La Bosnia-Erzegovina verso Brasile 2014. I figli della guerra dall’assedio di Sarajevo all’esordio mondiale
«Pazite, snajper!».
Sarajevo, anno 1993. Un grido risuona nelle strade deserte in una gelida notte dell’inverno slavo. Attenzione cecchino. Poche persone in giro, impaurite e perdute. Porte sbattute dal vento, dalla paura e dalle fughe nella notte. Porte sbattute in faccia ad una città che è ormai solo un’ombra di quella capitale culturale nata e cresciuta nella luce del sultanato ottomano di Istanbul, che conquistò la zona nel 1461 nella sua folle corsa verso l’Europa cristiana, arrestatasi solo alle mura di Vienna.
Il primo governatore turco della Bosnia, Isa-beg Ishakovic, trovò un insieme di villaggi addossati sulla Maljica e decise che qui sarebbe sorta la capitale di questa zona collinare, un triangolo di terra docilmente appoggiato sui Balcani occidentali. Raramente capita nella storia di trovare una zona di terra così piccola che abbia visto il passaggio di così tanti popoli, culture, religioni e lingue diverse. Un crocevia naturale, una cerniera tra Oriente ed Occidente, fortuna e sfortuna di questi luoghi.
Come tutte le zone di confine tra mondi, la multiculturalità era un tratto caratteristico della Bosnia intera, esemplificata dalla sua capitale, Sarajevo. Per gli oltre quattro secoli di dominio turco la capitale bosniaca fu un luogo accogliente, tollerante, di mescolanza e fioritura del meticciato. Molti si erano convertiti all’Islam con l’avvento dei turchi, ma molti rimanevano ancora cristiani, sia di osservanza cattolico-romana sia di credo serbo-ortodosso. Nel XVI secolo cominciarono ad arrivare a Sarajevo anche gli ebrei sefarditi, cacciati dalla penisola iberica dai cattolicissimi reali Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona in seguito al completamento della Reconquista.
Con il XIX secolo, però, anche la potenza dell’Impero ottomano cominciava a vacillare, seguendo il destino di tutti i grandi imperi sovranazionali, destabilizzati dall’idea caratterizzante la modernità post-rivoluzionaria: il nazionalismo. Ci volle del tempo ed un passaggio di consegne intermedio prima di poter pensare alle indipendenze dei popoli slavi del sud. Dopo la guerra russo-turca del 1877 la Bosnia-Erzegovina entrò a far parte dell’Impero Austro-Ungarico e fu un passaggio decisivo per la storia calcistica di questi luoghi: proprio attraverso la mediazione delle grandi capitali danubiane dell’impero — Vienna e Budapest in particolare — il calcio arrivò tra i Balcani.
Lo sport britannico per eccellenza era arrivato nell’impero asburgico tramite alcuni pionieri inglesi con imperiali velleità d’età vittoriana. Le grandi capitali di Austria e Ungheria operarono come centri di ricezione, elaborazione e diffusione calcistica, irradiando idee, passioni e culture sportive nelle periferie dell’impero, tra cui la Bosnia. Le prime compagini calcistiche nacquero percorrendo le medesime divisioni etnico-religiose già ben radicate nella zona. Nel 1908 un gruppo di studenti serbo-ortodossi fondò l’FK Slavjia, con l’originario nome di Dacki Sportsi Klub (DSK), mentre nel 1913 la comunità croato-cattolica si riunì intorno alla SASK. Unica rilevante eccezione fu l’FK Zeljieznicar, fondato a Sarajevo dopo la guerra dagli operai ferroviari della città, tentando un primo esperimento di collaborazione multietnica su base lavorativa — zeljieznicar significa proprio “ferroviere”.
Organizzare tornei non era facile in una zona incandescente come quella balcanica. Prima le guerre del 1913, poi la miccia detonante della Grande guerra, quando il nazionalismo diventa idea armata e uccide l’erede al trono imperiale servendosi della mano del serbo Gravilo Princip, membro della Giovane Bosnia, associazione che propagandava la creazione di uno stato unito degli slavi del sud. Questo stato vide la luce proprio alla fine del conflitto con la dissoluzione dei grandi imperi centrali. Nacque così nel 1918 il Regno di Jugoslavia, che governò sui territori balcanici fino all’invasione italo-tedesca del 1941. Ma il sogno di un paese unito degli slavi del sud non tramontò neanche con la Seconda guerra mondiale e riprese vita nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia guidato da Josip Broz Tito, che, dopo la sconfitta dei paesi dell’Asse, fondò nel 1945 la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, riunendo sotto un unico governo Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Montenegro.
Tito fu il leader indiscusso del paese per più di un trentennio, governando e tenendo uniti i diversi nazionalismi per mezzo del suo carisma, motore primo della federazione. Tito morì il 4 maggio 1980. In quello stesso anno il Nottingham Forest alzava nel cielo di Madrid la sua seconda Coppa dei Campioni consecutiva, vinta contro i tedeschi dell’Amburgo, e gli scandali del calcio-scommesse in Italia condannavano alla retrocessione in Serie B Lazio e Milan. In agosto un attacco terroristico distruggeva la stazione di Bologna causando 85 morti, mentre in novembre Ronald Reagan vinceva le sue prime elezioni presidenziali e a fine anno i Led Zeppelin si scioglievano definitivamente.
La morte del maresciallo viene oggi indicata da molti come il segnale della fine di un’epoca che si reggeva unicamente sulla sua presenza e sulla sua capacità di mediazione tra i particolarismi delle diverse etnie e religioni. Ma l’unione jugoslava resse ancora un decennio. Ed è affondando le sue fragili radici in un paese incandescente, pronto ad esplodere, che il calcio jugoslavo visse i suoi anni d’oro, mascherando la catastrofe imminente in slancio vitale di una golden generation di giovani campioni. Era il 1987 quando una fenomenale nazionale under-20 dominò il mondiale di categoria giocato in Cile. Robert Prosinecki, nato in Germania da esuli croati nel 1969, sguardo duro e piedi da poeta, venne nominato miglior giocatore del torneo. Al suo fianco campioni del calibro di Zvonimir Boban, Davor Suker e Pedrag Mijatovic.
Ma era solo un primo assaggio. Un piccolo antipasto di quello che sarebbe stato l’exploit jugoslavo all’inizio degli anni ’90, una grandezza che fu purtroppo solamente intravista, promessa incompiuta. Una grandezza che orbitava attorno a due grandi squadre: la nazionale maggiore e la Stella Rossa di Belgrado.
Nei mondiali italiani del 1990 la Jugoslavia era guidata dal talento di Dejan Savicevic, genio montenegrino funambolico e svogliato, dai gol dei croati Suker e Prosinecki, dal serbo Stojkovic e dal coriaceo difensore bosniaco Davor Jozic. Il capitano di questo Brasile d’Europa, come venne soprannominata la squadra, era Zlatko Vujovic, croato di Sarajevo. Non c’era Boban, squalificato per i fatti del Maksimir del maggio di quell’anno, quando già si vedevano le avvisaglie degli odi nazionalisti perfettamente reificati nella ginocchiata che “Zvone” rifilò ad un membro della polizia serba durante un violento scontro tra i tifosi croati della Dinamo Zagabria e i serbi della Stella Rossa. Anni dopo si scoprì che quel giovane tutore dell’ordine non era serbo, bensì bosniaco e musulmano.
La nazionale a quel mondiale arrivò ai quarti, eliminando prima la Spagna e venendo battuta solamente ai calci di rigore dall’Argentina di Maradona. Sarebbe stata l’ultima competizione ufficiale alla quale partecipava una formazione della Jugoslavia unita.
La Stella Rossa di Belgrado è un caso ancora più clamoroso di convivenza multiculturale applicata con successo al gioco del calcio. Il laboratorio multietnico di Sarajevo, scenario storico di convivenza multietnica, si trasferiva all’interno dell’infuocato Marakana, stadio di Belgrado, mettendo insieme una formazione di incredibile talento che guidò l’assalto degli slavi del sud agli stadi d’Europa, dominando e incantando il vecchio continente. C’era ancora una volta il croato Prosinecki, al fianco del serbo Jugovic, del macedone Pancev e del montenegrino Savicevic. C’era Sinisa Mihajilovic, personificazione del meticciato balcanico, nato a Vukovar, porto fluviale situato alla confluenza tra la Vuka e il Danubio sul confine tra Croazia e Serbia, da padre serbo e madre croata. Etnie, storie, provenienze, religioni e culture diverse si incoronavano campioni d’Europa al San Nicola di Bari, battendo in finale di Coppa Campioni l’Olympic de Marseille.
Ma era l’ultimo canto di un cigno morente. Dopo un turbolento inizio di quello che sarebbe stato l’ultimo campionato della Jugoslavia unita, caratterizzato da nuovi scontri tra croati e serbi durante il match d’apertura tra Partizan e Dinamo Zagabria, nel giugno del 1991 la Slovenia e la Croazia dichiararono unilateralmente l’indipendenza. La nazionale maggiore resistette ancora quasi un anno, giocando la sua ultima gara ufficiale nel marzo del 1992: una secca sconfitta per 2–0 contro l’Olanda di Rijkaard e Koeman. Le menti e i cuori erano altrove in quel momento. Erano con le famiglie in pericolo in case non più sicure. Pensavano a giovani paesi che nascevano combattendo tra fratelli. Erano menti e cuori che pianificavano già la fuga. Boban e Savicevic vennero a Milano, sponda rossonera. In Italia arrivò anche Mihajlovic, alla Roma. I croati Suker e Prosinecki finiro in Spagna e, percorrendo a ritroso le vie degli ebrei sefarditi del XVI secolo, finirono entrambi al Real Madrid, simbolo della monarchia iberica.
Le ostilità erano scoppiate nel 1991, ma la Bosnia-Erzegovina, per un anno intero, rimase fuori dal conflitto. Il luogo di convivenza pacifica multiculturale per eccellenza si trovò a vivere in un surreale stato di sospensione, mentre il sangue scorreva lungo i suoi confini. Ma era una situazione che non poteva reggere ancora per molto. Il germe del nazionalismo superò le Alpi Dinariche e scese lungo il corso della Bosna, arrivando nel cuore pulsante del paese: Sarajevo. Un referendum indetto dai bosniaci per l’indipendenza ottenne il 92% dei consensi. Ma i serbi, che rappresentavano il 57% della popolazione, non votarono, ribellandosi a quella proposta di separazione dalla Serbia. L’Armata popolare di Jugoslavia schierò allora le sue truppe intorno a Sarajevo, dando inizio a quello che sarà il più lungo assedio della storia moderna. Ivan Osim, ultimo storico allenatore della nazionale unita di Jugoslavia, si dimise il 24 maggio del 1992 per protestare contro la guerra civile, alzando un grido di solidarietà verso tutte le famiglie miste come la sua, quella di un croato cattolico nato a Sarajevo e coniugato con una donna bosniaca e musulmana.
Un grido che rimase inascoltato, soffocato dal frastuono delle bombe, dalle grida e dagli orrori della pulizia etnica, dalle spedizioni paramilitari e dai rastrellamenti fratricidi, dalle bombe della NATO su Belgrado e dagli spari chirurgici dei cecchini nelle città. Solo nel dicembre 1995 con gli accordi di Dayton le armi cessarono di sparare e sulle macerie della Jugoslavia martoriata e stuprata dalla guerra poterono nascere nuove, giovani nazioni.
In Bosnia-Erzegovina le condizioni politiche e sociali erano però spaventose. La fine della guerra aveva portato l’indipendenza ma all’interno del paese gli odi e i rancori tra le diverse comunità rimasero forti, acuiti da quattro anni di conflitto. Laddove c’era una pacifica mescolanza nascevano ora due zone amministrative distinte, una a maggioranza serbo-ortodossa ed un’altra bosniaco-musulmana, quasi a certificare ufficialmente gli orribili miracoli della pulizia etnica. Il calcio risentì anch’esso di queste condizioni socio-politiche e la federazione calcistica divenne un luogo politico, suddiviso in sotto-federazioni non ufficiali dove serbi, croati e bosniaci continuarono a farsi una piccola guerra di ricatti e ritorsioni personali. La FIFA non poté tollerare una tale situazione e sospese nuovamente la Bosnia dalle competizioni mondiali.
Il salvatore della patria si chiamava, ancora una volta, Ivan Osim. Proprio lui, l’ultimo allenatore della Jugoslavia unita che, nonostante l’età e gli acciacchi fisici, era ancora una vera leggenda nel paese e accettò di buon grado di rimettere insieme, almeno calcisticamente, i cocci di una nazione ancora sanguinante. Avendo ricevuto carta bianca, Osim negoziò con le autorità serbe, bosniache e croate e riuscì infine a mettere in piedi una struttura organizzativa interamente pensata per il bene del calcio nazionale. La federazione bosniaca rinacque così sotto l’egida del nuovo presidente Elvedin Begic, il quale chiamò a costruire la nuova nazionale una ex gloria del calcio bosniaco: Safet Susic che, prima di trasferirsi nel 1982 al Paris Saint-Germain, giocò 600 partite con l’FK Sarajevo segnando la bellezza di 400 goal.
Due furono i mezzi individuati per una rinascita calcistica: rinnovare e rimodernare le strutture tecniche e ritrovare i giovani talenti bosniaci sparsi per il mondo. Perché la guerra aveva portato ad un esodo spaventoso di famiglie che si erano trasferite all’estero, portando con sé armi, bagagli e prole calcisticamente promettente. Casi come quello di Zlatan Ibrahimvoc, nazionale svedese il cui cognome rileva chiaramente le sue origini balcaniche, non dovevano più ripetersi.
La macchina si mise in moto e i giovani talenti vennero scovati. In Svizzera si erano rifugiati Senad Lulic, pendolino di fascia eroe del derby romano del 26 maggio, e Vedad Ibisevic, che sarà l’autore del goal decisivo per la qualificazione al mondiale brasiliano. Dalla Germania arrivò Zvjiedzan Misimovic, cuore del Wolfburg campione di Germania nel 2008. Ma era in Lussemburgo che veniva accudito il più talentuoso di questa nuova generazione di giovani bosniaci. Miralem Pjanic, un pianista dal gioco sopraffino, un artista che dalla trequarti in su reinterpreta Mozart a suon di pallonetti, assist e potenti tiri da fuori area, ricordo atavico di bombarde turche alle porte di Vienna.
Non tutti però erano fuggiti. La famiglia di Edizn Dzeko, ad esempio, una volta abbandonata Sarajevo rimase in Bosnia, muovendosi continuamente di villaggio in villaggio, in fuga dalle bombe e dai cecchini serbi. Sembra nutrirsi dei ricordi degli spari e dei frastuoni delle bombe, questo potente centravanti bosniaco quando irrompe in area avversaria, sui piovosi campi inglesi della Premier o con la maglia della nazionale bosniaca, brandendo colpi di destro e sinistro per gridare al mondo la rivincita bosniaca contro una realtà fratricida.
Il resto è storia recentissima. Il girone di qualificazione per la Bosnia-Erzegovina non è stato certo durissimo. Grecia e Slovacchia erano le compagini più pericolose, ma la pratica viene facilmente archiviata con otto vittorie in dieci gare, segnando trenta goal complessivi. Trenta sigilli che hanno spalancato le porte di Brasile 2014 ad una rinata Bosnia-Erzegovina.
Ma è tutto oro quel che luccica? I bombardamenti, la miseria, la paura, gli odi e i rancori non si superano nel giro di una decade e il nazionalismo è duro a morire. Al decisivo gol di Ibisevic contro la Lituania la festa è stata grande a Sarajevo, ma forse lo è stata meno a Banja Luka, capitale della zona serba del paese, e tra le comunità croato-cattoliche ancora presenti nel paese. Il paese rimane diviso, ma in una pace che, per quanto vissuta con fastidio, riuscirà a far guardare le imprese delle diverse nazionali sui televisori di tutto il paese. Che ognuno poi faccia il tifo per la nazionale del paese che preferisce. Come disse Winston Churchill, i Balcani partoriscono più storia di quanta non ne riescano a digerire. La storia che vi abbiamo raccontato ne è l’ennesima dimostrazione.
Valerio Torreggiani Apprendista storico. Si interessa di teorie politiche non più di moda, musica rumorista e storie di pallone. Sostiene che il biliardino sia uno sport completo e cova da sempre un sovversivo progetto segreto: sostituire l’ora di religione a scuola con un’ora di ascolto dei dischi dei Beatles.