosamente, una volta contro il Madrid, una contro l’España di Barcellona, e una contro l’allora Athletic Madrid. In tutto questo Pichichi segna molto, ma più che altro gioca: pare fosse un inno al calcio e alla bellezza. (Nel frattempo costruiscono il San Mamés, e Pichichi è il primo a segnarci.) Infine bisogna lasciare una traccia anche in Nazionale: alle Olimpiadi di Anversa Pichichi a dire il vero fa poco, segna solo un gol, ma è quello della bandiera — di testa — nel 3–1 subito in finale. È comunque una medaglia, la gloria, un segno. Poi a trent’anni Pichichi mangia delle ostriche marce e muore: è il 1922. Siccome queste cose — la morte, le ostriche, gli eroi improbabili — ai latini piacciono, ed evidentemente anche ai baschi, Pichichi resta. Dal 1953 il suo nome è sinonimo del trofeo di capocannoniere della Liga. Non si sa come sia successo tutto questo, ma è successo, e da cento anni un nanetto basco sorridente e morto giovane è il simbolo di un calcio gigantesco e invincibile, che però si vuole ancora ligio alla propria missione — molto picicesca — di far divertire la gente.

Carles PUYOL

Che cos’è un capitano? Un capitano è un leader, un combattente, un amico, un maestro. È il primo a difendere un compagno, se viene attaccato, ma anche il primo a tirargli due schiaffi, se è necessario. È il custode dei valori di una squadra, della sua identità più profonda, della sua tradizione. Carles Puyol è stato tutto questo per il Barcellona. E lo è ancora. E lo sarà sempre. Pure se non gioca più, pure se ve lo porterete sul vostro pianeta. Dove, magari, tornerà a correre, entrare in scivolata, saltare, baciare la fascia coi colori della Catalogna, seminare avversari con le sue veroniche mentre qualche stolto sostiene che lui, sì lui, abbia i piedi ruvidi.

Michel SALGADO

La prima volta in cui lo vidi indossava la maglia del Celta di Vigo. Una furia bionda con gli occhi spiritati, bassetto ma piazzato, correre sulla fascia avanti e indietro neanche a chissà quale velocità ma con la foga di un indemoniato. Importante tassello della spinta che portava all’attacco ma soprattutto perfido e scriteriato randellatore, sembrava soddisfatto solo dopo un’entrata sull’avversario. Questo è forte, pensai. Starebbe bene al Real Madrid. E infatti dall’anno dopo ci giocò per ben dieci stagioni, in piena era Galacticos, l’appropriato soprannome di quell’armata spaventosa alla quale lui faceva da numero due, proprio nel senso del ruolo. Quando, dopo una secchiata di trofei nazionali e internazionali, la benzina diede segni di esaurimento, al suo posto esordì un certo Sergio Ramos e a Michel Salgado non restò che trasferirsi per qualche stagione in Premier League, per l’esattezza al Blackburn Rovers, nel campionato ideale per un terzino scatenato col vizio del tackle.

XAVI Hernandez

Tiqui taca, tiqui taca, tiqui taca. La palla passa veloce dai piedi di Busquets a quelli di Xavi, va a posarsi su quelli di Iniesta a torna su quelli di Xavi, passa a Messi e ritorna da Xavi, si sposta da Dani Alves che la rende a Xavi. Xavi, Xavi e ancora Xavi. Passaggio, controllo, passaggio. C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui portare via la palla al Barcellona o alla Spagna era un’impresa da titani. Venti, trenta, quaranta passaggi di fila prima di affondare. E al centro della ragnatela sempre Xavi. Poi Xavi è andato a giocare in Qatar, in un campionato con valori tecnici troppo sotto i suoi. E ogni tanto, da quei campi lontani e fuori da ogni circuito internazionale di diritti tv, ci arrivano le sue giocate, le sue punizioni, i suoi gol. Perché Xavi è ancora Xavi. Anche se il tiki taka non è più quella macchina infallibile di una volta.

Alfredo DI STEFANO

La Saeta Rubia, uno dei calciatori più forti di tutti i tempi. Non spagnolo di nascita, non soltanto argentino, si fece consegnare dalla storia alle Furie Rosse ma, soprattutto alla camiseta blanca. Fu la punta di diamante dei Galacticos prima ancora che fossero Galacticos, latore una personalità incredibile applicata al pallone, che brillava di carisma moderno in tempi che a guardarli da qui sembrano antichissimi. Don Alfredo Di Stéfano ha trasceso la propria carriera e il proprio talento in campo, fondendosi con lo spirito stesso del Real Madrid.

Sergio BUSQUETS

Immaginatevi di essere il vertice basso di un triangolo di centrocampo che ai vostri lati prevede Iniesta e Xavi. Immaginate di essere promossi dalla squadra riserve alla prima dovendo fare i conti con Yaya Tourè. Immaginate che a promuovervi titolare sia l’allenatore che vi guidava nella categoria inferiore e metteteci pure un padre bandiera del club per cui giocate. Sergio Busquets ha dovuto fare i conti con una serie lunghissima di fantasmi, e ci ha messo del suo per rendersi antipatico, brutto, sporco e cattivo, con simulazioni e atteggiamenti fuori dalle logiche del fair play. Però, Sergio Busquets è anche il migliore al mondo nel giocare la palla a uno o due tocchi, parola di Xavi. Magari sarà poco appariscente, magari non avrà nei piedi il velluto di Iniesta, ma quando non c’è si sente, fidatevi.

Luis GARCIA

Il calcio è strano è una delle frasi che ti sarà capitato di ascoltare più spesso, in genere per mettere le mani avanti, prima di raccontare una storia che disattenderà totalmente le sue premesse. Ora, il calcio sarà anche strano, ma se questa affermazione è vera allora è anche vero che se c’è qualcuno, o qualcosa, più strano del calcio stesso è Luis Javier García Sanz da Badalona e la sua parabola sportiva. A guardarlo nel 2005, con addosso quella maglia del Liverpool (era il Liverpool di Benitez, destinato a laurearsi campione d’Europa) quell’ala sinistra sbarazzina sembrava un lampo di luce che ci giungeva dalla fine di un tunnel temporale, da una dimensione parallela futura in cui il calcio totale non si giocava con tutta la squadra, ma con un giocatore solo. Tecnico, intelligente, veloce, riempiva tutto il campo con la sua aura calcistica e anche il fatto di essere ambidestro (anche se prevalentemente mancino) e proiettato verso la porta lo rendevano una specie di talismano ideale. C’è da considerare che già all’epoca era alla sesta maglia indossata, dopo quelle del Barcellona che lo aveva pasciuto nella sua cantera, di Valladolid, Toledo e Tenerife, e soprattutto dell’Atletico Madrid che proprio dai blaugrana l’aveva prelevato, prima che la casa madre lo riacquistasse solo un anno dopo avvalendosi di una clausola speciale inserita nel contratto precedente (sì, lo sappiamo: eh?). Insomma, già la realtà gli si sfaldava intorno, con compravendite paradossali in cui cambiava maglia ogni anno, e ognuno aveva diritto a godere delle sue prestazioni. Con tutto questo contendere il suo cartellino da parte di colossi spagnoli vi starete chiedendo cosa ci facesse al Liverpool nel 2005. Bene, ce lo siamo chiesto tutti. Girava, Luis Garcia. Nei tre anni ai Reds — un tempo esiguo, se ci pensate — si guadagnò la ventiquattresima posizione tra i migliori giocatori nella storia del club secondo i tifosi. In particolare nell’annata vincente del 2005, oltre a scavalcare Buffon con un pallonetto (una specie di trofeo a parte, a quei livelli), entrò nella storia del nonsense per quello che probabilmente è il più inspiegabile dei gol fantasma nella storia della Champions League, segnato al Chelsea in semifinale, che a rivederlo a velocità normale era chiaro non fosse mai entrato del tutto in porta, anzi. Quel gol Luis Garcia lo segnò praticamente andando a esultare. Va da sé che il fato o chi per lui fosse già palesemente in agguato, pronto a restituirgli un po’ del nonsense esibito in quell’occasione. Dopo un terribile infortunio subito nel 2007, per l’ala catalana iniziò il classico calvario che da un costante calo di rendimento lo porta a rifare le valigie spesso. Solo che nei suoi confronti si può parlare di accanimento: altre sette sono infatti le maglie che indosserà dal suo addio al Liverpool, non combinando sostanzialmente più niente né riuscendo a esprimersi mai più agli stessi livelli di prima, dalla Spagna all’India passando per Grecia e Messico. Uno dei più grossi crimini karmici del dio pallone, sicuramente il più grosso dei primi anni ‘00.

PEDRO Rodriguez

Ogni storia ha i suoi protagonisti e i suoi personaggi secondari. Ma qualche volta capita che i secondi riescano a ritagliarsi la loro bella fetta di trama, incidendo il loro nome nella memoria di chi ha assistito al film. Nel Barccellona più forte di tutti i tempi, quello delle sei Coppe, dei primi due anni di Guardiola, del tiqui taca, c’erano i Messi, gli Xavi, gli Iniesta, gli Henry e gli Eto’o. E poi c’era un ragazzo di 23 anni venuto dalle Canarie, un attaccante esterno, piccolino, rapido, meno tecnico dei suoi compagni di squadra. Ora, provate a immaginare chi, tra tutti questi, sia stato l’unico in grado di segnare in tutte le competizioni disputate dal Barcellona tra il 2009 e il 2010. Pedro Rodriguez da Tenerife.

Joseba ETXEBERRIA

I Paesi Baschi sono terra di lotta e fantasia, di combattenti e creativi. Caratteristiche perfettamente incarnate dall’Athletic Bilbao, dal suo orgoglio nazionalista, e da quella generazione impressionante di talenti mai del tutto compiuti esplosa a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila. Joseba Etxeberria è tra questi. Un’ala destra con il compito preciso di mandare in area cross per il pennellone Isamel Urzaiz e il vezzo, di tanto in tanto, di mettersi in proprio e cercare il gol. Garra e dribbling, questo era Joseba, il ragazzo cresciuto nella Real Sociedad che poi si innamorò dell’Athletic, fino al punto di non lasciarlo più, diventare il terzo giocatore con più presenze nella storia del club e regalare un ultimo anno in campo senza percepire stipendio.

Pedro MUNITIS

Io ero Munitis, lo sono stato in silenzio, sui campetti di periferia con i calzettoni arrotolati, con i parastinchi che non bastavano mai, le caviglie ridotte a una calvizie perenne, definitiva; io ero Munitis nei tacchetti che solo toccavano il terreno, poi via a saltare sul pallone e farci qualche giravolta, no, non mi prendono nemmeno stavolta, sono veloce io, copro col destro, mi appoggio, l’accarezzo col sinistro ché manco si sente il fruscio, io ero Munitis che gli devi sparare alle gambe, Munitis che Thuram ancora lo cerca da qualche parte dell’area di rigore, Munitis che sguscia, Munitis con una taglia di troppo la divisa, Pedro Munitis da Santander, in silenzio, sui campetti di periferia.

MICHEL

Li fanno ancora gli spagnoli come Michel? Non so. All’epoca gli spagnoli erano spagnolissimi, gli italiani italianissimi, gli inglesi inglesissimi, gli jugoslavi slavissimi; e i tedeschi, cosa invero poco leale, i più tedeschi di tutti. Nel complesso, tuttavia, ci stava, dato che l’Europa era tutto sommato europeissima. Nella Spagna spagnolissima i più spagnoli, soprattutto concettualmente, erano quelli del Real. Ma qui non vogliamo fare discorsi reazionari o, anche peggio, tirare in mezzo obbrobri moderni come i vari elogi filo-nostalgici e “ignoranti”. No. Michel non era ignorante in nessun modo; anzi, era raffinatissimo, aveva una corsa sul fondo elegantissima e un piede che era una delizia. Era solo antico; o lo pareva, non so, non ci siamo mai parlati. Si sa che avesse un carattere fumantino e che, da madrileno, si sentisse perfettamente legittimato a discutere del Real Madrid come fosse cosa propria con allenatori e anche tifosi. Valderrama sa anche che aveva un metodo peculiare ed efficace per disturbare la concentrazione di chi si trovava a marcare; e però, se ci fate caso, è serio, spagnolissimo, e molto elegante, perfino in quelle immagini lì. Di sicuro è stato uno dei migliori crossatori della storia del Real, che non è dir poco, e i gol di Hugo Sanchez e del Buitre sono in non piccola parte figli suoi. Tanto basta a perdonargli un orgoglio irritabile e puntuto, che d’altronde è un altro modo di dire “Spagna”.

Andrés INIESTA

Fa parte di un ristretto club, insieme a Ibra, Puskas e Maldini, Baresi e Buffon, di grandissimi campioni che hanno fatto epoca e che non hanno vinto il Pallone d’Oro. Iniesta è un calciatore irripetibile, forse una delle poche, autentiche reincarnazioni su un prato verde di Cruijff, sia per talento che per intelligenza. Sa fare di tutto a centrocampo ed ha una visione celestiale di come ci si muova su quel campo verde che ha fatto innamorare tutto il mondo (l’universo a sto punto). E’ leggero e versatile, con un controllo della palla e una precisione nel passaggio che senza timore definiamo sovrumane. E poi quella croqueta… Di cosa parliamo: la capacità di passarsi il pallone da un piede all’altro ad una velocità fuori dal normale. E’ incantevole. Da incartare, ammirare e sperare che non smetta mai e poi mai. Forse il miglior centrocampista nella storia del calcio tutto.

Raul ALBIOL

Gran difensore. Molto superiore a quanto lui stesso pensi probabilmente. A Napoli è il punto cardine di una squadra che da anni gira attorno ad equilibri, malumori e gioie spesso molto sottili. Al Valencia lo hanno soprannominato El Chori che sarebbe una salsiccia lunga ma non ridete. Non è riferito a quello che pensate voi, ma al suo fisico così longilineo. Albiol è lungo, non massiccio, lungo. Il Campione del Mondo è uno di quei difensori eleganti che sono tanto difficili oggi da trovare, di quelli che riescono a fare i terzini o i registi davanti alla difesa. Tutto questo è Albiol.

Iker CASILLAS

Mentre davanti a lui, sulla navicella spaziale blanca, i galácticos cambiavano e si avvicendavano palloni d’oro e stelle pagate cifre disumane, tra presentazioni in pompa magna e grandi eventi mediatici, Iker Casillas Fernández era lì, tra i pali del Bernabeu, cresciuto in fretta, fino a diventare istantaneamente un classico, uno di quelli che possono resistere al tempo senza scossoni, solidi come un monumento. Eppure. Anche per Iker è arrivato quel momento temutissimo, un calo di rendimento francamente impietoso e fuori luogo: è diventato subito meno monumento e più umano, uno capace di sbagliare (anche se non l’avresti mai detto), uno che ti fa arrabbiare e ti fa salire l’ansietta (leggera, quasi impercettibile) quando leggi il suo nome tra i titolare. Le ultime stagioni a Madrid sono state strambe, dolorose, con quel compromesso del “giochi solo in coppa”, mentre negli occhi dei suoi tifosi Iker non legge più la stessa fiducia incondizionata e quasi religiosa di qualche anno prima. Così dopo sedici stagioni e venticinque anni complessivi contando le giovanili, Casillas saluta tutti con gli occhi lucidi e va a Porto. Con lo sguardo ancora fiero e il portamento regale.

Ivàn HELGUERA

Ché poi ci si può sbagliare, magari uno è troppo presto, te lo trovi in campo e barcolla, è timido, il pallone per carità lo sa toccare ma poi difenderlo è un’altra cosa, si prende tutto quel tempo e allora nemmeno sai se è capace di farci qualcosa, ché mai glielo lasciano fare. Pensiero e azione, sempre di più, il calcio moderno. E però allora basta tornare a casa, è stato un brutto sogno, ti sposti un po’ più indietro e diventi un perno inamovibile del Real Madrid, ti chiami Iván Helguera e resti scritto nella storia del club per trofei e per affidabilità, con una qualità della posizione, prestanza fisica, eleganza (con la camiseta blanca per forza, mica puoi sfigurare), quel tocco un po’ spaesato di uno che una volta era venuto a Roma e quasi non se lo ricorda. Ma pure a Roma, se chiedi, con un po’ di imbarazzo fanno finta non l’abbiano visto mai.

ISCO

I bastoncini di zucchero, quelli bianchi e rossi. Le stelle filanti. Il pelo soffice di un husky. Un cappello di lana col pon pon. Un prato. Una mela rossa. Un pupazzo di neve. Il rumore dell’acqua che scorre in un ruscello. Un abbraccio abbastanza lungo. Le rotelle di liquirizia. Una coperta in pile. Il bagnasciuga. Il suono della chitarra. Una fetta di pandoro. La ruota panoramica del luna park. Il caminetto acceso. La tromba di Luis Armstrong. L’ultimo giorno di scuola. La torta al limone. Una mongolfiera in volo. Un giro in altalena. L’odore del pane caldo. Un gol di Isco Alarcòn.

Julen GUERRERO

Era bello, proprio quasi un modello, di quelli un po’ imberbi che piacciono alle ragazzine, mi rendo conto, però non si può negare; e nemmeno pareva spagnolo, ma quella maglia biancorossa sapeva portarla con l’eleganza di pochi, sulla trequarti muoveva la fascia di capitano e faceva voltare il numero 8 da una parte all’altra del San Mamés. Julen Guerrero López è stato un simbolo a Bilbao, con l’Athletic nel 1995 firmò un contratto dodecennale, fu un trequartista in grado di spaziare su tutto il fronte d’attacco, aveva progressione e dribbling, inserimento e tiro potente e preciso, con entrambi i piedi. Aveva tutto Julen per diventare il più forte. Poi cosa è successo non me lo ricordo, lo vedo adesso, cari alieni, mi viene un po’ di nostalgia per le carriere di grandi prospettive e magri raccolti. Dai portatelo dietro, no non è un giocattolo di Barbie, è proprio uno dei migliori calciatori che la Spagna abbia prodotto.

Sergio RAMOS

Difensore totale, veloce, caparbio, completo, fiammante, personalità da lìder carismatico, prestazioni da collera divina, da furore agonistico prestato a una nobile causa. Che la causa sia nobile davvero, o meno. Segna sempre al 90’. Quando meno te lo aspetti, quando tutti festeggiano, lui è specializzato nel farti restare sullo stomaco i trofei. Gli Andalusi lo amano, i Madridisti lo amano, poi basta. Lo odiano tutti gli altri perché a tutti gli altri ha guastato le uova nel paniere. Noi invidiamo il Real Madrid e la Nazionale spagnola per aver sempre potuto contare su di lui.

David SILVA

David Silva era qui un attimo fa, signori alieni. Era qui, con quel suo musetto furbo e gentile, quei capelli da ragazzetto, gli occhi mezzi cinesi e mezzi isolani: ma adesso che è cominciata la partita, lui non c’è più. David è così, signori… Lui quando è in campo si cancella, sparisce, non lo vedi più, ma non per paura o per timidezza: no, è che David diventa la palla — vi giuro, signori, è così -, i due sono talmente una cosa sola che di David non c’è più bisogno, la palla gira, va a finire dove deve finire, e David non si vede più, come se di lui non ci fosse bisogno. Serve solo la palla ed esiste solo la palla. E sarà per questo che di David Silva, che pure ha tante vittorie da ascrivere alla propria bravura e capacità, forse non abbiamo ancora compreso la vera grandezza. Ma voi, amici alieni, lasciatecelo: perché abbiamo paura — sì, forse sbagliamo, ma che volete… -, abbiamo paura che senza di lui la palla si fermi, che venga meno il divertimento, che finisca la bellezza.

Ismael URZAIZ

Un basco cresciuto nel Real Madrid già stona. Il Real è il simbolo dello status quo, il Bilbao è il simbolo della ribellione. Nessun problema, Urzaiz si sarebbe fatto poi perdonare con 115 gol nella Liga per le strisce rosse e bianche con i pantaloncini neri, diventando un simbolo di quella El Dorado che è l’Athletic Club. E siamo tutti contenti di ciò.

David VILLA

No dico che doveva fare uno più di segnare 108 gol in 166 gare in cinque anni di Liga per diventare il titolare di una squadra dominante? Ci ha messo pure troppo David Villa per prendersi lo spazio che gli spettava: rapido, fulminante in area di rigore, uno che fa gol come io mi metto i calzini la mattina, ma è per quella capacità di fare sia la prima che la seconda punta, proprio mentre sta fingendo di non farla per niente, che diventa un perno d’attacco del Barcellona con cui vince campionato e Champions League, ma anche un Europeo e un Mondiale con la Nazionale, entrambi da capocannoniere. E vabbè poi si frattura una gamba e non va a Euro 2012, proprio sfortunato vero? Ma questo è un vincente, signori dei telescopi, questo è uno che si rialza vince un campionato con l’Atletico Madrid come non accadeva da diciotto anni. Alla fine prende, saluta tutti e se ne va a New York perché gli americani hanno questo amore per la gente che sa fare una cosa, e farla bene. David Villa sa fare gol.

Ricardo ZAMORA

Il portiere più forte della storia, dicono. Noi non possiamo saperlo con certezza, visto che ha iniziato a giocare negli anni 20, ma le cronache raccontano di un funambolo incredibile, uno capace di parare con mani, piedi, spalle, cosce, tacco, punta, naso, nuca, tutto. Catalano fino al midollo nasce e muore coi colori dell’Espanyol, perchè catalogna non significa solo FC Barcelona. Nel mezzo di questa storia la sua carriera da calciatore ha la camiseta blanca del Real e poi quella rossonera del Nizza. Nato e morto con i biancoblu, appunto: inizia da calciatore e finisce da allenatore, il tutto nell’arco di 45 anni, con in mezzo maglie, nazionali, viaggi in Francia, vittorie e la carica di Icona Assoluta, rappresentata dal premio per il miglior portiere della Liga, il premio Zamora, appunto.

Fernando HIERRO

Nascere capitano. Essere capitano, sempre, anche quando la fascia non è sul tuo braccio. Avere nei tratti somatici le curve che deve avere un capitano. Essere elegante come solo un capitano può essere. Non considerare la velocità tra le tue priorità perchè un capitano ispira, non dimostra. Essere Fernando Hierro significa impersonare fisicamente il concetto di capitano. Il capitano del Real Madrid. Nei suoi 14 anni la fascia è stata più sul braccio di altri che sul suo? Non conta, non importa. Leader lo si è a prescindere dal braccio a cui lo straccetto è appeso.

Josep GUARDIOLA

Prima di diventare il miglior allenatore del mondo nell’epoca delle sue vittorie più importanti, quello con cui le generazioni future faranno i conti, è stato un gran calciatore. Era uguale ad oggi, a parte qualche capello in più e del kashmir in meno indosso, perché anche in campo leggeva la partita prima di tutti gli altri, anche in campo giganteggiava con la sua personalità, e si faceva esponente dell’orgoglio catalano, il più degno, il generale dell’Esercito (anche se a noi il termine militaresco non fa impazzire) della Catalunya come i tifosi del Barça amano definire i blaugrana. Pep che oggi combatte con Mou e che un tempo lo difendeva dagli schiaffi, quando lui era il capitano del Barça e Mou era il traduttore della squadra. Pep che ora vuole la Premier e che la combatte con uno che già gli tolse lo scudetto. Pep, il bresciano e il turista pescarese, che è diventato tanto grande da allenatore da far dimenticare a tutti che gran mediano sia stato.

MIGUELI

Miguel Bernardo Bianquetti detto Migueli era l’esplosivo centrale difensivo del Barcellona a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Piazzato, potente, privo di alcun tipo di fronzolo, ha frapposto le sue spallone larghe, il suo caschetto biondastro e i suoi folti baffi tra sé e l’avversario, non risparmiandosi mai e anzi spesso sacrificando la propria incolumità, come nella finale di Coppa delle Coppe del 1979, quando giocò con un collare protettivo per il collo malandato. In quindici anni di blaugrana alzò undici trofei e più di 500 presenze.

Santiago CANIZARES

Santiago, sei brutto. Intanto due mogli (la seconda sposata alle Baleari; e sono traguardi, per uno nato nella Mancia brulla), sette figli. Santiago, sei vecchio: saresti vecchio anche se questo fosse il 1998, quando hai appena perso il posto da titolare e Illgner si è vinto lui quella Coppa attesa decenni. Intanto due campionati col Valencia, e ci sono arrivato da vecchio, una Uefa, e ci sarebbe potuta essere un’altra coppetta se contro il Bayern o il Real… Santiago, sei goffo. Intanto Schmeichel dice — nel 2004 — che sono il miglior portiere del mondo. E ho pure vinto “Ballando con le stelle”. Santiago, per cortesia, cosa sono quei capelli? È la Spagna moderna, caro mio: è Almodovar, è Zapatero, è Miguel Bosé, e se scavi un pochino è la Spagna antica, la Mancia brulla, da dove i bassi, i goffi, i brutti, i vecchi sono usciti pieni solo di fede e di coraggio, e hanno conquistato il mondo.

Diego COSTA

Diego Costa l’hai già visto in un milione di film western, faceva il cattivo cattivissimo, quello che non conosce le regole del bene, violenta quelle della società, ignora quelle dell’igiene personale. Diego Costa l’hai visto di sicuro in qualche documentario, era uno squalo bianco, brutto di una bruttezza paurosa, di un’energia bestiale, fortissimo, aggressivo, predatore. Diego Costa l’hai visto per forza in un bar di paese, gli scarponi sporchi di fango, le maniche tirate su, il bicchiere in mano sempre vuoto, lo sguardo costantemente sul “chi cazzo sei?”. Diego Costa l’hai visto a scuola, ai primi anni delle superiori e te lo ricordi anche se non ci ha mai parlato perché se ne stava sempre da solo, rifiutava il dialogo con i pari e si ribellava ai professori, faceva impazzire le tue compagne di classe e puntualmente ripeteva l’anno. Diego Costa lo hai già visto, lo hai studiato, ormai lo conosci e quando una palla piove dalle sue parti dentro di te sai già che nel modo più violento, potente e inesorabile, lui la manderà dietro il portiere.

Thiago ALCANTARA

Thiago io lo amo, ma lui mi fa soffrire. Da sempre, da quando ci siamo conosciuti, ovviamente dentro un server di Football Manager. Io gli davo attenzioni, lo riempivo di interesse e lui fuggiva — oppure il Barcellona lo riteneva troppo importante — e alla fine insomma non si è mai fatto prendere. L’ho rincontrato l’estate del 2013, Europei Under 21, quando in realtà io pensavo ad altro (Verratti, Florenzi, Borini…). Lui è arrivato, mi ha trafitto tre volte ed è andato via con la coppa e il premio di miglior giocatore del torneo, senza degnarmi nemmeno di un saluto. Ci vediamo ancora, a metà marzo in Champions League. Lui ora è vestito di rosso, nemmeno gioca, è una riserva. Entra nei supplementari e dopo cinque minuti la butta dentro, ride felice come un bambino, e io lì a morire in silenzio. Thiago se non mi vuoi bene per me è ok, io continuerò a volertene nonostante tutto, a sognare di averti dalla mia parte, a deliziarmi delle tue giocate iniestetiche. Però basta, basta così ti prego. Davvero. Non me lo merito.

Fernando TORRES

Le dannate aspettative sono qualcosa che rendono un evento meraviglioso un qualcosa di atteso, di preventivabile. Cancellano la sorpresa e cambiano il valore di un gesto, lo inflazionano. Le dannate aspettative hanno il peso e il colore del piombo, ingrigiscono ogni impresa, opprimono, avvelenano. Se colmate generano sospiri di sollievo, se tradite grida di vendetta. Torres ha avuto il difetto di essere così clamorosamente indomabile già a vent’anni, da non poter più essere solo un grande attaccante. La carriera del Niño è stata una rincorsa a un blasone che a un certo punto lo ha superato; la giustificazione di un prezzo, fissato dal suo trasferimento al Chelsea; una spesa da dimostrare di poter valere. Dover segnare per esistere, perché lo si era sempre fatto e perché si era stati presi per continuare a farlo, per forza, per logica, come una condanna. Così sembra quasi che Torres si sia arreso, si sia scrollato di dosso l’aura del fenomeno e rassegnato ad essere solamente un grande attaccante, segnando gol pesantissimi e vincendo tutto quello che si poteva vincere quasi da semplice gregario, da operaio, da genio minore.

AMANCIO

Decenni e decenni prima di Cristiano Ronaldo sulla fascia destra del Real Madrid sgroppava un’altra ala veloce, letale, super tecnica e comunque potente, e si chiamava Amancio Amaro Varela, nato a La Coruña ma consacrato campione a Madrid dove, in più di quindici anni tra le merengues, aiutò la sua squadra a portare a casa nove titoli nazionali, tre coppe di lega e una Coppa dei Campioni, quella del 1966.

Fernando LLORENTE

- Dottore ho un problema

- Non si agiti, faccia un bel respiro — (respiro) — Ecco bravo, ora si rilassi e mi racconti cosa la turba

- Dottore io… io non so più amare, è come se avessi il cuore troppo piccolo, o come se ce l’avessi normale ma fosse troppo pieno, come ingombrato

- Da quanto tempo si sente così?

- Più o meno da tre anni e mezzo. Sì, direi dall’estate del 2013. Era un momento in cui avevo bisogno di certezze, di punti di riferimento. Non che stessi male, non che fossi solo. Avevo successo, ma era un successo improvvisato. Mi arrangiavo insomma, bene eh, però mi arrangiavo, e poi ho trovato una certezza. A un certo punto mi era tutto chiaro, tutto visibile, tangibile. Tutto il casino era finito, e ora il mio successo passava per qualcosa di solido

- Si sentiva realizzato

- Sì, ma dopo un po’ la mia realizzazione si è trasformata in qualcosa di diverso. Sapevo da dove passava la mia gioia, sapevo cosa mi rendeva spavaldo e fiero, cosa mi faceva sentire sereno. Lo sapevo e iniziavo ad avere paura di perderlo. Di vederlo sparire ed essere utile a qualcun altro.

- È diventata un’ossessione per lei?

- No, questo mai. Anzi, è stata un’epifania. Però a un certo punto ho iniziato a essere sicuro che la sua partenza sarebbe stata solo un allontanamento materiale, ma che la sua forza ora viveva in me.

- Ed è stato così?

- Sì, è stato così. Per questo posso dividere la mia vita in un pre- e in un post- certezza.

- Allora perché sta male?

- Perché ho tutto e non mi manca niente, dottore. Perché non riesco più a fare spazio a qualcosa a cui possa volere veramente bene, anche se in fondo so che questa cosa potrebbe farmi stare meglio. Non c’è più niente e nessuno nella mia vita se non la mia certezza. E la mia certezza, materialmente, se n’è andata. Quindi chiudo le porte a chiunque voglia essere il mio nuovo faro, per la paura, credo inconscia, di poter dimenticare.

- Mi perdoni, ma questa sua Certezza, questa sua fonte di coraggio e vigore, Ha una forma? Un nome?

- Dottore, la mia Certezza è Fernando Llorente e senza di lui io non so più amare.

- …

- Dottore, ma lei… ma lei sta piangendo

- … No, è l’allergia

- Ma come l’allergia?

- Aaaaaah!!! (pianto disperato)

- Venga qui dottore, mi abbracci, mi abbracci forte.

Luisito SUAREZ

Ancora prima di vederlo giocare, prima dei dvd sulla storia dell’Inter, prima di YouTube e dei video con gol e giocate (in rigoroso bianco e nero), Luis Suárez è entrato nel mio immaginario calcistico attraverso i racconti di mio padre sulla Grande Inter. Poi l’ho visto, Luisito, con quella faccia da torero, quegli occhi grandi da stella del cinema muto, due occhi che sembrano sempre guardarti dal basso verso l’alto, con una specie di incredulità o di rispetto o forse entrambe le cose. E l’ho visto giocare, l’ho visto accarezzare il pallone con una delicatezza e una maestria commoventi, i gesti e i movimenti che disegnano bellezza e si traducono in efficacia. Luisito con il pensiero velocissimo come i suoi piedi incarnava l’idea di calcio di Helenio Herrera. E nei racconti di mio padre diventava una specie di profeta, una figura mitologica, una divinità alata del centrocampo.

José Ángel IRIBAR

Il miglior portiere spagnolo di sempre è basco, e si chiama José Angel Iribar, leader autoritario dal sangue freddo, capitano e bandiera dell’Athletic Club di Bilbao. Durante la stagione 1970–1971, ha mantenuto un record di dieci partite consecutive in casa senza gol subiti (1.018 minuti) ma non fu quello il suo primato più importante. Nel dicembre del 1976 infatti, prima del derby basco con la Real Sociedad, Iribar e il capitano degli avversari Kortabarría portarono in campo una Ikurriña, la bandiera basca, stendendola all’interno del cerchio di centrocampo: e questa fu la prima esposizione pubblica del vessillo dalla morte di Francisco Franco.

Miguel Angel ANGULO

Bandiere. Sfidano il vento, le stagioni, l’erosione del tempo e dell’incuria, segnano che il mare sia calmo, segnano sontuose invadenti tempeste. Ma quelle del calcio sono quiete, silenti. Lasciano un segno lungo una carriera intera sempre nella stessa squadra, o quasi. Non si lasciano affascinare da ciò che altrove sarebbe imprevisto, pur attraente, non c’è fame di successi che tenga la volontà di ancorarsi a un’esperienza continua, vedere tanti che vengono, tanti che vanno via, e tu con la stessa maglia per dodici anni a farti la fascia destra a grandi falcate e sterzate improvvise verso l’area di rigore, tu il Delvecchio valenciano, tu che hai fatto ruoli diversi con lo stesso impegno e la stessa corsa. Tu sei Miguel Ángel Angulo.

José Antonio CAMACHO

Ma non ci provate nemmeno, ma poi che ve e importa a voi alieni che uno sia su di peso! Cosa c’è ora vi siete abituati con tutti questi atleti con gli addominali scolpiti? Alieni ma che vi siete fatti l’abbonamento a Men’s Health? Vi abituate presto alle buone abitudini insomma. No, no, José Antonio Camacho è stato dal 1973 a 1989 il miglior terzino sinistro della storia del calcio spagnolo, grintoso, preciso, capitano di un Real Madrid elegante e vincente. Va bene, avete trovato immagini di dubbia costituzione, ma in quel calcio si poteva avere qualche chilo in più, dai. Che cosa? “Camacho pieno de cacio”? Alieni ma chi ve le insegna ‘ste cose ma vi siete impazziti?

RAUL Gonzalez Blanco

La storia di Raúl è quella della più grande figura del calcio spagnolo a cavallo tra i due secoli. Una figura quasi mitologica per impatto nel calcio spagnolo e che porta con sé un’infinità di gesti indelebili che hanno segnato la storia del calcio (come il dito a zittire il Camp Nou in un Clasico o il gol da torero nella finale di Champions ad esempio) e aneddoti canonici e apocrifi, talmente tanti che se messi in fila sarebbero in grado di costruire almeno altre tre carriere. Come la storia del ragazzino cresciuto sui campi in terra della periferia madrilena (Colonia Marconi) che grazie al calcio conquista il palcoscenico più importante della sua nazione e che da tifoso di una squadra (Atlético) diventa eroe per i grandi rivali (il Real che lo raccoglie dopo il taglio delle giovanili dei rivali). Ma anche il bambino prodigio che proprio alla squadra per cui tifa segna il primo gol in carriera appena diciassettenne nella prima partita in casa e che pochi giorni prima al mister riluttante sul farlo debuttare o meno vista la giovane età dice: “Se lei vuol vincere, faccia giocare me. Se vuole perdere, scelga pure uno qualunque”. (finirà la stagione con 9 gol neanche maggiorenne e riportando il titolo al Real Madrid dopo un lustro di digiuno).

Nell’apogeo della sua condizione fisica era in grado di far tremare i portieri quando riceve palla, pochi attaccanti hanno combinato eleganza nei gesti, creatività e efficacia sotto porta. I portieri sapevano che la cosa peggiore che potesse capitare fosse che la palla finisse in area di rigore al moretto col 7 sulle spalle e la fascia al braccio. Non importa la posizione e quanti giocatori ci fossero attorno, la palla non doveva arrivare sui suoi piedi perché quello significa gol. Gol che sono arrivati ovunque e che Miniera di gol tra i più belli e caterve di gol sporchi. Maestro del gol di vaselina (o se preferite cucchiaio) e gran visir dei gol in cui in cui l’ha semplicemente “spinta dentro” perché si trovava sempre al posto giusto al momento giusto.

Prima che i due titani che dominano il calcio contemporaneo sbriciolassero ogni record europeo come effetto collaterale della loro battaglia per raggiungere l’Olimpo, era lui regnante della competizione più importante. Nessuno prima di lui aveva avuto un tale impatto nella competizione (71 gol), Raúl sembrava essere nato per dare il meglio nelle notti europee e non ha mai tradito le aspettative di una squadra enorme come il Real Madrid. Vince la coppa dalle grandi orecchie tre volte: prima come ragazzo prodigio in grado di riportare la coppa a Madrid dopo decenni, poi come stella della squadra e in fine come capitano dei Galacticos.

Una grandezza che non riesce a ripetersi con la nazionale, ma dove comunque risulta strumentale per cambiare il corso degli eventi, perché proprio con il suo sacrificio il gigante dormiente della nazionale spagnola riesce a svegliarsi e dominare il mondo intero. Perché senza di lui tutti devono assumersi le proprie responsabilità e nasce così la generazione d’oro.

Cesar GOMEZ

C’era una volta un allenatore un po’ strano che voleva Miguel Angel Nadal. Non potendolo prendere chiese Bruno N’Gotty. Il suo presidente rifiutò e allora quell’allenatore chiese un giovane Jaap Stam. Il presidente ridacchiò. Allora il mister disse “Va bene, prendiamo quello del Tenerife che finisce con la Z”. Lui intendeva Pablo PaZ. Arrivò Cesar GomeZ. Arriva alla Roma 30enne per 6 miliardi, con una carriera onesta alle spalle. Un giorno si trova, per una serie infinità di casualità, a giocare titolare in un derby con al suo fianco Servidei. Quel derby viene perso male e Cesar Gomez viene isolato. Gli propongono di andarsene per giocare, dato che lì non sarebbe mai più successo, ma lui dice “Giammai!”, si mette buono in un cantuccio, si allena senza fiatare, si prende un sei miliardi in quattro anni e, a fine contratto, tanto si trova bene in quella città che decide di aprire un concessionario d’auto a Roma Sud. E visse felice e contento.

Marcos SENNA

“La geometria è quella parte della scienza matematica che si occupa delle forme nel piano e nello spazio e delle loro mutue relazioni” — questa la definizione che Wikipedia dà della geometria. Se invece passate per la ridente Villareal e chiedete la definizione di “Geometria” la risposta sarà una e una sola: Marcos Senna. La palla correva dritta lungo la linea che il suo destro le aveva impartito, come un vettore, dal punto A al punto B senza esitazione, sempre nella direzione giusta. Allo stesso modo la sfera era come attratta dalla pelata dell’ispanobrasiliano e tutti si suoi compagni di squadra si vedevano costretti ad assecondare il loro strumento di lavoro, pena la “palla persa”. E poi è il cugino di Assunção, quindi.

Ferran OLIVELLA

Che si può dire di Ferran Olivella Pons? Fondamentalmente che più di così non gli si poteva chiedere. Uno nasce nel 1936 a Barcellona, e già non è il massimo della tranquillità, poi gli càpita un nome così tanto catalano, ed è anche peggio, visti i tempi che si annunciano: poi inizia a giocare a pallone, giustamente nel proprio quartiere barcellonese, finché non lo nota il Barcellona stesso e gli infila una bella maglia blu-granata: a quel punto, se vogliamo essere giusti, a quel punto è già tutto scritto. Erano quegli anni lì, per la Spagna nel suo complesso, governata da un dittatore, e per il calcio spagnolo, dominato pure lui da una dittatura (e d’altronde i due regimi, come noto, avevano dei legami). Che doveva fare un catalano con la maglia del Barcellona, se non voleva togliersi quella maglia, quei colori, quella catalanità? Forse l’unica era fare come Olivella: mettersi indietro, in difesa, e resistere. Stai lì, e aspetti. E se le cose vanno bene, come in fondo accade a Ferran, quindici anni e cinquecento presenze dopo, uno può anche ritrovarsi con due campionati, tre Coppe delle Fiere, e perfino un campionato europeo vinto da capitano della Spagna. Olivella si ritira nel 1969, non può attendere oltre: la sua è una storia moderatamente gloriosa, mediamente vincente, ma di grande sopportazione. Ferran Olivella Pons, o la virtù della pazienza.

Fernando MORIENTES

Cento gol e tre Champions League con la camiseta blanca, per uno che Galactico non lo è mai stato, non sono pochi. Nella storia di un club che ha conosciuto un numero incalcolabile di fuoriclasse, Fernando Morientes rappresenta una normalissima eccezione, un centravanti capace di entrare nel cuore dei tifosi merengues senza essere per forza un nome da Pallone d’Oro. Fino all’arrivo di Florentino Perez e all’acquisto di Ronaldo, Morientes ha rappresentato il volto più umano del Madrid, diventando quasi un tutt’uno con Raul, nel club e nella nazionale spagnola. Poi è stata costretto a mettersi da parte, ma non ha mai tradito la Casa Blanca, rifiutando il Barcellona e scegliendo il Monaco, sfiorando con i monegaschi una Champions League da capocannoniere, per poi andare al Liverpool e vedere i compagni vincerla senza di lui, impossibilitato a giocare perché già schierato nella stessa stagione dal Real. Sarebbe stato il poker.

Borja VALERO

Qualcuno ha mai tolto il pallone a Borja Valero? Portatemi le prove, lo voglio vedere. E’ impossibile che sia accaduto, la fisica terrestre non lo permette, calcoli alla mano. Borja Valero è magnetico, ha potere attrattivo e il pallone gli si attacca addosso come un palloncino che hai strofinato su un maglione si attacca alla testa di tuo nipote. Alcune volte, poi, succede anche un altro fatto strano: i 21 giocatori in campo, gli arbitri, le panchine, i raccattapalle, i giornalisti, tutti i tifosi perdono di vista il pallone per qualche secondo. Mentre sono li che si interrogano sbuca fuori Borja Valero: ce l’aveva lui. Non si capisce come faccia, sembra che stia studiando il trucco persino Giucas Casella, che voglio dire, è un’eminenza. Niente, sparisce il pallone e poi riappare e ce l’ha sempre attaccato addosso Borja Valero.

Rafael ALKORTA

Ingeneroso, il webbe. Ché se vai cercando su youtube di Rafael Alkorta la prima cosa che ti esce, quasi l’unica in effetti, è il rallenty di quella “cola de vaca” — un tocco di palla piede-piede che ha per nome vai a capire perché “coda di mucca” — fattogli da Romario in un clasico straperso di qualche annetto fa, in cui il difensore madrileño sembra quasi sfiduciato, che tanto non l’avrebbe presa comunque, contro quello lì. E invece magari fu la volta sfortunata, perché insomma Alkorta ne ha giocate di partite pulite, eleganti, come solo i difensori spagnoli sanno. Con una nota di cronaca: tra i pochi cresciuti all’Athletic Bilbao a fare una grossa carriera per metà nei baschi rojiblancos e per metà nel blanco Real Madrid. Tra i pochi a uscire di patria, tra i pochi accolti di nuovo da protagonisti.

Andoni ZUBIZARRETA

Portiere mezzo calvo ma alla peculiare maniera degli iberici (quindi con i capelli radi sula fronte, lunghetti ma spettinati), lo ricordo non tanto per le gesta ma in quanto lo avevo come portiere del subbuteo, e lo avevo fatto proprio uguale dipingendogli la testa rosa e poi questi capelli sulla fronte radi ma lunghetti. Finì la carriera spezzato le gambe da mio cugino dopo una sconfitta al torneo di natale 1986 e poi caduto in terra mangiato dal cane sempre di mio cugino. Zubizarreta invece ebbe carriera lunga, e meritatamente luminosa.

Luis María López REKARTE

Terzino destro duttile e disponibile al sacrificio, fu uno dei giocatori baschi a passare dalla Real Sociedad al Barcellona nel 1988, insieme a Beguiristain e Bakero, voluti dal nuovo tecnico Cruijff. L’highlight della sua carriera fu il gol del 2 a 0 in finale di Coppa delle Coppe contro la Sampdoria, nel 1989. Per il resto la fase più lunga della sua carriera si svolse al Deportivo, dove vinse una Coppa di Spagna e una Supercoppa.

Pepe REINA

Giugno 2002, una nave che traccia una cornice immaginaria nel Mediterraneo, un collegamento, un ponte. Un porto, tra tanti. Napoli. Sulla nave c’è un ragazzo, appena ventenne, in compagnia della fidanzata. Parla spagnolo, castillano perché nato a Madrid, ma conosce il catalano perché ha vissuto a Barcellona. José Manuel Reina Páez, per gli amici Pepe, è appena stato acquistato dal Villareal. A luglio 2002, quando a muoversi sono più le parole che i palloni, dopo aver firmato il contratto che lo legherà al submarino amarillo fino al 2005, salta sulla prima crociera della sua vita. Ad agosto 2002, la nave attracca al Molo Beverello, una lingua d’asfalto, tufo e marmo all’ombra del Maschio Angioino. Napoli. Non c’è molto tempo, Pepe lo sa. Stringe per mano Yolanda, la sua compagna, con l’altra richiama l’attenzione di un tassista in transito sul tratto di strada che abbraccia il piazzale della Stazione Marittima. L’odore di iodio si mescola con quello d’asfalto, ma Pepe è come in trance. Il taxi bianco, abbellito da qualche ammaccatura di troppo, lo guida Michele. Lo riconosce, ha letto il suo nome da qualche parte, fugacemente, mentre faceva colazione al bar, avanti ad un quotidiano dimenticato su un tavolo. Lo accompagna in un viaggio lungo una vita attraverso il cuore di Napoli, lì dove in pochi vanno, dove la città appare senza trucco, in tutto il suo essere. Prima di farsi riaccompagnare al Beverello, Pepe si scatta una foto con lui, con il San Paolo a fargli sfondo. Luglio 2013, Pepe ha vinto tanto e, soprattutto, è di nuovo a Napoli, sotto il sole che brucia piazzale Tecchio. Un ragazzo guarda la foto, sorride. È Antonio, fa anche lui il tassista, ed è il figlio di Michele. Pepe ha firmato per il Napoli, glielo voleva dire, magari abbracciandolo.

FERNANDO Gomez Colomer

Playmaker sopraffino, dalla tecnica e dalla visione di gioco inappuntabili, ma soprattutto bandiera del Valencia, di cui è stato capitano e con cui, nonostante non abbia mai vinto alcun titolo nazionale, è stato eletto il miglior giocatore della Liga nel 1989. Un centrocampista offensivo elegante ma anche atletico, dalla buona progressione e dall’agilità felina, atipica per un 10 del suo calibro, soprattutto in quegli anni. Forte e possente, sia di testa che di piede, è stato il lìder carismatico di un Valencia minore, ma nonostante questo uno dei migliori interpreti che la Spagna abbia avuto nel suo ruolo.

Francisco BUYO

Dato che chi vi scrive ha spesso odiato sportivamente i madridesi in favore dei barcellonesi, sono proprio contento che Buyo abbia fatto una carriera media, chiuso in nazionale da Zubizarreta; poi aveva anche una faccia antipatica e si tuffava sempre troppo plastico anche sui palloni più innocui. Non a livello di quell’altro saltimbanco di Higuita ma insomma.

ADELARDO Rodriguez

Leggendario capitano dei Colchoneros, Adelardo Rodriguez è stato anche la guida carismatica dell’Atletico Madrid più vincente della storia, quello che a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 vinse tre campionati, cinque coppe di lega, una Coppa delle Coppe e addirittura una Coppa Intercontinentale nel 1974. Era un centrocampista box-to-box ante litteram, dalla discreta tecnica e dal gol facile.

Txiki BEGIRISTAIN

Aitor Begiristain Mújica detto Txiki, era una discreta spina nel fianco per coloro che se lo ritrovavano come avversario in campo. Baricentro basso ma spalle larghe e gambe potenti, era un’ala sinistra veloce ed estremamente tecnica, che dalla Real Sociedad passò insieme ai compagni Bakero e Rekarte al Barcellona di Cruijff. In quel Barcellona rivoluzionario e moderno, che cambiò il corso del pallone per la prima volta nella sua storia (e di certo non fu l’ultima), Begiristain si presentò con un gol all’esordio nel derby contro l’Espanyol, come a mettere subito in chiaro che sarebbe diventato una colonna portante dei blaugrana negli anni a venire. Nelle sue sette stagioni catalane vincerà, da protagonista, una decina abbondante di trofei sia in Spagna che in Europa.

JUANITO

Lo spirito della vittoria, quella fame sorda che si raggiunge quando si è perfettamente a metà strada tra la fredda determinazione e la furia irrazionale, tra l’ansia di avere successo e la paura di fallire, ha bisogno di una ricerca di equilibrio costante tra i suoi poli opposti, o corre il rischio di diventare solo foga, e di lasciar sfuggire il suo unico obiettivo: prevalere. Allo spirito del Real Madrid non importa diventare foga, è un rischio calcolato e sopportabile, e lo ha deciso la maglia stessa dei blancos a Monaco di Baviera, nel 1987, assumendo la forma corporea di Juan Gómez González detto Juanito, andaluso, fiero, sanguigno, irrazionale come i suoi dribbling, fulmineo come i suoi tiri. Il Bayern sta sconfiggendo il Real e gli animi sono tesi, talmente tanto che Juanito, da coacervo di emozioni madridiste, sale per ben due volte con i tacchetti su un Lothar Matthaus già a terra, e la seconda volta gli calpesta la faccia. Verrà espulso, si renderà conto, chiederà scusa, era fuso con la maglia, l’aveva trascesa. Aveva già vinto una decina di trofei con quella camiseta indosso, tra campionati e coppe, e gli sarebbe mancata solo quella dei Campioni, sfumata definitivamente con quel rosso diretto. Chissà se è stato il presagio a farlo scattare. Fatto sta che, oggi che non c’è più, e anzi da quando se n’è andato in un incidente d’auto a neanche quarant’anni, al settimo minuto di ogni partita giocata al Bernabeu la sua gente, il suo pubblico, canta a squarciagola il suo nome, il nome di chi li aveva capiti nel profondo, là dove ci si accetta per quello che si è, non importa con quanta ferocia. “Illa illa illa Juanito Maravilla”.

JESUS NAVAS

Jesus Navas Gonzalez è un uomo antico, una quercia secolare. La sua pelle ha costruito le piramidi e ha combattuto gli infedeli. I suoi occhi hanno specchiato le aurore boreali e hanno corso coi lupi. Le sue gambe hanno danzato il flamenco e le sue mani ne hanno scandito il tempo. I suoi piedi hanno ipnotizzato il toro, hanno calcato la polvere dell’arena. Jesus Navas Gonzalez è un giocatore antico, un’ala del passato. Mangia la linea laterale, dribbla sempre sull’esterno e sempre bene e mette dentro palloni come sciabole, che basta vederle arrivare ed è già festa. Segna quasi mai, parla quasi mai, corre come nessuno. Jesus Navas Gonzalez è una persona antica. Come la sua terra, come l’amore per la propria casa, come la paura di partire, come la nostalgia.

Rafa PAZ

Rafa Paz, esterno di fuoco. Così di fuoco che la sua cabeza si stempiò in fiamme già prima dei suoi 30 anni. Una vita intera al Sevilla, di cui più di vent’anni con gli scarpini ai piedi sulla corsia destra, sia a dare una mano in difesa che ad attaccare, grazie a un ottimo dribbling e un discreto tiro. Non vinse mai un campionato, ma conquistò con la sua squadra tre coppe del Re, di cui una al Real Madrid e una supercoppa di Spagna.

Saúl ÑIGUEZ

Porta il nome del primo Re di Israele, colui che portò i figli di Davide dall’essere un popolo tribale a una società organizzata. Come Saùl, generale in campo del generale fuori dal campo. Orgoglioso, vendicativo. Venne scartato dal Real Madrid dopo due anni nelle giovanili, passò all’Atletico e poi in prestito al Rayo Vallecano (“Il club più importante di Madrid”, parola di Franco Vazquez), ed oggi è il pretoriano del Cholo Simeone. Calciatore magnifico, veloce, letale, beffardo nel dribling, inesorabile nelle conclusioni, ultimo prodigioso prodotto di una scuola iberica di centrocampisti totali.

PIRRI

A guardare José Martínez Sánchez detto Pirri, con quell’accenno di monociglio, la stempiatura già prima dei vent’anni, il volto lungo e scavato e lo sguardo alla John Cazale, tutto avvolto in quella maglia bianca, sembra di assistere al commovente spettacolo di un uomo primitivo che scopre il pallone e gira per tutto il campo finché non scopre la vocazione di libero, di mediano difensivo, di strenuo perno di centrocampo, più ragionatore che trascinatore. Approdato al Real Madrid giovanissimo e alla fine del grande ciclo di Di Stefano Puskas e Kopa, ha dedicato i successivi sedici anni della sua vita alla causa blanca, trascendendola e diventando parte del suo stesso spirito di squadra, per un totale di 10 campionati vinti e svariate coppe, tra cui una dei Campioni.

XABI ALONSO

Tolosa è una cittadina di diciassettemila anime, a due passi dal mare. Se si sale su qualche palazzo più alto degli altri, si riesce a vedere, in lontananza, la città di San Sebastiàn. Per chi nasce in questo angolo di Spagna, San Sebastìan — così come Pamplona — significa appartenere al popolo basco, parlare basco, vivere basco, pensare basco. Nello specifico, per Xabier Alonso Olano, per tutti Xabi Alonso, nasce e cresce proprio tra Tolosa e San Sebastiàn. Se i tuoi piedi sono quelli giusti per giocare al calcio e sei a San Sebastiàn, significa che giochi, senza alcun dubbio, nella Real Sociedad. Ancora prima di familiarizzare con il prato verde, quando il campo era la piazzetta dietro casa o la spiaggia che affaccia sull’Oceano Atlantico, tutti già lo chiamavano El señor. Ordine, caparbietà, tecnica e tattica, visione di gioco, spiccato senso di abnegazione, Xabi Alonso era il primo ad essere chiamato al telefono quando c’era da comporre le squadre. Cocciutamente, si prende il centrocampo della Real Sociedad, gioca 140 partite (16 goal) dal 1999 al 2004, rendendosi semplicemente necessario e sufficiente. Nella stagione 2002/2003, la Real Sociedad di Raynald Denoueix resta in testa fino a due giornate dal termine. Xabi Alonso è el señor del centrocampo, colui che innesca Darko Kovačević. Il Real vincerà quel campionato solo all’ultima giornata. Nell’estate del 2004, riceve una chiamata dal Merseyside: è Rafa Benitez. Rafa stava perfezionando il 4–2–3–1, inventato da John Benjamin Toshack, uno scousers puro trapiantato a San Sebastiàn, ed aveva visto in Xabi il pivot di destra, avanti la difesa, ideale. Con il Liverpool di Benitez vince una Coppa d’Inghilterra, una Community Shield, una Supercoppa Europea e una Champions League, dal 2004 al 2009. Squilla ancora il telefono, prefisso di Madrid, è Manuel Pellegrini. Luglio 2009, volo diretto, Liverpool-Madrid. Stessa storia, stesse caratteristiche, a discapito del tempo che sembra non passare sulla sua pelle. Vince una Liga, due Coppa del Re, una Supercoppa di Spagna, una Champions League e una Supercoppa Europea, dal 2009 al 2014. Squilla il telefono, ancora: prefisso di Monaco di Baviera, Pep Guardiola. Due Budes, una Coppa di Germania, una Supercoppa di Germania. Squilla il telefono, di tanto in tanto: è la Roja. Due Eruopei e un Mondiale. Lui fa così, resta sempre lo stesso, risponde al telefono e vince. Cocciutamente.

LUIS ENRIQUE

Luis Enrique non se l’è meritato. Intanto, per come giocava, e per quanto segnava nonostante non lo mettessero quasi mai in attacco, è stato uno di quelli da ricordare; e invece sì, va bene, un po’ perché è fuggito da Madrid e non si fanno certe cose se si vuol essere celebrati unanimemente dalla nazione, un po’ perché dopo la sua è fiorita una generazione tanto grande, fatto sta che pochi hanno ancora ben presente la bravura, la precisione, la lucidità di un giocatore contemporaneamente tanto completo. E poi c’è quella gomitata, che d’accordo è solo un episodio, ma è pur sempre un episodio che poteva valere un rigore in un quarto di finale, magari una semifinale, la Spagna in semifinale, all’epoca era un sogno… E invece niente, l’ingiustizia nella persona di un magiaro, il sangue che cola sul volto, la sconfitta. E più tardi la merda, tanti anni dopo, ma c’è sempre di mezzo l’Italia; e magari quella non sarà stata ingiustizia, ma poca onestà, poco coraggio, poca gratitudine, questo sì. Una merda, in fondo, e il povero Lucho ha dovuto sorbirsela tutta. Il bello è che poi questa carriera apparentemente pulp ha una svolta rosa, perfino un po’ stucchevole: tutto gira per il meglio, gli danno un’opportunità perfino sorprendente, e lui la prende al volo: vince, stravince, guardioleggia. Eppure sembra quasi che tutto questo sia una toppa, un lieto fine per il mercato natalizio: signori alieni, lasciatecelo ancora, fateci vedere come va a finire davvero questa storia strana.

Juan Carlos VALERON

Cervello al servizio di due realtà principali: il suo Las Palmas — con cui ha aperto e chiuso la carriera — e il Deportivo La Coruña. Valerón è stato la dimostrazione di come la tecnica individuale al servizio del gioco di squadra sia la chiave per qualunque obiettivo da raggiungere (Iniesta ha detto che avrebbe pagato per vederlo giocare). Víctor Sánchez, manager del Depor la scorsa stagione e suo compagno da giocatore, ha affermato che Valerón sarebbe stato da Pallone d’Oro se avesse giocato in qualche club più famoso. L’ha provato anche in nazionale, dove si è visto in maniera discontinua, ma non c’è dubbio che la sua classe mancherà a tutti, visto il recente ritiro.

SERGI Barjuán

Pensate a quei giocatori che sono fondamentali per fondare una dinastia, ma di cui nessuno parla mai perché giocano da terzini in una squadra di fenomeni. Non vi viene in mente nulla? Per questo esiste Sergi Barjuán. Johan Cruyff lo fece esordire nel ’93, conscio di aver davanti un giocatore valido. Terzino di fascia mancina, Sergi ha vinto tanto, vestito la maglia della Spagna e anche della Catalogna, in quella spinta indipendentista che non ha mai abbandonato la patria del Barcellona. Motorino inesauribile sul versante sinistro, oggi si è re-inventato allenatore dopo esser passato ancora una volta dal Barca.

Jacinto QUINCOCES

“Se oggi mettessimo in campo Zamora, Vallana, Zabalo, Ciriaco e me, potremmo andare avanti venti giorni senza subire gol”. Così parlava poco prima di morire, nel 1997, Quincoces, uno dei difensori che ha scritto la storia del calcio spagnolo. Ha iniziato nel Desert, nella terza serie del campionato dello stato vizcaino: a fine partita dovevano portare sulle spalle le porte in una casa fino all’incontro successivo. Il Real Madrid, su consiglio dei principali osservatori dell’epoca, Pablo Hernandez Coronado e Santiago Bernabéu, lo acquista nel 1931 insieme a Ciriaco dall’Alaves. Con il mitico Zamora in porta, nasce la miglior difesa dell’epoca. Il Real vince il titolo senza perdere nemmeno una partita e concede solo 15 gol. Solo la Guerra Civile ferma Quincoces, votato miglior giocatore del Mondiale del 1934, con un giornale italiano che in un impeto autarchico ne adatta il nome in Quinconcini, che lascerà la camiseta blanca nel 1942. Ha avuto solo due bestie nere, il piccoletto Tolete del Racing Santander e Bata dell’Athletic. A fine carriera si dedicherà al cinema, partecipa a sei pellicole, e tenterà la strada di allenatore (Zaragoza, Real Madrid, Valencia e Atletico Madrid). Guida la nazionale per due partite, ma dopo aver ricevuto solo 10,000 pesetas se ne va. Ma la sua immagine resta legata alla sua immagine di difensore gentiluomo, che svetta con la bandana sulla testa per proteggersi dalle cuciture del cuoio e la fascia al ginocchio sinistro. Perché dal 1928 ha giocato con un menisco rotto, senza mai volersi operare. Leggenda di un calcio che non c’è più.

Guillermo AMOR

C’è un cuore che batte nel cuore di Barcellona. È il cuore di Guillermo Amor (nomen omen si direbbe), uno dei primi giovani usciti dalla Masia, la cantera blaugrana inaugurata nel 1979. Con quella maglia ha giocato 421 partite, è il sesto giocatore con più presenze nella storia della squadra che si racconta come più di un semplice club. Ha vinto quattro volte di fila la Liga, la Copa del Rey del 1990 contro il Real Madrid di Toschack e della Quinta del Buitre che ha salvato il progetto visionario di Cruijff e la prima storica Coppa dei Campioni del 1992 (ma non giocò in finale contro la Sampdoria). Van Gaal lo vuole fuori dalla squadra nel 1998, Amor piange in spogliatoio prima di conquistare Trapattoni alla Fiorentina. Si allena più degli altri, anche se gioca meno. Il Barcellona però rimane nel suo destino. Il 16 dicembre 2007 si addormenta al volante mentre sta tornando da Valencia: era andato al Mestalla a commentare per la tv una partita del Barcellona. Era tornato dal 2003 al 2007 alla Masia, come direttore tecnico, lo sarà ancora dal 2010 al 2014. È sotto la sua gestione che maturano Thiago Motta, Gerard Pique, Sergio Busquets e Lionel Messi. Con questo passato è andato a insegnare calcio dall’altra parte del mondo, a Adelaide. Ma certi amori non finiscono. Fanno dei giri immensi ma, magari, ritorneranno dove tutto è cominciato.

Carlos SANTILLANA

“La miglior testa d’Europa”. Come Telmo Zarra, più di Telmo Zarra. Il Real Madrid degli anni Settanta e Ottanta ha un solo simbolo, l’icona che già nel nome porta il timbro di un’appartenenza: Carlos Alonso, per tutti Santillana. Figlio di un soldato della Guardia Civil, al suo primo provino l’allenatore, forse un po’ svogliato, chiede: “Vediamo il ragazzino di Santillana”. Era il piccolo Carlos, che a Santillana del Mar è nato e cresciuto come chierichetto, studiando dalle monache che avrebbero voluto vederlo missionario nelle Filippine. Ma il bianco nel suo cammino non è quello dei paramenti sacri, è la camiseta delle merengues. Arriva al Real Madrid nel 1971, da capocannoniere della seconda divisione al Racing Santander. Ha 19 anni, ma gioca da subito perché in rosa non ci sono veri centravanti di ruolo. Con Juanito formerà una coppia da leggenda. Vince nove volte la Liga, l’ultima nel 1988. Contro il Valladolid, la sua partita di addio, segna l’ultimo dei suoi 290 gol con la maglia delle merengues e il Real conquista il ventesimo titolo della sua storia. Si ritira con 290 gol totali per le merengues. In campionato ha timbrato 186 reti: è il decimo miglior marcatore nella Liga ma non ha mai vinto il titolo di Pichichi. Segna quattro gol nel 12–1 da record in nazionale contro Malta, ne fa sei nella campagna che porta il Real alla Coppa Uefa del 1985–86, due nella rimonta al Borussia Monchengladbach, altrettanti nella manita al Bernabeu all’Inter, che lo vede come il pericolo numero 1. Due squadre che sperimentano il “miedo escenico”, la paura del palcoscenico (copyright Valdano e Butragueno). Perché “90' al Bernabeu” diceva Juanito, “possono essere molto lunghi”.

José Luis CAMINERO

Il colpo di testa vincente di Griezmann all’Albania ha un sapore storico. È il primo per un giocatore dell’Atletico Madrid in un Europeo dal 1996. Griezmann chiude un digiuno che durava dai tempi di Caminero, simbolo di quella stagione trionfale, l’anno del doblete, la doppietta campionato-Copa del Rey. È il miglior campionato di questo centrocampista totale cresciuto nel Castilla, la squadra satellite del Real, diventato l’icona dei Colchoneros negli anni Novanta dopo le due stagioni al Valladolid, dove tornerà a chiudere una carriera da 404 partite e 57 gol nella Liga. Il segno di un centrocampista box to box, di potenza e di corsa, di talento e tiro dalla distanza, che però nelle prime e nelle ultime stagioni di attività ha giocato da libero. È suo il gol a Foxborough che vale il pareggio contro l’Italia, con deviazione di Benarrivo, prima della gomitata di Tassotti a Luis Enrique e della doppietta di Baggio. Talmente grande è stato il suo impatto che persino Almodóvar ha inserito un suo dribbling contro il Barca in un suo film (“Carne Trémula”). Il legame con i Colchoneros è poi proseguito anche in veste dirigenziale.

Joan SEGARRA

Si pensa a Cruijff come all’uomo che ha reso vincente e importante in Europa il nome del Barcellona, per tanti anni a bocca asciutta di trofei importanti. Il primo Barcellona ultravincente, tuttavia, fu quello capitanato da Joan Segarra, catalano doc e difensore carismatico e versatile, marcatore solido ma corretto in campo, tanto da guadagnarsi il rispetto di gran parte dei suoi avversari. La sua personalità guidò i blaugrana alla vittoria di più di dieci trofei, tra cui quattro campionati e sei coppe di lega.

Javi MARTINEZ

Uno che nasce in una città snodo dei pellegrini verso il Cammino di Santiago, non può che essere segnato dal viaggio e dalla fortuna. La sua città, Estella (pardon, siamo nei Paesi Baschi quindi chiamiamola Lizarra), è un piccolissimo paesino che oggi è ricordato per aver dato i natali proprio a Martinez. Una personalità polivalente, un ragazzo dalla sensibilità acuta e dalla cultura del lavoro fuori dal normale. Javi Martinez è il collegamento vivente tra Bielsa e Guardiola, loro che si sono trovati un grande mediano tra le mani e lo hanno trasformato in un grande difensore centrale che li avrebbe aiutati verso la salita all’Olimpo.

Feliciano RIVILLA

Giocatore molto veloce, esplosivo e con un buon gioco di gambe, in grado sia di attaccare che di difendere sulla corsia destra, è stato insieme a Jorge Griffa e Isacio Calleja probabilmente la difesa più importante fino che l’Atlético Madrid abbia avuto. Non a caso fu anche una delle leggende più titolate dei Colchoneros, vincendo una Liga, tre coppe di Lega e la Coppa delle Coppe del 1962. Fece anche parte della spedizione spagnola che vinse l’Europeo del 1964.

Gaizka MENDIETA

Non so se esiste lo spirito anarchico nella dimensione parallela in cui il centro dell’Universo è il pallone, ne se esista la libertà ma sicuramente Gaizka Mendieta, è una delle persone più connessa ad esse. È figlio del caso vissuto senza prendere fiato, sospeso tra quello che potrebbe essere e quello che sarà. Figlio di Bilbao, basco per definizione, Mendieta ha vissuto — e vive ancora — una vita senza punti di riferimento, alimentata dalle emozioni che gravitano attorno alla sua anima indipendente. Non appartiene al calcio, ma il calcio gli appartiene, come gli appartiene l’adrenalina, la musica e la libertà. Al Castillon provarono a collocarlo in una zona specifica del campo, ad affidargli delle responsabilità, a dargli un obiettivo, ma la libertà non è un obiettivo da raggiungere ma, piuttosto, uno stato emozionale che si avverte, all’improvviso. Copre tutti i ruoli di centrocampo, alla frenetica e passionale ricerca del se stesso felice e libero. Quando, nel 1992, per la prima volta, sale le scale del Mestalla, avverte che la libertà è vicina, vicinissima, tanto da poterla quasi sfiorare con mano. Il caos equo in cui galleggia protraendosi verso di essa va gestito, in qualche modo. È energia che va convogliata. L’uomo giusto è Hector Cuper, el hombre verticàl. Mette in ordine il caos generando il Valencia che sfiorò il tetto d’Europa, nel 1999/2000 e nel 2001/2002. Due volte. Mendieta è il capitano di quel turbinio calcistico, generatore di energia raggiante. Guida i murciélagos alla conquista di una Coppa di Spagna e di una Supercoppa di Spagna, nella stessa stagione, la 98/99. L’anima di Gaizka è in fiamme a un passo dalla libertà. Avrà pensato che, forse, la libertà fosse contenuta nel concetto di eternità, intrinseca della città di Roma. Ma la Lazio, nel 2001, è una polveriera che sta per saltare in aria e l’urlo di dolore dell’aquila morente adombra l’anima di Mendieta. Il cuore piange, la mente si spegne. Girovaga tra Formello e il Camp Nou, prima dell’illuminazione finale. Inghilterra, lontano e vicino da tutti, come accade in una città portuale: Middlesbrough. La libertà ha l’odore del mare solcato dalle navi provenienti da chissà dove. Regala al Boro una storica Coppa di Lega prima di afferrare la libertà rincorsa, seguendo il caso. Ora fa il dj e suona la chitarra nei Los Planetas, una band indie rock. Sarebbe bastato cercare subito la libertà nella musica ma, forse, meglio che sia andata così.

Luis DEL SOL

Del Sol Un centrocampista totale quando i centrocampisti totali non esistevano ancora, uno che gli inglesi avrebbero ribattezzato, una trentina d’anni dopo, un “Box-to-box”. Questo era Luis Dal Sol, classe ’35, castillano di origini vercellesi, icona di Betis, Real e Juve degli anni ‘50-’60. Al Real faceva l’ala perchè era veloce, aveva un buon piede e i sistemi tattici di gioco non erano ancora stati rivoluzionati dall’Olanda dei marziani eppure era così presente nella manovra in ogni fase e zona del campo che Alfredo Di Stefano lo chiamava “Il Postino”. Alla Juve, poi, Herrera lo spostò in una zona più densa del campo adocchiandone il grande lavoro di sostanza. I bianconeri lo ricordano per le sue capacità calcistiche, certo, ma anche per il più grosso regalo, tra i tanti, fatto dalla Roma: mandarono lui a fine carriera insieme ai talentuosi benchè totalmente fuori di testa Bob Vieri e Gianfranco Zigoni nella capitale in cambio di Capello, Spinosi e Landini. Capello e Spinosi fecero le fortune della Signora degli anni ’70 mentre Vieri, Zigoni e il nostro Luis passarono solo due anni a Roma prima di proseguire per la loro storia: i due italiani a girovagare tra provincia e terzo mondo calcistico, Dal Sol a svernare al sole del suo punto d’inizio, Siviglia sponda Betis.

Victòr VALDES

Non è stato il miglior portiere al mondo. Non è stato nemmeno tra i 10, forse 20, migliori portieri della sua epoca. Ma senza dubbio, senza alcuna ombra di dubbio, è stato il miglior portiere che il Barcellona potesse trovare in quella fase della sua storia. Victor Valdes è l’uomo giusto al momento giusto. In un contesto diverso, forse, avrebbe fatto fatica a emergere in una squadra di medio-alta classifica della Liga, sarebbe stato relegato alla panchina, a fare la riserva di qualche numero 1 col Dna e i crismi da numero 1. In un altro contesto, in un altro momento, non nel Barça di Pep Guardiola. Perché dopo un inizio di carriera con più bassi che alti, il ragazzo nato a L’Hospitalet de Llobregat, sulla strada che porta dall’aeroporto El Pratt alla Ciudad Condal, si è scoperto campione proprio nel periodo più bello dei 116 anni di storia blaugrana. Non il migliore al mondo, finché non si trattava di giocare la palla coi piedi, non il più forte di tutti, finché non arrivava il momento di affrontare uno contro uno un attaccante lanciato a rete in solitaria. Due fondamentali eccellenti, ma i due giusti per prendersi il Barça del Tiqui Taca. Sei campionati, tre Champions League, due Coppe del Re, sei Supercoppe di Spagna, due Mondiali per Club. E cinque premi Zamora, un record condiviso con un altro gigante dai guantoni blaugrana come Antoni Ramallets. Una parabola straordinaria, non replicabile all’estero, non replicabile con la maglia della nazionale, dove è sempre stato chiuso da Iker Casillas. E a molti resta il dubbio che non fosse lui il meno forte dei due.

Andrés PALOP

La sua carriera è iniziata da lontano, nelle giovanili di un Valencia non ancora vincente. Quando poi il club è diventato mainstream, trionfando persino in Liga, lui non ha trovato spazio, ostacolato dall’onnipresente Cañizares. E allora ciao, Valencia: direzione Siviglia. Lì Palop ha fatto la storia, vincendo due Coppe UEFA, di cui una da protagonista: nella finale di Glasgow contro l’Espanyol, Palop para tre rigori su quattro ed è l’uomo del match. Ha chiuso con un anno di Erasmus tedesco a Leverkusen, ma chissà se verrà mai dimenticato dai tifosi del Siviglia, visto che anche segnato un gol.

Miguel Ángel NADAL

La storia l’ha forse ingiustamente etichettato come lo zio di uno dei tennisti più forti degli ultimi vent’anni. Tuttavia, Miguel Ángel Nadal avrebbe anche altro da raccontare: maiorchino di Manacor, ha aperto e chiuso la sua carriera a Maiorca, ma nel mezzo ci sono otto anni e una Champions con il Barcellona. E ci stiamo tenendo sul generico, perché in realtà Nadal è stato uno dei pilastri del Barca di Cruyff, di van Gaal e di Robson, nonché della nazionale spagnola negli anni ’90.

Francisco GENTO

Prima dell’enorme corpus narrativo sulle ali, dall’idolatria nei confronti di George Best alla sana ammirazione per il repertorio completo di Gareth Bale, ci sono stati due interpreti, due capostipiti, a volare più in alto di chiunque. Ma se Stanley Matthews forse non è stato adeguatamente riconosciuto dalla storia recente, non si può dire altrettanto di Francisco Gento. Che sarà pure stato un ragazzo semplice arrivato da Santander, ma ha rappresentato la storia del Real Madrid degli anni ’50 e ’60. Perché sì, Puskas, Di Stefano, Kopa e Rial erano forti, ma l’unico a vincere sei Coppe dei Campioni (su otto finali, le stesse giocate da Paolo Maldini) e 12 Liga è stato la Galerna del Cantábrico, l’uomo più veloce di Spagna.

Telmo ZARRA

Per molti è solo il giocatore superato da Messi nel record di marcature di tutti i tempi nella Liga. In realtà, Zarra è stato molto di più: colonna dell’Athletic Bilbao per 15 anni, ha segnato 251 gol in 277 presenze in Liga. Una marea, vincendo sei volte il titolo di Pichichi. E se il suo record in Liga ha resistito quasi sessant’anni prima di esser superato da Leo Messi nel novembre 2014 (con il quale comunque condivide ancora la media-gol: 0,9), Zarra può ancora contare sul primato di gol segnati in Copa del Rey (81: auguri nel superarlo).

José CALLEJON

«Mi piaceva come giocava nell’Espanyol, mi piaceva la sua duttilità in campo. A Madrid, poi, ho conosciuto un ragazzo con una personalità forte, un giocatore umile che ha saputo ritagliarsi il suo spazio, il rispetto della gente e dei compagni di squadra. Mi piace molto la sua mentalità, è un esempio per tutti. Sa rendere prezioso ogni minuto in cui è in campo: per molti giocatori entrare per 10 minuti è un problema, per lui no», dal Vangelo secondo José Mário dos Santos Mourinho Félix, detto Mourinho. Accade così, nasce tutto dalla collisione accidentale di più fattori estranei tra loro. Sei un ragazzo che fa il suo dovere, con il massimo impegno. In questo modo scardini la porta del destino, dietro la quale c’è un mondo fatto di opportunità, che comincia in uno stadio che ribolle di passione e che non finisce. José María Callejón, Callèti o Caballero Triste, il 23 maggio 2011 non ha avuto dubbi su quale porta aprire. È l’uomo che agisce nell’ombra, che supera gli ostacoli quando i riflettori sono puntati altrove. Conquista la gente del Bernabeu pur essendo un giovane gregario, dietro nelle gerarchie dominate dagli alieni. Vince una Liga e una Supercoppa Spagnola. Quando nel 2013, il Napoli gli paga un biglietto di sola andata per Capodichino, molti a Madrid storcono il naso, nell’incredulità della dirigenza impegnata contare i dieci milioni ricavati dall’affare. Callejon atterra nella diffidenza, alla corte di Benitez, pretendendo la numero 7 di Edinson Cavani, appena partito per Parigi. Da allora, è raro aver visto una partita del Napoli senza Callejon alto a destra, a fare da collante tra le idee e i fatti. Una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, centottanta partite, cinquanta goal e quattordici assit in tre anni ne fanno un giocatore imprescindibile. Con Maurizio Sarri ha dimenticato cosa significhi sedersi in panchina. Giustamente.

Gerard PIQUE

Un figo della Madonna, un gran provocatore, il corrispettivo in carne e ossa, sia per personalità che per effettiva importanza nella squadra, della Torcia Umana dei Fantastici Quattro. Ma è soprattutto un gran calciatore. Di tanto in tanto il Barcelona decide di lasciar andare liberi dei talenti clamorosi, per poi riprenderseli. Questo è successo con Piqué. Fisico statuario e grandi doti di palleggio, perché è canterano e non ce la fanno ad essere scarsi in questo fondamentale. Se Victor Valdes si è potuto dire un portiere decente, oltre che a Puyol deve tanto anche a lui. Nel palmares tanti trofei, tra cui l’aver sposato Shakira, ma nonostante la posa giocosa e spesso irridente, non si tratta di un calciatore zuccone. Intelligenza sopraffina, cresciuto in una famiglia di intellettuali, futuro assicurato in politica. Insomma bello, intelligente, ricco, dotato, calciatore, sposato con una delle donne più belle del mondo. Lo odiamo? Sì, lo odiamo.

JOAQUIN

Quando esplose la sensazione Joaquin, che di cognome non faceva solo Sanchez ma anche Rodriguez, e allora tanto vale usare il nome perché era comunque meno comune di entrambi i due cognomi messi insieme, ricordo che si parlò di un suo trasferimento a una grande del calcio europeo praticamente ogni estate, e credo anche in tutte le finestre di gennaio. Nei primi anni ’00 del nostro ciclo temporale gli esterni di centrocampo erano merce pregiata, specie quelli velocissimi che sapevano sia crossare che saltare l’uomo. Joaquin, tuttavia, rimaneva al Betis ogni estate, perché il presidente dell’epoca aveva questo romantico vizio di piazzare clausole altissime sui suoi pezzi pregiati (chiedete al povero Denilson), un po’ come facevamo noialtri giocando a Pc Calcio, per blindare i nostri talenti. La clausola di Joaquin era di 120 miliardi, e capite bene che, per quanto fosse forte, si trattava comunque di una cifra esagerata. Dopo un lustro abbondante i rapporti con la società divennero così tesi che la freccia Joaquin si stufò e scelse di sacrificare anche il sentimento reciproco tra lui e i suoi tifosi, facendo di tutto per andarsene al Valencia, club disposto a sborsare 25, più realistici (se contestualizzati in quel periodo di spese folli) miliardi di euro. Negli anni successivi Joaquin si sarebbe concesso un paio di stagioni anche a Malaga e a Firenze, prima di tornare a casa a Siviglia, sempre sponda Betis, perché ok fare la voce grossa ma il primo amore non si scorda e, se passa un quantitativo sufficiente di acqua sotto i ponti per dimenticare il male reciproco, capita che anche il primo amore si ricordi bene di te.

BOJAN Krkic

La cosa che mi ha fregato di Bojan Krkic è che aveva sti capelli pettinati tipo Crujiff, veniva dal Barcellona tipo Crujiff, aveva queste movenze tipo Crujiff, il 14 sulle spalle e questo nome esotico accostato ai blaugrana, sempre tipo Cruijff. Non ricordo una sola cosa, un’azione, un gol, niente, non ricordo niente di Krkic a parte il video di auguri a Totti per il quarantesimo compleanno; ma amici alieni è veramente un bravo ragazzo, mai una parola fuori posto, dove lo metti sta, è un simpaticone uscito da un telefilm degli annui 80 tipo casa Keaton, non fategli del male dai prendetevela con quelli più grossi.

JUAN MATA

Esiste un calciatore spagnolo il cui cognome corrisponde nella sua madrelingua a due forme verbali di “uccidere”, tra cui la sinistra e terrificante voce dell’imperativo. T’immagini, allora, un energumeno con licenza di intervenire duro sulle altrui caviglie, un mediano votato a distruggere il gioco piuttosto che a impostarlo. E invece no: in campo Juan Mata fa ampio ricorso all’estro, alla giocata d’effetto, che si tratti di lanciare un compagno o di accompagnare il pallone in porta. Mancino puro, brevilineo, sa rendersi pericoloso sia come esterno di centrocampo che come ala: verticalizza, triangola, crossa e segna. E spesso alza pure qualche trofeo: in patria col Valencia e in Inghilterra con Chelsea e Manchester United, come in nazionale tra le giovanili e la selezione più importante, ha potuto baciare tutti i trofei che da ragazzi avremmo sempre sognato di alzare al cielo.

KIKO

Chi?! Co..? Aaaaah, sì sì, Kiko. Allora, cari alieni, non potete minimamente immaginare la fortuna che vi è toccata nell’incontrarci. Se aveste chiesto lumi a un gruppo di ragazze, queste vi avrebbero probabilmente rimandato al più vicino negozio di smalti e rossetti. E invece no, avete trovato noi nerd che sappiamo come saziare la vostra fame di calcio. Kiko è il nomignolo di Francisco Miguel Narváez Machón, attaccante atipico che maramaldeggiava da seconda punta pur sfoggiando la stazza del centravanti vecchia concezione. Anzi: era già spilungone in tenera età che inizialmente lo rinchiusero tra pali e traversa, prima che si liberasse per il reparto avanzato, e per questo i tifosi lo soprannominarono “El arquero”, il portiere. Nonostante l’oro olimpico con la Spagna ai Giochi di Barcellona, tutti lo ricordano per lo scudetto con l’Atlético Madrid nel 1996: destinato ad andarsene con l’arrivo di Radomir Antić sulla panchina del Vicente Calderón, Kiko segnò ben 11 gol. E, tra questi, quello del 2–0 all’Albacete che sancì una volta per tutte il trionfo dei colchoneros.

VICENTE

Nella Spagna che nei primi anni Duemila arrivava ad Europei e Mondiali con le credenziali di favorita, salvo poi deludere puntualmente le aspettative, brillava un ragazzo che abbinava corsa, efficacia, pericolosità e talento. Si chiamava Vicente Rodríguez Guillén ma tutti lo indicavano col nome di battesimo, come un amico di vecchia data a cui si vuol bene. Nato a Valencia, è cresciuto nel Levante per poi consacrarsi con la principale squadra della sua città. Un profeta in patria. Ma i latini ci hanno insegnato che è vero semmai il contrario e Vicente non si è rivelato un’eccezione: in una fase cruciale della carriera rimediò ben quattro infortuni e accusò pubblicamente lo staff medico del Valencia, che avviò un processo disciplinare contro di lui. Vicente, uscito pian piano dal giro della nazionale dopo una lunga trafila nelle giovanili, lasciò casa dopo undici anni per trasferirsi al Brighton & Hove Albion: in Inghilterra finì in malo modo, con il ritiro definitivo e le bordate contro il tecnico Poyet, definito la “peggior persona che ho incontrato nel calcio”. Ora è tornato a Valencia e al Valencia per far parte dello staff tecnico. Perché il primo amore, a volte, è per sempre.

Mikel ARTETA

Possibile che uno da oltre 350 presenze in Inghilterra in squadre di vertice non abbia mai vestito la maglia della nazionale della Spagna? Possibile, se hai la sfortuna di essere contemporaneo di Xavi, Iniesta, Alonso e compagnia cantando. Se la sarebbe meritata comunque, niente da dire. Arteta è stato un signor giocatore, un equilibratore tattico come poco, uno di quelli che cercava la soluzione meno complicata, ma più efficace. Per questo sia all’Everton che all’Arsenal, si sono tutti innamorati di lui. Palati fini.

Luis ARCONADA

“No pasa nada, tenemos a Arconada”. In quel coro coniato dai tifosi della Real Sociedad sono condensati la sicurezza che Luis Arconada trasmetteva ai compagni e, al tempo stesso, il timore reverenziale che incuteva nei centravanti avversari. Per un decennio buono, tra anni Settanta e Ottanta, è stato il più forte portiere del calcio spagnolo: non è forse un caso che la Real Sociedad, a cui ha giurato amore eterno fino alla sua ultima partita, abbia vinto i suoi unici due scudetti con lui a guardia dei pali. Basco di San Sebastián, il popolo dell’Euskadi lo idolatrava: nacque persino la leggenda che non indossò intenzionalmente i calzettoni ufficiali della nazionale perché avevano come risvolto la sequenza di colori della bandiera spagnola. A quella stessa maglia è legato anche l’unico vero svarione di una carriera eccezionale: nella finale degli Europei del 1984 contro la Francia si fece goffamente scivolare sotto la pancia l’innocuo pallone dell’1–0 griffato da Platini. Una papera ricordata ancor oggi come il “gol di Arconada” e che tuttavia non rende giustizia alla sua smisurata classe.

Alvaro MORATA

Álvaro Borja Morata Martín è una promessa di felicità. Prese le sue singole parti — la velocità, la forza, la tecnica, il tiro, l’istinto, il dribbling, il viso — è il perfetto centravanti del futuro (ma anche del presente), quello a cui è richiesto di saper fare tutto in campo e anche fuori. Eppure nonostante sia palese che Álvaro sia nato per far piacere agli altri giocando a pallone, non è detto che questa felicità che promette poi voglia anche mantenerla. A Morata infatti manca — o almeno manca ancora -l’idea che il gioco del calcio sia qualcosa di più grande delle sue singole giocate, l’idea che ogni centimetro deve essere conquistato con una superiorità reale e non con una presunta. Non è più giovanissimo, ma per sua fortuna è ancora in quella fase della carriera in cui gli attaccanti migliorano sé stessi, quindi Alvaro Morata deve decidere. Decidere se restare lì dove è ora, quindi a metà strada tra l’incompiuto e il compiuto (è davvero difficile collocarlo in una scala di compiutezza), oppure fare il salto che tutti si aspettano da quando è un ragazzino, prendersi tutto perché tutto può prendersi, e mantenere le promesse. Qualunque strada sceglierà a noi davvero non importa, Alvaro Morata è comunque il tipo di giocatore che rimane nei cuori dei tifosi, perché la vita è un po’ così: le promesse sono sempre meglio della realtà.

GUTI

Josè Maria Gutierrez lo dimenticano sempre tutti. Lo dimentica chi ricorda il Real dei Galacticos. Lo dimentica chi ricorda l’elenco di un’annata d’oro che non tornerà mai più, quella dei ’76. Lo dimenticavano i selezionatori della nazionale spagnola con cui ha giocato appena 13 volte. E, siamo sinceri, lo abbiamo dimenticato anche noi, tanto che questo testo è postumo alla pubblicazione. Ma perchè lo dimentichiamo tutti? Guti era bello come il sole, elegante in campo, conta circa 400 presenze con il Real Madrid e ha vinto 5 campionati, 3 Champions, 2 Coppe Intercontinentali e una Supercoppa Europea giocando praticamente sempre da titolare. Dal ’98 al ’08 il centrocampo delle Merengues è stato il suo e tutti intorno. Mediano, regista, trequartista, tutti intorno a lui sembravano essere alieni eppure in mezzo al campo, nel via vai dei Ronaldo, Zidane, Beckham, Figo e via dicendo, c’era sempre lui. E allora perchè diavolo lo dimentichiamo sempre? Boh, probabilmente perchè era bello, forte, fedele e segnava pure: troppa roba per uno solo, lo dimentichiamo perchè siamo invidiosi. Tutti vorremmo essere Jose Maria Gutierrez.

KOKE

Koke non si chiama Koke, mettiamo i puntini dove vanno: Jorge Resurrección Merodio. Resurrecciòn! E’ meravigliosa questa combinazione Nome-Squadra, perché ora è il simbolo dell’orgoglio Colchoneros risvegliato da Simeone. Koke, con gli altri, col suo bagaglio tecnico, agonistico e di uomo squadra, ha riportato l’Atletico Madrid dove merita, dove gli compete, in cima al mondo del calcio. Deve fare un ultimo step per consacrarsi al livello mondiale e assoluto, e volendo potrebbe farlo. Perché Koke può questo ed altro.

Iván DE LA PEÑA

Quando un soprannome te lo danno solo per doti presunte, dopo un po’ sembra più che altro una presa in giro. Questo è il destino di uno dei più grandi bidoni della storia della Lazio, chiamato el pequeño Buda per la testa rasata che lo faceva somigliare ad un tibetano, e per una sua presunta genialità mai dimostrata in realtà a parte i favolosi numeri legati agli assist a Ronaldo nelle sue stagioni blaugrana. Comincia al Barcelona con a fianco Guardiola, poi Lazio e Marsiglia, infine all’Espanyol dove gioca per molti anni e mette insieme un curriculum di onestà. A proposito: de la Peña ha giocato in nazionale, gente come Arteta invece no.

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La Linea Difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da Tommaso Giancarli, Leonardo Ciccarelli, Simone Vacatello, Matteo Serra, Gabriele Anello, Valerio Savaiano, Alessandro Mastroluca, Simone Pierotti, Daniele Morrone, Gabriele Lippi, Simone Nebbia, Sebastiano Iannizzotto, Marco D’Ottavi, Saverio Nappo, Adriano D’Esposito e Antonio Paesano.

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