La caduta dei campioni

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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12 min readApr 27, 2016

Vincere il titolo e l’anno dopo disputare un campionato anonimo. Centro classifica, addirittura lotta per non retrocedere. È raro, ma a volte succede. L’esempio più recente è il Chelsea edizione 2016, fuori dalla lotta al titolo già a ottobre. E allora mi sono chiesto quante volte è capitato negli ultimi 25 anni nei quattro campionati più importanti d’Europa. È stato un lungo lavoro di ricerca. Sono andato a scovare vecchi articoli, statistiche, dichiarazioni e ho trovato alcune chicche. Ho selezionato solo le annate davvero fallimentari. Non un terzo posto, neanche un quinto. Ma veri e propri disastri, allenatori esonerati, dirigenti che sudano nei loro abiti attillati incapaci di rispondere alle domande dei giornalisti. Tifosi che assediano campi di allenamento. Pezzi di tribune deserte. Campioni in carica fuori dall’Europa. La parola rifondazione sulla bocca di tutti. Disastri, insomma, apparentemente senza nessuna logica.

1. Napoli 1990/91

Il giorno dopo una sbornia colossale. A Napoli il 1991 è stato un lungo mal di testa collettivo. Tisane, Aulin, arti bloccati, bocca impastata, litri di latte. Che depura l’organismo, che disintossica. Ottavo posto finale a 14 punti dalla Samp campione d’Italia. Careca, Maradona, Zola e appena 37 reti segnate, una in più del Pisa terz’ultimo. Conseguenza naturale dello scudetto vinto l’anno prima. Un campionato dominato, il Pibe de oro nel suo massimo splendore e il San Paolo inviolato per tutta la stagione. Il risveglio è triste. È il demonio che offre la mela alla divinità e la fa riscoprire umana. Sola, debole, fragile. Mauro una volta a Sky disse: “Quell’anno Maradona venne sì e no tre volte agli allenamenti”.
Succede a marzo dopo la sfida contro il Bari. Maradona, il Dio, viene trovato positivo all’anti-doping. Cocaina. Eh già. Che ne facesse uso la squadra lo sapeva, ma ora che la cosa è di dominio pubblico è una bella seccatura. Una distrazione, un alibi a volte, per giustificare qualche sconfitta di troppo, per dire ai tifosi che quest’anno, ci dispiace, la lotta scudetto non ci riguarda.
E allora va a finire che il Napoli perde, pareggia e fino a febbraio praticamente non vince mai. È umiliata dai futuri campioni: 4 a 1 sia all’andata che al ritorno. La retrocessione è una concreta possibilità. Serve una svolta, un gesto rivoluzionario e coraggioso. Ci pensa la società prima e Bigon dopo. Maradona se ne deve andare, si prenda una pausa, una vacanza. Ma sì, vada in Argentina. Non c’è più l’alibi. La squadra reagisce e disputa un girone di ritorno sui livelli dell’anno precedente. Trascinata da un giovane Gianfranco Zola, non perde più una partita.
È la fine di un ciclo. I sei gol segnati Maradona nel 1991 sono gli ultimi nella città che più di tutte l’ha amato.
L’avventura in Coppa dei Campioni termina al primo turno contro lo Spartak Mosca (sconfitta ai rigori). A fine stagione lasciano anche il direttore generale Moggi e l’allenatore Bigon. Ci vorrà De Laurentis per far tornare il Napoli ai vertici del calcio italiano. Sarà un lungo purgatorio, con annate passate anche tra i gironi infernali della terza serie. Il prezzo da pagare per aver trasformato un Dio in un essere umano. La collera degli Dei sul Golfo di Napoli. Una punizione esemplare.

2. Leeds United 1992/93

Quella del Leeds è una storia tormentata. Negli anni ’70, sotto la guida di Don Revie, era la squadra più forte d’Inghilterra. Lottava costantemente per il titolo. Vinceva, perdeva, ma per lo più vinceva. Rappresentava il campionato inglese all’estero, alimentava la nazionale dei migliori elementi. Poi il declino negli anni ’80 e la rinascita nei primi anni ’90. La squadra che vinse il campionato nel 1991–92 con quattro punti di vantaggio sul Manchester United era una macchina perfetta. Miglior attacco, miglior difesa e una media di 2.00 gol a partita. Due nomi su tutti: l’allenatore Howard Wilkinson e il centravanti Eric Cantona, lo Zlatan Ibrahimovic degli anni 90. Difendiamo compatti e poi diamo la palla a Eric, che tanto qualcosa succede.
Cantona. Colletto alzato, schiena dritta. Un leader, tutti gli avversari lo rispettano. È una doppia razione di vodka Redbull, un concerto degli Iron Maiden sparato nelle vene. Sta a Leeds un anno, giusto il tempo di vincere il titolo, poi se ne va al Manchester United e il Manchester torna padrone della Premier, mentre il Leeds United, rimasto identico per dieci undicesimi, rischia perfino di retrocedere in Championship (saranno solo due i punti di distacco dal Crystal Palace, terz’ultimo).
La domanda è scontata: come può un solo giocatore essere tanto determinante? Privo di Cantona il Leeds accumula 33 punti di distacco dal Manchester United. 15 sconfitte. 62 gol subiti al pari del Nottingham ultimo in classifica e l’eliminazione dalla Coppa dei Campioni al secondo turno per mano dei Rangers di Glasgow.
Si salva solo Lee Champman che segna 14 gol. Il resto è una crisi che non avrà più fine. Retrocessione, fallimento, Cellino, pochi investimenti, tanti whisky e una sana botta di nostalgia.
Cantona diventerà la superstar dello United e conquisterà quattro titoli in cinque anni. Prenderà anche a calci un tifoso e a 30 anni appenderà le scarpette al chiodo. Oggi fa un po’ quel che vuole. Regista, attore, allenatore di vecchie glorie, spot con la Nike. In Inghilterra non c’è più stato un giocatore tanto decisivo.

3. Stoccarda 1992/93

La fallimentare stagione dello Stoccarda — campione di Germania un anno prima dopo un estenuante testa a testa contro il Borussia Dortmund — si può sintetizzare nel doppio confronto di Coppa dei Campioni contro il Leeds United (proprio quello che chiuderà diciassettesimo).
Primo turno. All’andata la squadra di Christoph Daum (tenete a mente questo nome) s’impone per 3 a 0. Grande prestazione. Slobodan Dubajic — Thomas Strunz (proprio lui, l’amico del Trap) — Ludwig Kogl — Andreas Buck — Fritz Walter. Daum attua un calcio pragmatico. Tutti dietro la linea della palla e poi via, come frecce, negli spazi. Fisicamente quello Stoccarda è il classico cliché di come sono fatti gli uomini in Germania. Tecnicamente modesti, intimoriscono gli avversari: calcetti, pugni a palla lontana, interventi sporchi, mischie stile rugby, dedizione assoluta sui calci piazzati. Ricorda un po’ l’Atletico Madrid di Simeone, anche se gli spagnoli hanno molta più qualità.
Il ritorno a Elland road sembra una formalità. Non lo è. Il Leeds disputa la miglior partita dell’anno e vince per 4 a 1. C’è un gol segnato in trasferta, però. A passare dovrebbe essere lo Stoccarda. Condizionale d’obbligo, perché non sarà così. Colpa di Daum che ha sbagliato una semplice operazione matematica, mandando in campo 4 stranieri. Irregolarità, il limite consentito è di 3. Partita data a tavolino al Leeds. 3 a 0. Parità assoluta. C’è bisogno dello spareggio.
Si torna in campo sul neutro di Barcellona per la bella. Lo Stoccarda picchia, spinge, conquista angoli e punizioni ma il quarantenne John Lukic para tutto e tiene a galla il Leeds. Finisce 2 a 1 per gli inglesi. Christoph Daum viene licenziato la mattina successiva. La stampa inglese lo soprannomina “Dumb” (stupido). Per lo Stoccarda è l’inizio della discesa.
Terminerà la stagione al settimo posto, fuori dalle coppe, con uno svantaggio di 12 punti dalla testa. Fritz Walter, che l’anno prima aveva trascinato i biancorossi al quarto titolo con 22 gol in 34 partite, si ferma a quota 13.
Nel 1997 Daum viene trovato positivo alla cocaina. È l’allenatore del Leverkusen, con il quale aveva ottenuto tre secondi posti di fila. Va via dalla Germania. Besiktas, Austria Vienna — dove vince il titolo — Fenerbache, altri due titoli in tre stagioni, quindi il ritorno in patria nel 2006. Seconda divisione. Colonia. Promozione in Bundesliga due anni più tardi. Allena ancora. Vaga tra Turchia e Germania. Recentemente è stato visto dalle parti di Francoforte. Ha vinto titoli praticamente in tutte le squadre in cui è stato, ma nessuno lo conosce, tranne i turchi, i tifosi dell’Austria Vienna e gli inglesi. Dumb, lo stupido.

4. Real Madrid 1995/96

Se ti chiami Real Madrid o Barcellona fallire significa chiudere la stagione al secondo posto. Quel Real fa peggio: sesto posto, fuori dall’Europa con uno svantaggio di diciassette punti dall’Atletico Madrid campione di Spagna e dieci dal Barcellona terzo in classifica. Lorenzo Sanz, subentrato a novembre a Roman Mendoza, attuerà una rivoluzione che porterà Fabio Capello a vincere il campionato successivo e Jupp Heynckess la Champions del 1997–98. Amsterdam Arena, Mijatovic, le lacrime dei tifosi della Juventus.
È una stagione nera, quella del ’96. Le cause sono molteplici: Ivan Zamorano (28 gol l’anno prima) non segna più; infortuni, un paio di litigi con Valdano, di nuovo infortuni; Valdano perde il controllo di uno spogliatoio rovente — Hierro, Redondo, Laudrup, Luis Enrique, un giovane Raul — dopo l’eliminazione ai quarti di Coppa dei Campioni per mano della Juventus. La squadra gli volta le spalle. Perde punti. Scende in classifica. Sanz esonera Valdano e chiama Arsenio Iglesias; inutile, nello spogliatoio ognuno fa quello che vuole. Non è un caso che nell’estate del 96 verrà chiamato un sergente come Capello. Porterà disciplina e, grazie all’innesto di giocatori del calibro di Suker, Mijatovic, Seedorf, Roberto Carlos, tornerà a vincere la Liga.

5. Blackburn Rovers 1995 /96

La storia dei Rovers somiglia a quella del Leicester di Ranieri. Il magnate Jack Walker acquista il club alla fine degli anni ’80 e nel 1992 porta la squadra in prima divisione. Il manager è una leggenda del Liverpool: Kenny Dalglish. Da calciatore prima e allenatore poi ha vinto di tutto: otto campionati (tra il 1979 e il 1990), due Coppe d’Inghilterra, quattro Coppe di lega, tre Coppe dei Campioni, una Supercoppa Europa. Che cosa c’entra, però, con i Blackburn Rovers? È il 1991. Il Liverpool è in testa alla classifica con 3 punti di vantaggio sull’Arsenal. Mancano dodici partite alla fine, un ultimo sforzo, ma Kenny Dalglish è stressato, ha bisogno di riposo, la salute è importante, così decide di lasciare. Vincerà l’Arsenal e i reds arriveranno secondi.
Lontano dal campo Dalglish non riesce a stare e a novembre si lascia convincere dalle sterline dell’ambizioso Jack Walker. Prende i Rovers all’undicesimo posto della seconda divisione, va ai play-off e li vince.
Il primo anno in Premier arriva quarto. L’anno dopo secondo. L’anno dopo ancora primo. Campione d’Inghilterra. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. La squadra è piena di talento: Tim Sherwood, David Batty, Colin Hendry, Graeme Le Saux, Chris Sutton e soprattutto Alan Shearer. Nella stagione del titolo segna 34 reti in 42 partite. È una storia che somiglia anche a quella di Brian Clough con il Derby County. Per chi volesse approfondire, ma anche a chi piace leggere buoni libri, basta comprare una copia di Maledetto United, scritto da David Peace. Storie romantiche, di provinciali che salgono in Prima divisione e nel giro di pochi anni vincono il titolo. Delle volte succede in Premier. A pensarci bene succede solo lì. Negli ultimi 30 anni mai in Italia e Spagna. Una volta in Germania con il Kaiserslautern.
L’anno della conferma, poi, qualcosa si rompe, come se si fosse appena terminata una maratona. Gambe pesanti, testa svuotata. Con quattro sconfitte nelle prime sei giornate, i Rovers termineranno sesti a 21 punti dal Manchester United campione e fuori dalle Coppe Europee. Male anche il cammino in Champions League. 4 punti in un girone modesto contro Spartak Mosca, Legia Varsavia e Rosenborg. Eppure la squadra era la stessa di un anno prima. E allora che cosa era successo? La risposta è semplice: Kenny Dalglish, maledetto stress, in estate aveva deciso di diventare direttore sportivo del club e la squadra era stata affidata al suo vice, Roy Harford. Poi qualcuno continua a dire che gli allenatori non contano e che in campo vanno i giocatori. A fine 1996 Alan Shearer — che quell’anno i suoi 31 gol li aveva comunque portati a casa — viene ceduto al Newcastle. Lo seguirà lo stesso Dalglish (14 gennaio 1997) che fuori dal campo non riesce proprio a prendere pace. Il primo anno con i Magpies non vince il titolo per la differenza reti, mentre l’anno successivo terminerà con un anonimo undicesimo posto.

6. Milan 1996/97

È l’anno del dopo Capello. È l’anno zero. Arrivato nel ’91 per sostituire Sacchi, in cinque anni Don Fabio conquista 4 scudetti (di cui tre di fila), tre finali di Champions League di cui una vinta (nel 94, 4 a 0 al Barcellona di Cruyff) e due perse (entrambe per 1 a 0, contro Marsiglia e Ajax). Baresi, Costacurta, Maldini, Tassotti, Panucci, Desailly, Albertini, Savicevic, Boban, Weah, Roberto Baggio, Simone. Ci sono tutti nell’estate del ’96, ma senza il loro guru sembrano aver dimenticato come si giochi a calcio. Oppure la colpa è di Oscar Washington Tabarez, un nome che è una leggenda in Uruguay, un flop clamoroso in Italia. Ha idee estremiste. Gioca un 4–2–3–1 con una linea difensiva altissima. Pretende l’impossibile dagli esterni d’attacco. Da Boban, Baggio, Weah, gente non proprio abituata a ripiegare in difesa. Lascia i due centrali di centrocampo (spesso Albertini e Desailly) in inferiorità numerica. Il suo italiano è elementare. Il gruppo non lo capisce, non lo ascolta. Chi sei tu? Noi abbiamo vinto tutto. Tu invece? Noi decidiamo come giocare, che cosa fare. Quel Milan perde ovunque. La Supercoppa italiana contro la Fiorentina. La Coppa Italia contro il Vicenza (quello di Guidolin, Luiso, Di Carlo che poi vincerà la Coppa). Perde punti dalla Juventus capolista, esce ai gironi di Champions League dietro Porto e Rosenborg, davanti solo al Goteborg. A dicembre, undicesima giornata, perde anche 3 a 2 a Piacenza. Berlusconi ne ha abbastanza. Via l’uruguaiano. Ritorna Sacchi. Ma la stagione ha preso una brutta piega. Si salvano solo Weah (16 gol) e Marco Simone (10). Il Milan termina undicesimo. A 22 punti dalla Juventus. A +6 dalla zona retrocessione. È la peggior annata di sempre dell’era Berlusconi. A fine stagione dopo 20 e 16 anni, lasciano Baresi e Tassotti. Qualcuno parla della fine di un’epoca. Urge una rifondazione. Ci sarà, ma durerà due anni. Alberto Zaccheroni e Oliver Bierhoff. Il 3–4–3 e la conquista del sedicesimo scudetto.

7. Valencia 2004/05

Qui c’entra Caludio Ranieri e lo stereotipo che noi italiani, lontano da casa, da mamma e dagli amici, non rendiamo al meglio. Questa è la storia di un italian job miseramente fallito. Ma andiamo con ordine.
In principio fu Rafa Benitez. Giovane tecnico con idee d’avanguardia. Costruisce una squadra perfetta. Vince il titolo e la Coppa Uefa. Marchena — Ayala — Vicente — Baraja — Aimar — Angulo e il bomber Mista. E’ un 4–2–3–1 che anticipa di dieci anni quello che poi si vedrà nei principali campionati d’Europa. I terzini sono ali mascherate. I due playmaker davanti alla difesa sono incontristi e registi. Le ali d’attacco tagliano e sfruttano la sponda dell’attaccante centrale. Il trequartista si muove a tutto campo e crea superiorità numerica. Non esistono posizioni in campo. Tutti attaccano, tutti difendono, con ordine e dedizione. Forse il limite di Benitez, negli anni, è di non essere riuscito a evolvere questo sistema di gioco, facendolo risultare prevedibile. Questa però è una stagione trionfale. Vicente e Mista liquidano la pratica Marsiglia in finale di Coppa Uefa. Arrivano soldi, Benitez cerca una nuova sfida, va a Liverpool e si conferma uno dei migliori allenatori d’Europa portando i Reds alla conquista della Champions League (la notte di Istanbul), il Valencia chiama Claudio Ranieri, esonerato dal primo Chelsea di Abramovich.
In questi casi — il primo anno di Allegri dopo Conte insegna — bisognerebbe non toccare troppo la squadra, soprattutto se la squadra ha appena vinto campionato e Coppa Uefa. Invece, abbagliato dai milioni di euro che gli mette e disposizione la società, Ranieri effettua una rivoluzione e compra alcuni dei migliori calciatori italiani di quel periodo. Bernardo Corradi, Stefano Fiore, Marco Di Vaio, Emiliano Moretti. Lo spogliatoio si spacca. Da una parte i fedelissimi di Benitez, dall’altra gli italiani e quelli che con Benitez non giocavano mai. Ranieri esonerato a febbraio dopo l’eliminazione dalla Coppa Uefa per mano dello Steaua Bucarest. Settimo posto a 26 punti dal Barcellona campione. Eppure la vittoria in Supercoppa, ad agosto, 2 a 1 al Porto lasciava ben sperare.
Male anche il cammino in Champions League: terzo posto nel girone alle spalle di Inter e Werder Brema, con un umiliante 5 a 1 subito al Mestalla dai nerazzurri.

8. Wolfsburg 2009/10

Dopo l’exploit dell’anno precedente, il Wolfsburg torna sulla terra e chiude con un dignitoso ottavo posto a 20 punti dal Bayern campione. Che cosa era successo un anno prima? Semplice: in panchina c’era Felix Magath. Nulla di rivoluzionario, ma un allenatore concreto, capace di capire quali erano i punti forti della squadra e puntare su questi. Senza inventarsi niente. Piazzando i giocatori al proprio posto. E il Wolsfburg era una squadra piena di talento. Soprattutto in avanti, con Misimovic alle spalle del duo Grafite — Dzeko. Duo devastante. 28 gol il primo. 26 il secondo. Dietro di loro tanti operai: il brasiliano Josué e il giapponese Hasebe a centrocampo; Ricardo Costa, Madlung, Barzagli in difesa. Fu una stagione magica, 10 vittorie di fila e uno storico 5 a 1 rifilato al Bayern Monaco. Poi inizia un nuovo anno e l’alchimia svanisce. Magath lascia, lo Shalke 04 è una sfida troppo stimolante da non cogliere. Armin Veh non si rivela all’altezza. Calano soprattutto i gol di Grafite — ne mette a segno solo 11 — mentre Dzeko ne fa 4 in meno di un anno prima. Tre sconfitte nelle prime cinque giornate, tra cui un umiliante 4 a 2 in casa contro l’Amburgo, fanno precipitare la squadra in fondo alla classifica. L’ottavo posto finale, per come si era messa, è una specie di miracolo.

9. Manchester United 2013/14

Questa storia è recente. È l’anno zero dello United. È il post-Alex Ferguson. È David Moyes che in estate spende più di trenta milioni di sterline per Fellaini. È l’anno in cui l’altra sponda di Manchester ti rifila 7 gol in due partite, 22 punti in classifica e vince il titolo. In cui lo United si ritrova ad affrontare i problemi di tutti i club del mondo, quello del rapporto spogliatoio-allenatore. È il giorno dopo la scomparsa di un genitore. Non si può pretendere di essere brillanti, di nuovo vincenti. È uno shock. Un tunnel dal quale, ancora oggi, lo United non riesce a uscire.

Articolo a cura di Francesco Aquino

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