Killer mentality

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readJan 14, 2016

A inizio stagione, la trade più fragorosa che potesse essere annoverata è stata senza alcun dubbio quella che ha segnato il passaggio di LaMarcus Aldridge ai San Antonio Spurs, dopo nove stagioni con i Portland Trail Blazers. Un trasferimento da notificare a voce alta dato il calibro del giocatore in questione, ottavo assoluto della lega per player efficiency nella scorsa stagione.

Una tale rinuncia per Portland — interpretata da un occhio disattento che potrebbe soffermarsi esclusivamente su una notifica di Bleacher Report — non può che ricondurre a un unico comune denominatore: il forzato inserimento di tale franchigia in un tortuoso e quanto mai infinito rebuilding che molte squadre stanno affrontando da anni che somigliano a lustri. Magari aggiungendo a tale evento la partenza di altri tre quinti del quintetto titolare della squadra: in questo caso Batum, Matthews e Lopez.

La verità però è un’altra e non stenta tantissimo a venire a galla: fondamentalmente LaMarcus Aldridge era diventato una zavorra in Oregon. Se non dal punto di vista tecnico-tattico (pur ammettendo una negligenza nella valutazione dell’apporto difensivo del suddetto), almeno da quello psicologico, ben più importante. Dietro l’effige del lungo da 20+10 con la mano educatissima si celava una figura diversa: un giocatore non sempre in grado di prendere le redini della squadra, inchiodato ad una continua pretesa di attenzioni, spesso assente.

Comunque ci sono dei buoni ricordi.

Specie nelle ultime stagioni, durante le quali chiunque si è accorto di come quando c’era da mettere dentro una palla che scottava, fondamentalmente non era proprio da Aldridge che si passava. Il n° 12 in parte soffriva la centralità che Damian Lillard ha meritatamente acquisito, creava ansia nell’ambiente, soprattutto per le frequenti preoccupazioni verso la propria condizione fisica che lo portavano a costringere la società a prescrivergli analisi, radiografie e quant’altro con eccessiva frequenza ed inutilità, ad esempio.

Durante gli scorsi play-offs, al primo turno i Portland Trail Blazers erano impegnati contro i Memphis Grizzlies: la serie è terminata 4–1 in favore della franchigia del Tennessee. A seguito di gara-5 disputata in casa di Marc Gasol e compagnia, si è chiusa la serie (e la stagione). Pare che Aldridge non sia tornato nella città delle rose col resto della squadra, ma abbia deciso di farlo per conto suo, senza alcun tipo di preavviso.

Il matrimonio tra LaMarcus Aldridge e i Trail Blazers è ben lontano dal poter essere considerato un fallimento: il ragazzone di Dallas rimane oggi uno dei migliori lunghi in assoluto nella NBA. Tuttavia, gli scenari che la sua partenza (e quella degli altri giocatori già citati) sta aprendo si rivelano molto più interessanti di quanto non lo siano stati negli ultimi nove anni.

Cosa ha lasciato LMA nella Rip City?

Emergere

Il 4 giugno si è giocata gara-1 delle Finals NBA, vinta dai Golden State Warriors all’overtime. È stata l’unica partita della serie disputata da Kyrie Irving.

In un salotto e su una televisione indubbiamente più grande della mia, un uomo stava guardando quella partita e ha ben pensato di chiamare suo figlio, in vacanza alle Hawaii con la ragazza, per proferire qualcosa a metà tra un monito ed un consiglio. Si può immaginare un dialogo del genere:

«Guarda che stavo vedendo gara-1 delle Finals… ci sta questo Irving che la palla sa portarla a spasso come pochi lì dentro…».

«Va bene Pa’, ma io cosa c’entro?».

«Dovresti allenarti nel ball-handling secondo me, meglio di come hai fatto finora. Quando torni mettiti al lavoro: hai un compito da portare a termine, rendimi fiero di te».

Quell’uomo è Errick McCollum, il padre di CJ McCollum.

Detto, fatto.

In verità, CJ e suo fratello Errick II si sono allenati ogni estate sul ball-handling con un metodo già visto da Stephen Curry, che prevede l’utilizzo contemporaneo di due palloni per palleggiare all’interno di un esercizio della durata di 15 minuti.

Durante l’ultimo periodo estivo però, sembra che la guarda proveniente da Lehigh abbia deciso di elaborare una serie di esercizi mirati ad incrementare le abilità di ball-handling su più fronti, con una serie di sfide, invece che una soltanto. Secondo quanto detto da lui stesso, tali miglioramenti sono fondamentali per permettergli di crearsi più situazioni di pericolosità offensiva sul campo: potendo agire in isolamento pressappoco da ogni zona, creando spazio per i compagni e potendo affrontare gli uno contro uno al ferro.

Durante l’off-season, un’occasione aggiuntiva gli è stata offerta da Jay Triano, ovvero l’assistente di Terry Stotts, ma soprattutto l’head coach della squadra canadese di basket. Quest’ultima ha organizzato un incontro tra C.J. McCullom e Steve Nash, che hanno dunque potuto allenarsi insieme per qualche giorno. A detta del giocatore dei Trail Blazers, i risultati di tale esperimento si sono visti soprattutto nel decision making: McCollum è stato istruito riguardo i contropiedi, la gestione dei compagni all’interno degli schemi offensivi (con un sistema basato sul veicolare i propri compagni tramite rapidi scambi di sguardi) e, ça va sans dire, sulla gestione dei pick‘n‘roll.

Durante quest’annata, con ogni probabilità, stiamo osservando i frutti di tutto l’impegno profuso da McCollum durante questi ultimi mesi, ma non solo in realtà…

Ma si potrebbe prendere in considerazione una partita qualsiasi… o questo episodio:

Con conseguente commento dell’interessato:

Cos’è successo dunque a McCollum di preciso?

Niente. Ok, si è allenato. Si è allenato con Steve Nash, ha modificato i propri esercizi di ball-handling, ma fondamentalmente ciò che gli è successo è semplice da identificare: in questa stagione C.J. McCollum sta giocando.

Durante quella serie contro Memphis di cui si parlava in precedenza, a causa dell’infortunio occorso a Wesley Matthews, l’ex Lehigh ha beneficiato di un minutaggio da titolare per la prima volta: 33 minuti a partita per lui nella serie (diventati 35.4 in questa stagione) mantenendo una media di 25.6 punti per gara negli ultimi tre episodi della serie. Paradossalmente, è come se nello stesso arco di tempo si fosse squarciato il microcosmo della squadra e si sia trovata la motivazione per tornare in battaglia con più motivazione di prima, senza neanche avere il tempo di spolverare la proverbiale bandiera bianca per poterla drappeggiare.

Quest’anno è soltanto il naturale prosieguo di ciò che stava naturalmente succedendo e di ciò che non è potuto accadere nella stagione da rookie del numero 3, nella quale egli ha disputato solo 38 partite, di cui neanche una da titolare a causa di un infortunio al piede. Nella sua seconda stagione, la solfa è stata molto simile, stavolta a causa della concorrenza di Wesley Matthews e Arron Afflalo.

La dimostrazione che McCollum non ha subìto sensibili cambiamenti risiede nel fatto che le sue statistiche di carriera di percentuale reale al tiro non siano dissimili da quelle odierne, se escludiamo tuttavia un netto miglioramento nelle percentuali dalla lunetta (dicevamo?). Per dare un volto numerico alla stagione di McCollum, è sufficiente evidenziare la semplicità nel mettere a referto punti: 1.2 punti per possesso in transizione, 1.023 come portatore di palla nel pick‘n‘roll, 1.231 in situazioni di isolamento.

Sono numeri migliori rispetto a quelli di Chris Paul, per esempio. La possibilità per McCollum di esprimersi in tale maniera è consentita anche dalla coesistenza col suo compagno di merende, ovviamente Damian Lillard, con il quale forma un backcourt secondo solo a quella dei Golden State Warriors per punti a partita. Lo stesso Stotts ha ammesso come preferisca tenere entrambi i giocatori sul parquet, in modo che Lillard possa essere deresponsabilizzato in un vasto numero di situazioni offensive, compito irrealizzabile quando manca il numero 3 dei Trail Blazers.

Un esempio.

Natural born killer

L’atteggiamento che professa McCollum verso il proprio gioco è rigoroso ed aggressivo: il 29 novembre — il giorno precedente all’annuncio del ritiro di Kobe Bryant — al Moda Center hanno fatto visita i Los Angeles Lakers. C.J. McCollum ha annusato la possibilità di mettersi in mostra davanti al suo idolo di infanzia: il Black Mamba. L’istinto da killer con cui McCollum assalta le difese avversarie è frutto della sua dedizione verso il gioco di Bryant: così è stato durante quella partita, i cui primi tre minuti hanno visto andare al tiro soltanto la guardia di Portland, che ha concluso con 28 punti e 12/20 dal campo.

L’attesa delle opportunità che il ragazzo di Lehigh ha dovuto subire gli è stata fondamentale per sfruttare al meglio ogni tiro preso, ogni passaggio effettuato, ogni possesso di fronte a Kobe: il Black Mamba si è espresso positivamente nei confronti del rivale dopo la partita.

Ci tieni a giocar bene contro il tuo idolo.

C.J. McCollum è emerso. Non è esploso. Steph Curry è esploso, o Anthony Davis; McCollum è semplicemente emerso, è stato in grado di sfruttare ogni occasione concessagli, ritagliandosi il proprio spazio. Nell’immaginario comune un rookie, o comunque un giocatore alle sue prime stagioni, deve affrontare un percorso di crescita. Tuttavia, il contesto nel quale fronteggiarlo è diverso: ci sono milioni di esempi di novelli con minutaggi altissimi e contemporanea difficoltà nel farsi notare, o più semplicemente migliorare (Ben McLemore, sto parlando con te).

Per tale motivo il percorso di McCollum è lodevole: questo vuol dire davvero bruciare le tappe e sfruttare le occasioni. Il concetto cardine del ragazzo di Canton è proprio la continuità e la voglia di dimostrare le proprie capacità. Dopo aver rovesciato 37 punti sui New Orleans Pelicans, egli stesso ha ammesso di essersi sentito un animale in gabbia fino a quel momento e di potersi sfogare soltanto adesso.

C.J. McCollum sta consentendo alla propria franchigia di dribblare una stagione da tanking assicurato, riuscendo a sorprendere solo gli impreparati pronti ad accompagnare la Rip City verso il fallimento. Su quanto questo legame durerà, invece, c’è più di qualche dubbio

A cura di Michele Garribba

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