La classe dei diplomati del 2006

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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11 min readJul 9, 2016

Sono passati 10 anni da quel 9 luglio 2006, da quando molte delle nostre vite (e soprattutto adolescenze) sono state definite da quella sera e da quel Mondiale tedesco. Abbiamo voluto ripercorrere alcune tappe, per capire se i segni di quegli eventi sono ancora freschi sulla pelle. Enjoy.

Jugband Blues (SV)

Ricordo ancora i miei ventun anni come un unicum, uno dei rari periodi in cui riuscii a sublimare la solitudine notturna dei rientri a casa e a trasformarla in raccoglimento produttivo. Le partite in piazza, al Circo Massimo, a casa di amici, a casa dei vicini, scandivano il ritmo di una sessione estiva calda e malinconica. Ricordo che pensai che sarebbe stato bello se Maldini fosse stato presente, come omaggio alla sua carriera in azzurro, e altrettanto bello se Vieri si fosse tenuto in forma per reclamare il suo posto tra i compagni di una vita. Ricordo che i pensieri sul dopo-Calciopoli li facevo, ma erano di altra natura, quella che attendevo era l’evoluzione della squadra di incompiuti che avevo tifato tanto, e senza successo, dal ’98 al 2004. Non era una questione patriottica né di sicurezza nazionale, era una squadra che era stata mia abbastanza a lungo perché me ne importasse. Ricordo anche che vidi ognuno degli incontri in un posto diverso, come per non farmi raggiungere da nessun tipo di tenebra finché non fosse definitivamente notte. La finale contro la Francia, i rigori, la notte in bianco, i festeggiamenti e il bagno nella fontana, poi, mi misero a letto l’indomani mattina, rimboccandomi il lenzuolo davanti a un ventilatore spavaldo. Ricordo che mi feci coccolare dal pensiero di aver scampato la solitudine, esonerato dall’inquietudine in quanto fresco campione del mondo, per associazione.

Poi mi svegliai, 10 luglio, non erano passate neanche 24 ore quando arrivò la notizia, e d’improvviso il fatto di essere andato al Circo Massimo canticchiando ‘See Emily play”, in occasione di Italia-Germania, assunse un significato del tutto diverso. Quando la notizia arrivò alle mie mani queste non avevano ancora imparato correttamente gli accordi di Emily, nonostante ci provassero da anni.

Syd Barrett era morto.

Era morto due giorni prima della finale, ma la notizia era stata diffusa solo tre giorni dopo il reale decesso. Era morto il diamante matto, a furia di continuare a risplendere. Stavolta davvero, per smentire le leggende urbane che lo volevano già sparito da qualunque posto che non fosse la nostra nostalgia lisergica. Avevo sempre pensato a lui come alla quintessenza della solitudine, in fondo era quello tra i Pink Floyd in cui era più facile imemdesimarsi, in quanto non c’era in Dark Side of The Moon, non c’era in Animals, non c’era in Meddle, né in The Wall. Syd Barrett non c’era, perché era diventato solitudine. E d’improvviso mi tornò alla mente tutto ciò che poteva essere e non era stato, tutto ciò che non era andato, tutto ciò che avevo ignorato, narcotizzato, strimpellato, dimenticato.

Tutti scindono il periodo Syd dal periodo Gilmour come se le band fossero due e i percorsi distinti. Sbagliano, i Pink Floyd furono la squadra di calcetto che avevo sempre sognato in quello spazio tra il sonno e la veglia che fu A Saucerful of Secrets, con le chitarre di ‘Set the controls for the heart of the sun’, la slide guitar di ‘Remember a day’ e l’inno solare e disperato che da quel giorno feci mio. In barba alla gioia Mondiale, all’indomani della finale l’unico po po po po che intonai fu quello dei fiati scoordinati di Jugband Blues, e delle sue parole che conoscevano tanto bene sia me che i miei giorni a venire.

I don’t care if the sun don’t shine,

And I don’t care if nothing is mine,

And I don’t care if I’m nervous with you,

I’ll do my loving in the winter

Genesi di un canto nazionalpopolare (VC)

In principio furono i belgi. Anzi, gli stabiesi. No, i perugini. La disputa su chi abbia avuto per primo l’idea di adattare “Seven nation army” dei White Stripes a coro da stadio non si è mai chiusa e in fondo nulla vieta che diverse tifoserie lo abbiano fatto indipendentemente. Ma la colonna sonora del Mondiale 2006 ha una derivazione ben precisa: nasce a Milano da un gruppo di tifosi del Bruges e passando per Roma arriva in tutta Italia.

La leggenda vuole che prima di un Milan-Club Brugge del 2003 alcuni belgi in trasferta ascoltarono l’ipnotizzante riff di Jack White in un bar milanese e lo fecero proprio. Dentro lo stadio il motivo fu riproposto e, complice l’inaspettata vittoria del Brugge, l’importazione in patria del nuovo coro fu facile. Quei tifosi non sapevano di aver inventato il nuovo inno del calcio mondiale. I milanisti a San Siro non immaginavano che tre anni dopo avrebbero cantato quella canzone per tutta l’estate.

A riportare il coro in Italia fu Simone Perrotta. In realtà furono i tifosi che seguirono la Roma a Bruges ai sedicesimi di Coppa UEFA 2006, ma senza il goal vittoria dell’anglo-calabrese non avrebbero mai potuto sbeffeggiare i belgi copiandogli la canzone. Era il 15 febbraio del 2006 e la Roma spallettiana era giunta alla nona delle undici vittorie che segnarono quella stagione. Complice anche in questo caso la vittoria in trasferta, nonché il grandioso momento che stava attraversando la Roma, il coro-loop ebbe rapida fortuna nell’ambiente giallorosso, sconfinando presto dalla Curva Sud per divenire patrimonio comune del romanismo.

Ogni volta che sento il Po po po avverto una punta di irriverenza verso gli sconfitti: non so se sia insita nel motivetto o sia dovuta alla circostanza che ne vide la diffusione a Roma. Sta di fatto che sulle sponde del Tevere le note dei White Stripes trovarono presto un verso ottonario pronto a corredarle e completarle: bian-co-az-zur-ro-bas-tar-do. Con tutti gli sfottò, le lamentele, le note sul registro, le chat di MSN e gli scherzi in radio del caso.

Veniamo alla ribalta nazionale. Questa fu raggiunta dal neonato coro il 28 febbraio del 2006 a Sanremo. Quale contesto migliore del Festival della Canzone Italiana? Insulso, sciovinista, ripetitivo, melenso, superficiale, demagogico, dozzinale. Eppure generalmente riconosciuto e seguito, proprio come quel ripetitivo coro. Fu dalle prime file del Teatro Ariston che Francesco Totti si esibì in una ridicola quanto celebre storpiatura del canto da stadio e sancì la sua metamorfosi definitiva in cantilena nazionalpopolare.

Ora riguardalo facendo caso solo alla faccia di Ilary.

A maggio Totti replicò la performance in radio da Fiorello, arricchendola però con la frase sui laziali. Seguirono fiumi di scuse, ma il dado era tratto: il Po po po era un affare nazionale. Da lì a Italia-Ghana il passo fu breve: dallo stadio di Hannover si alzò il coro che accompagnò gli Azzurri fino alla vittoria. “A seven nation army couldn’t hold me back” fu presa come un’esatta profezia: sette nazionali sono quelle che batte chi vince il mondiale.

Cosa era scattato tra maggio e giugno è difficile dirlo: probabilmente alla diffusione del coro avevano contribuito anche i numerosi remix che circolarono per le discoteche di tutta Italia. Ancor più massiva fu la sua diffusione post-Mondiale: un esercito di adolescenti invase le mete turistiche italiane ed europee cantando il Po po po. E così, fra un falò in spiaggia e una serata house, per un anno parecchi italiani si sentirono invincibili.

Oggi è difficile trovare una nazione occidentale o uno sport di squadra in cui non si sia cantato il Po po po. Lo hanno cantato i bavaresi dopo aver vinto la Champions contro il Borussia, lo hanno diffuso gli altoparlanti di tutti gli Europei dal 2008 a oggi, lo cantano gli inglesi (ma lì è Duh duh duh), lo cantano a Madrid, lo cantano in Australia. Lo cantano i tifosi dei Baltimore Ravens in NFL e quelli dei Miami Heat in NBA. Lo cantano di nuovo gli italiani a Brasile 2014.

Insomma, sono passati dieci anni dalla sua consacrazione e il Po po po del 2006 è passato da coro di curva a inno nazionale, per poi essere universalmente riconosciuto come canto di vittoria nello sport. Mentre scrivevo questo pezzo, Griezmann ha segnato i due goal che portano la Francia in finale di Euro 2016: dal Velodrome si è alzato per due volte il Po po po. Per dire, bisogna volersi proprio male.

Respirare l’aria Mondiale (MM)

Il fatto che il 10 luglio 2006, appena atterrata da Berlino, la nazionale italiana avrebbe festeggiato il successo Mondiale al Circo Massimo non mi convinceva troppo, anche se ero diretta lì come tutti, io per applaudire il mio trio di tifosa giallorossa Totti-De Rossi-Perrotta neocampione del Mondo. Cinque anni prima, al Circo Massimo, avevamo festeggiato lo scudetto della Roma e temevo che nell’immaginario collettivo, soprattutto dei più giovani, la festa nuova si sarebbe sovrapposta alla vecchia, avrebbe — in qualche modo — costruito delle immagini sulle precedenti; che — in altre parole — in quell’area archeologica concava ed emozionante come il palmo di una mano aperta, un giorno ci sarebbe stato bisogno di fare dell’archeologia emotiva per disseppellire quei ricordi che — almeno per me — contavano più del presente, e già mi vedevo dire a un immaginario qualcun altro: “Qui nel 2006 arrivò il pullman con l’Italia campione, ma cinque anni prima…”.

Io però, quel 10 luglio, al Circo Massimo non ci sono mai arrivata. Caduta svenuta sull’autobus mentre mancavano cinque minuti alla fermata e alla marea azzurra, ai po-poropopopopo e alle trombette (le vuvuzela sarebbero arrivate col Sudafrica quattro anni dopo). Seguono nel giro di due ore: febbre alta, dolori al petto, pronto soccorso, diagnosi di polmonite, allergia ai farmaci con cui viene comunemente curata la polmonite, ricovero di dieci giorni in clinica, cancellazione della partenza con fidanzato per le vacanze (anzi, mia sostituzione con amico comune, loro partiti), persi i giorni delle bandiere fuori e delle feste.

La finale del 9 luglio 2006 l’avevo seguita al maxischermo di Testaccio, in piazza Santa Maria Liberatrice. Rimasta immobile, anche mentre la pioggia veniva giù e veniva giù bene. L’idea romantica di essermi presa una polmonite per guardare una partita di calcio in piazza sotto alla pioggia non m’ha mai abbandonato, nonostante la consapevolezza del fatto che la polmonite non esplode in una notte e che forse erano stati più determinanti gli ultimi due mesi di università al gelo dell’aria condizionata e alla nostra voglia giovane di non coprirci troppo.

Sono passati dieci anni, passo al Circo Massimo ogni giorno un paio di volte. Se mi fermo a pensare al passato, penso solo al 2001. Oppure penso il cumulo di numeri de “Il Corriere dello Sport” sul letto della clinica, il Meridiano Mondadori di Domenico Rea che leggevo durante il ricovero, un fidanzato in vacanza, io giovane, io campionessa del mondo come tutti ma con moderazione e una mia scala di priorità, io in via di guarigione.

La mia lastra ai polmoni fu portata a un congresso internazionale, a causa “della sua formazione atipica”. Formazione. Immagino ancora un Fabio Grosso correre sulla fascia dei miei bronchi con le braccia spalancate. Io quel Mondiale l’ho respirato.

Pippo non te la passa (GA)

Ogni spedizione che rispetti — a un Mondiale o Europeo che sia — ha dei protagonisti. Nel caso dei ragazzi del 2006, i nomi sono ben chiari nella testa di tutti. Chi lo è stato a causa del suo nome e della sua importanza (Buffon, Cannavaro, Toni, etc.) e chi lo è diventato lungo il percorso (Grosso, Perrotta, Zambrotta, etc.).

Poi però ci sono anche i gregari, il supporting cast che è comunque fondamentale in ogni gruppo. Basterebbe anche l’ultima Germania campione del Mondo a dimostrarlo: i venti minuti giocati da Kramer prima che si scontrasse con Garay e dimenticasse la finale del Mondiale sono rimasti nella testa di tutti (tranne la sua).

Devo escludere i due portieri di riserva, che comunque sono Angelo Peruzzi (monumento) e Marco Amelia (e qui mi prenderei un attimo per sottolineare che un giocatore del LIVORNO è diventato campione del Mondo). Ma chi compone questo manipolo di sconosciuti, quasi arrivati per caso a vincere un Mondiale giocando solo qualche minuto?

Non possiamo includervi Cristian Zaccardo, che comunque è partito titolare nelle prime due gare di quel Mondiale, anche se molti avranno rimosso. Daniele De Rossi ha sì giocato la finale e i primi due match, ma in mezzo c’è la gomitata a McBride e i quattro turni di squalifica, che non gli hanno permesso di farsi vedere molto nel suo primo torneo internazionale con l’Italia. Tuttavia, è sempre nel novero dei rigoristi. E che dire di Vincenzo Iaquinta? Era partito da sesta punta, ma ha giocato in cinque delle sette partite di quel Mondiale (compresa la finale).

E allora lo sguardo va rivolto altrove, a quattro unsung heroes. Ragazzi che in quel Mondiale giocarono qualche minuto, ma che tutto sommato non sono i primi che ti vengono in mente quando ricordi chi alzato quella coppa nel 2006.

Talmente è iconico quel mancato assist di Inzaghi a Barone che persino Netflix Italia ha sentito il dovere di ricordarlo. E mai avrei pensato di vedere Simone Barone in una pubblicità di Netflix.

Uno ha probabilmente giocato le ultime gare in nazionale durante quest’Europeo: Andrea Barzagli all’epoca era un giovane difensore in crescita, con i colori rosanero addosso e svezzato da Lippi in nazionale. Non aveva praticamente chance di giocare: davanti c’erano Nesta, Cannavaro e Materazzi. L’infortunio di Nesta contro la Repubblica Ceca lo mette sull’attenti, finché l’espulsione rimediata da Materazzi contro l’Australia non lo costringe all’entrata in campo. Lui se la cava alla grande anche contro l’Ucraina e si guadagna credito da usare nei successivi anni.

Chi invece è rimasto forse indelebile nella mente di tutti è Simone Barone. Due i motivi. Il primo è il fatto che quel Mondiale rappresenta il punto più alto della sua carriera. In quegli anni, Barone è un centrocampista in crescita, capace di segnare gol così con il Palermo. Lippi lo chiama dopo averlo considerato durante tutta la sua gestione e le 16 presenze di Barone sono soprattutto sotto Lippi. Il secondo è la sua corsa (inutile) contro la Repubblica Ceca, con Inzaghi che sembra aspettarlo, ma Pippo non te la passa.

L’ultimo di questo quartetto eccellente è Massimo Oddo, che ha giocato un quarto d’ora in un quarto di finale già chiuso contro l’Ucraina, diventando così l’ultimo giocatore di movimento di quella nazionale a scendere in campo nel 2006. Anche lui viene ricordato per due cose: il taglio di capelli a Camoranesi dopo la finale e la palese ubriacatura con la quale si presenta alle telecamere in quel di Berlino.

Inviato speciale a Berlino (MJ)

Minuto 105 di Italia-Francia. L’arbitro argentino Elizondo ha appena fischiato la fine del primo tempo supplementare. Io mi trovo in uno stato di trance mista a tensione dalle ore 17.00, l’ora in cui ho messo piede nella Westkurve dell’Olypiastadion. Sono passate più di cinque ore. Sono al limite, non reggo.

Dico al mio compagno di viaggio: “Luca, io vado a prendere qualcosa da bere”. Silenzio. Occhi sbarrati. Incredulo per la mia affermazione, lui balbetta una sola parola: “Adesso?”. “Si, adesso. Io sto male. Se continua così non arrivo alla fine. Io vado. Ciao”.

Prendo e con indosso la maglietta azzurra n.10 mi alzo dalla fila 19 posto 13 — numeri che non dimenticherò mai — e salgo tutte le scale dell’Olympiastadion verso il bar posto alla fine del primo anello. Spalle al campo. Sì esatto, l’Italia si sta giocando il Mondiale e io sto andando al bar. Passo i successivi 15 minuti dietro al bancone, tra la porta di servizio e una piccola grata aperta su Olympischer Platz, con in mano due birre e fumando quattro sigarette di seguito. Il rischio che un enorme steward dello stadio mi cacci è dietro l’angolo. Ma non mi interessa. Se non fumo e mi tolgo di dosso un po’ di tensione, non arrivo vivo al 120’.

Il secondo tempo non lo vedo, come non vedo l’espulsione di Zidane. D’altronde lo spicchio azzurro dello stadio non aveva esultato, non aveva rumoreggiato così tanto da attirare la mia attenzione. Solo dopo capii che nessuno aveva davvero compreso cosa fosse successo in campo. Il triplice fischio di Elizondo però lo sento: è chiaro, è finita. Ora tra noi e la Coppa ci sono solo i rigori. Posso tornare al mio posto.

Il resto è storia. Grosso segna il rigore. Io e Luca ci abbracciamo, piangiamo per cinque minuti consecutivi e le parole finiscono qui. Mai nessuna frase fu più azzeccata di quella di Fabio Caressa alla fine della partita: “Abbracciamoci forte, e vogliamoci tanto bene; vogliamoci tanto bene. Perché abbiamo vinto, abbiamo vinto tutti stasera. Guardate dove siete, perché non ve lo dimenticherete mai!”. E dire che aveva ragione Fabio è ridondante, ma non per questo meno veritiero.

Articolo a cura di Gabriele Anello, Valerio Curcio, Marco Juric, Michela Monferrini e Simone Vacatello

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