Juventus e numeri 10: accoppiate famose e non

Crampi Sportivi
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12 min readJul 22, 2013
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La Juventus ha eletto il suo nuovo numero 10 dopo la dipartita del calciatore più rappresentativo della sua lunga storia, Alessandro Del Piero. A vestire quella casacca ci penserà Carlos Tevez, 29 anni, attaccante in grado di agire su tutto il fronte d’attacco; potenza esplosiva, ottima tecnica individuale. Ha vinto quasi tutto quello che c’era da vincere nei club in cui ha militato; in soldoni: un calciatore all’apice della carriera, che ha tutte le carte in regola per vestire quella maglia, e bene.

Il gran vociare intorno all’aspetto etico-morale di questa scelta è questione dibattuta: non mi interessa, in questa sede, prenderne parte , ma è utile fare una considerazione.

Il fatto che la tifoseria juventina si sia letteralmente spaccata in due in merito a ciò, dimostra quanto alla Juventus, nell’era delle cifre da NBA, i numeri contino, contino eccome. Sono soprattutto due i numeri di maglia senza i quali la Juventus sarebbe una squadra impensabile: l’1 e il 10, e la loro storia bianconera risulta essere, al contempo, uguale e opposta. Se da una parte la Vecchia Signora ha sempre potuto contare, storicamente, sui migliori portieri italiani, dall’altra parte, alla voce trequartista/regista/fantasista troviamo, paradossalmente, giocatori di provenienza varia e qualità tecniche che vanno dall’ eccellente all’impresentabile: è piuttosto chiaro capire chi sia passato alla storia e chi no.

Ecco, dunque, alcuni numeri 10 bianconeri, veri ed apocrifi.

John Hansen

Hansen

Se Sivori può essere considerato il fondatore di un binomio storico (Juventus e numeri 10), il molto meno famoso John Hansen ne ha aperto la strada in maniera silenziosa. Acquisito dalla Juventus nel 1948 dopo essere stato molto vicino al Torino, vi militò per sei stagioni: un attaccante alto ma lento per gli standard di allora; era dotato, tuttavia, di un fiuto del gol innato e miracoloso, se pensiamo a un giocatore che fino ad allora aveva militato solo nel campionato danese. Il suo bottino con i bianconeri fu di 189 partite e 124 reti: vinse, con il 10 dietro le spalle, due scudetti. Di lui si ricorda un gol al Milan nella stagione 1953/1954; un colpo di testa e prepotenza che spezzò gli equilibri della partita

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Omar Sivori

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“El Cabezòn” è stato il primo, grande fuoriclasse della società torinese: un fantasista argentino dai piedi di velluto e dal dribbling ubriacante, oltre ad essere un formidabile scoreman. La Juventus versò, nel 1957, 10 milioni di pesos al River Plate per averlo (la squadra dei borghesi di Buenos Aires completò la costruzione del Monumental, con quei soldi, ndr): Sivori, dal canto suo, andò a formare uno dei tridenti più micidiali che il calcio italiano ricordi, insieme a John Charles e a Giampiero Boniperti. In otto anni di Vecchia Signora, il furetto argentino, famoso anche per portare costantemente i calzini abbassati e senza parastinchi, vinse tre scudetti e tre Coppe Italia. Lasciò, nel 1965, la Juventus per il Napoli con un bottino di 170 reti in 257 partite; in Nazionale, vinse la Copa America nel 1957 e per molto tempo fece parte, assieme ad Angelillo e a Maschio, dei cosiddetti Angeli dalla faccia sporca, il trio impertinente e fuori dagli schemi della nazionale argentina. Elegante e imprendibile, Sivori faceva col pallone esattamente quello che voleva, che il più delle volte corrispondeva a irridere l’avversario

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John Charles

Charles

il “Gigante Buono” — in carriera non ricevette mai un’ammonizione, né un espulsione — divise il numero 10 con Sivori, di cui rappresentò l’antitesi formale, tecnica e comportamentale: un Sant’Antonio tutto muscoli e potenza dal temperamento più mite di un uccellino. Leggendario il suo schiaffo “paterno”, al contempo dolce e violento, a Omar Sivori, colpevole di un atteggiamento troppo eccessivo durante un match.

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Il gallese, acquistato dal Leeds nel 1957 per l’allora cifra record di 65.000 sterline, collezionò 155 partite con la Juventus, andando a segno 93 volte e vincendo tre scudetti e due Coppe Italia; si ricorda anche una breve parentesi alla Roma nel 1962, prima di finire la carriera nel paese natale.

Romeo Benetti

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Fa parte di quella schiera di numeri 10 apocrifi: il suo ruolo era l’esatto contrario di quel che ci si aspetterebbe da uno con un numero così. Benetti fu uno di quei mediani all’antica, un polmone tra i maggiori interpreti del catenaccio italiano negli anni ’70: mena come un fabbro, difendi come se non ci fosse un domani. Curioso, allora, che fosse anche un abile realizzatore. Indossò la maglia della Juventus a due tornate: la prima nella stagione 1968–1969, dove non lasciò il segno; la seconda, ben più profilica, nel triennio ’76 — ’79, vincendo due scudetti, una Coppa Italia e il primo trofeo internazionale della storia juventina: la Coppa UEFA. Il suo secondo e più felice approdo a Torino fu determinato dallo scambio con un altro numero 10 bianconero: il prossimo.

Fabio Capello

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Le due distinte carriere, da calciatore prima e da mister poi, di “Don Fabio”, condividono numerosi aspetti in comune, benché la seconda sia certamente più famosa. Il primo elemento condiviso è il palmares: il Capello atleta vinse quattro scudetti e due Coppe Italia, complessivamente. Uno abituato a vincere già sul campo, come ha confermato poi la sua illustre carriera da coach. Il secondo è la militanza: Capello, in entrambi i ruoli, ha legato il suo nome a Roma, Juventus e Milan, raccogliendo trofei con tutte e tre. Il terzo aspetto, quello forse più interessante in tale contesto, è il tipo di gioco offerto: Capello ama vincere giocando male, il massimo risultato col minimo sforzo; i suoi moduli stanno al calcio come il giornalettismo culturale sta alla critica con la C maiuscola: quello che lo differenzia da un Nedo Sonetti qualsiasi è la ferrea disciplina che impone ai suoi galoppini. Un sergente di ferro dalla grinta straordinaria: ciò spiega, per quale motivo, non fu mai un numero 10 strictu sensu; indossò tale maglia per tre anni alla Juventus, ma il suo era un modo di giocare fieramente difensivista: un centrocampista di contenimento dai piedi educati, a cui aggiungeva una visione di gioco non comune. Quest’ultimo fu, probabilmente, l’aspetto che lo differenziava e lo rendeva migliore, pur in un mare di mediocrità, dei tanti altri centrocampisti italiani dell’epoca: e fu infatti scambiato con Romeo Benetti, un altro centrocampista che non faceva della tecnica il fiore all’occhiello del proprio repertorio.

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Liam Brady

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Uno dei motivi per cui il calcio italiano degli anni ’70 fu tecnicamente ed esteticamente povero, venne ben rappresentato dalla chiusura delle frontiere agli stranieri, risalente in realtà al 1965. Ecco, allora, che la massima espressione degli anni di piombo calcistici è il catenaccio, in Italia. Tutt’altro discorso viene fatto all’estero, dove l’Ajax e la nazionale olandese stanno creando, con coscienza, una teoria calcistica fondata sul bello, che a posteriori sarà la più grande rivoluzione calcistica di tutti i tempi. Le frontiere vengono infine chiuse nel 1980: paradossalmente, a beneficiarne fino ad allora era stata proprio la Juventus, che in virtù del regime d’autarchia aveva pescato molti dei suoi migliori giocatori al Sud (Causio, Furino, Cuccureddu, Anastasi) e incrementando la propria fan — base proprio nel Meridione. Liam Brady fu il primo straniero ad arrivare a Torino dopo molti anni, ma le aspettative non furono tradite: finalmente un 10 come non se ne vedevano dai tempi di Sivori; centrocampista offensivo dalla classe sopraffina, dotato di un sinistro disegnato da Raffaello. Militò per due anni nella Juventus (57 presenze per 13 gol), vincendo due scudetti: alla classe, l’irlandese Brady abbinò anche un alto senso di professionalità, quando all’ultima giornata della stagione 1981–1982 si prese la responsabilità di calciare il rigore scudetto contro il Catanzaro pur sapendo di essere stato già ceduto alla Sampdoria. A ereditare la maglia numero 10 sarà uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi.

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Michel Platini

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«L’abbiamo preso per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras»: così parlava Gianni Agnelli a proposito della militanza di Le Roi alla Juve, iniziata nel 1982. Prima di Alessandro Del Piero, era considerato lui il totem della Juventus, il più grande giocatore ad aver vestito tale maglia: un fuoriclasse assoluto, dal bagaglio tecnico inferiore solo a quello di Cruijff e Maradona, in quegli anni suo rivale ed alter — ego. Ciliegina sulla torta: l’innato senso del gol, specie se si parla di capolavori stilistici come questo

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segnato nella finale di Coppa Intercontinetale contro l’Argentinos Jrs. e definito da molti “il miglior gol annullato della storia”(per non parlare della reazione alla decisione dell’arbitro). Ai successi con la Juventus, Platini affianca, come ogni straordinario artista del pallone, successi anche con la propria nazionale: trascina la Francia alla vittoria dell’Europeo 1984 e al terzo posto ai Mondiali messicani del 1986. Dopo 147 presenze e 68 gol con la casacca della Juventus, Platini annuncia il ritiro a soli 32 anni. Lo fa con queste parole, entrate di diritto nell’almanacco delle citazioni calcistiche: «Ho giocato nel Nancy perché è la squadra della mia città, nel Saint-Étienne perché è la migliore di Francia, nella Juventus perché è la migliore al mondo». Platini ha poi preso il timone della Francia per quattro anni, ottenendo tuttavia scarsi risultati: oggi è presidente dell’UEFA e domina il mondo del calcio, in modo molto meno elegante rispetto a quando giocava, insieme a quell’altro inquietante personaggio che risponde al nome di Blatter. Io lo preferivo quando giocava, e ho i sensi di colpa a poterlo guardare solo tramite filmati d’epoca.

Marino Magrin

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Il 10 più atipico di tutti: venne acquistato dall’Atalanta (dove aveva ben impressionato in sei anni) per sostituire Platini, ma non indossò mai la maglia numero 10, nonostante il ruolo fosse molto simile. Disputò due stagioni in bianconero, tra poche luci e molte ombre: 44 presenze, 7 gol. A sua parziale discolpa va considerato un fattore impossibile da tralasciare: sostituire Platini è impresa pressoché impossibile, farlo senza il suo numero di maglia ancor di più. Per maggiori informazioni, si rimanda a Sebastian Giovinco.

Oleksandr Zavarov

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Chi? “Sasha”, come era soprannominato, negli anni ’80 era considerato uno dei migliori fantasisti d’Europa, ponendosi come la punta di diamante della Dinamo Kiev, allenata dal sergente Lobanovsky. Logico allora che gli Agnelli, non pienamente soddisfatti dell’acquisto di Magrin, videro in lui il giocatore ideale per ereditare la maglia che fu di Platini. Sfruttando, dunque, i buoni rapporti con i vertici dell’URSS, la Juventus versò 7 miliardi di lire nelle casse della squadra ucraina: Zavarov divenne così il primo calciatore sovietico della storia juventina — un ossimoro, a pensarci — e anche il primo a giocare in Italia. Grandi erano le aspettative intorno a lui, ma Sasha le deluse ampiamente: prima annata disastrosa, seconda — giocata con il numero 9, ndr — tra luci e ombre. Lento e impacciato, riuscì raramente a mostrare quello di cui era capace: in fondo il campionato sovietico non era certo paragonabile a quello italiano. In due anni alla Vecchia Signora, Zavarov vinse Coppa UEFA e Coppa Italia, ma non si può certo dire che diede un contributo fondamentale alla conquista delle stesse: 60 presenze per soli 7 gol non dovevano sicuramente rappresentare i numeri di chi era stato scelto per sostituire degnamente Le Roi. Accolto da grande campione, uscì dalla porta di servizio senza aver imparato neanche una parola in italiano.

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Giancarlo Marocchi

Marocchi

Centrocampista centrale in grado di rappresentare una sintesi ideale del ruolo degli anni ’70 e dei ’90: tanta legna in mezzo al campo (coprire) e buona qualità nelle geometrie offensive (costruire). Caparbio, capace di imporre ritmi notevoli grazie ad un’ottima tenuta atletica, arrivò alla Juve dal Bologna nel 1988, fortemente voluto da Maifredi; se quest’ultimo, però, può essere a buon titolo considerato uno dei peggiori allenatori che abbiano mai guidato la squadra, non si può dire lo stesso di Marocchi. Pur vestendo la gloriosa maglia per soli due anni — quando la lasciò a Baggio — Marocchi riuscì sul campo a ritagliarsi uno spazio prima importante (con Trapattoni), poi da gregario (con Lippi), ma pur sempre fondamentale, grazie alle qualità di leader silenzioso che lo contraddistinsero. Furono ben otto gli anni in totale con la Juventus: 213 presenze e 15 gol; il suo palmares con la Juve? Uno scudetto, una Champions League, due Coppe UEFA, due Coppe Italia, due Supercoppe Italiane. Non male, per uno che ha vestito la maglia numero 10 e in pochi lo ricordano.

Roberto Baggio

Baggio

L’arrivo del “Divin Codino” a Torino, nel 1990, fu l’esatta antitesi di quello di Tevez un paio di settimane fa: Baggio fu accolto freddamente dai tifosi juventini, e lo stesso Baggio accettò il trasferimento non senza malumori — celebre l’aneddoto per cui, in conferenza stampa, Baggio gettò via la sciarpa bianconera che gli era stata messa addosso -. Una situazione paradossale per un calciatore considerato, all’epoca, il miglior prodotto espresso dal calcio italiano da anni e anni: Platini, curiosamente, lo definiva un «nove e mezzo», considerandolo metà attaccante e metà rifinitore. Da fuoriclasse purissimo qual era, tuttavia, Baggio lasciò il segno in ogni squadra in cui giocò, sia nel bene che nel male: fu soprattutto la Juventus la squadra in cui si verificò questo manicheismo poetico alle estreme conseguenze. Con il numero 10 bianconero alle spalle, Baggio raggiunge i maggiori risultati della carriera a livello di club e personali: uno scudetto, una Coppa UEFA, una Coppa Italia e il Pallone d’Oro 1993. 141 presenze, 78 reti: numeri che riuscirono a far breccia nel cuore dei tifosi col tempo. All’altro estremo, proprio con la Juventus avvennero due degli episodi più controversi della sua carriera: il primo accade in occasione di un Fiorentina — Juventus datato 7 aprile 1991. Baggio si rifiuta di calciare un rigore contro la sua ex squadra, lasciata appena la scorsa stagione, e una volta sostituito va a raccogliere il saluto dei tifosi viola, che gli lanciano una sciarpa che puntualmente raccoglie. Un momento degno di un film di Bunuel, un’atmosfera surreale di applausi e fischi. Il secondo è legato alla sua cessione: Baggio si infortuna e la società decise di non farlo sottoporre ad un’operazione; pur segnando gol decisivi nella conquista di scudetto e Coppa Italia, il giocatore è costretto a stare fuori dai campi per cinque mesi. Complice anche l’esplosione di un certo Alessandro Del Piero, la società decide di venderlo al Milan, ma si può ben considerare uno dei migliori 10 della storia bianconera.

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Alessandro Del Piero

Del Piero

il numero 10 della Juventus per eccellenza, uno dei massimi fuoriclasse italiani; acquistato nel 1993 dal Padova per 5 miliardi di lire, è il primatista di presenze e gol con la casacca juventina (705 gettoni per 290 gol) terzo marcatore italiano di tutti i tempi, dietro agli irraggiungibili Meazza e Piola. Leader carismatico, elegante, eppur silenzioso e straordinariamente corretto, Del Piero è passato dal paradiso all’inferno quando, nel 1998, a soli 24 anni ma con un bagaglio d’esperienza già straordinario, subisce un gravissimo infortunio a Udine che sembra spezzargli la carriera; torna la stagione successiva ma fatica a ritrovare la condizione, più a livello psicologico che fisico: risale a tale periodo il soprannome di “Godot” da parte dell’Avvocato, con il chiaro riferimento all’opera teatrale di Beckett. Anche la stampa gli rema contro, e risale a questi anni la rivalità, creata ad arte, Totti — Del Piero. Eppure Alex vuole dimostrare a tutti i costi di non essere un giocatore finito: vuole tornare ad essere “Pinturicchio”. Quando la Juventus il 18 febbraio 2001 gioca in trasferta a Bari, suo padre è morto da pochi giorni: come ogni vero numero 10, anche la carriera di Del Piero assomiglia più ad un romanzo. Entra nel secondo tempo e sblocca una partita complicata con uno dei suoi gol più belli in assoluto

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scoppiando in un pianto liberatorio che, simbolicamente, dà il via ad una nuova fase della sua carriera. Torna a giocare e ad incantare, a vincere tanto, sia con la Juve che con la Nazionale. Il suo rendimento non cala neanche quando la Juventus sprofonda in serie B nell’ambito del caso Calciopoli: anzi, è uno dei pochi giocatori a rimanere fedeli alla maglia, a permettere la risalita in A. Abbatte tutti i record appartenuti ai passati giocatori juventini, trascina la squadra al ritorno in Champions dove segna una splendida doppietta al Bernabeu contro il Real

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Un 10 in tutti i sensi, anche quando la nuova gestione societaria non gli promette un ruolo da protagonista, fino alla decisione di non rinnovargli il contratto. Anche in questo caso Alex non fa una piega, lasciando parlare il campo in quelle poche occasioni in cui è impiegato e dando un contributo importante alla conquista dello scudetto.

Guglielmo Bin

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