La copia masterizzata dell’album di Lalas e altri cimeli incredibili

ale fabi
Crampi Sportivi
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9 min readJun 29, 2017

Abbiamo deciso di scavare tra i più strani cimeli sportivi redazionali. In questa prima tappa si viaggia tra i bicchieri, i portachiavi e i gagliardetti del prode Alessandro Fabi.

1- Bandiera del QPR

Charlie Austin, ai tempi, non scherzava…

Testimonianza della partita di calcio più assurda cui io abbia mai assistito da spettatore. Playoff di Championship 2014, QPR-Derby County, uno Stadio di Wembley (!) che è letteralmente gremito: 90.000 posti assegnati, senza uno spiraglio che sia uno a disposizione. Mi trovo a Londra solo da un mese e mezzo — per giunta “per lavoro” — e grazie a degli amici italiani vengo coinvolto nelle gare più importanti della stagione, sparandomele tutte tra Loftus Road, televisione (le trasferte) e Wembley, per la suddetta finale. Il fatto che il QPR sia in dieci è un dettaglio, così come il fatto che il Derby County ci stia mettendo sotto: piuttosto, il gol che il mio paladino Bobby Zamora segna sotto di me a tempo scaduto sembra tutt’altro che trascurabile. Ho avuto modo di parlarne con la concorrenza e mi scuso per l’autocitazione, ma tant’è: http://www.lacrimediborghetti.com/2014/08/harry-charlie-bobfather-playoff-di.html.

2- Portachiavi con Rafael Van der Vaart in divisa orange

Che stempio, Rafa!

Me lo regala Jonathan, di passaggio a Bologna tra l’Olanda e l’Australia. Due gli elementi fondamentali: Jonathan è un caro amico — nonché un notevole calciofilo — il cui profilo estetico può essere sintetizzato come “un nigeriano con l’accento di Ancona”. Eppure è molto di più, tipo un laureato in scienze statistiche che dal 2009 ha iniziato a girare il mondo e non si è ancora fermato: niente farm, ma facchinaggio; non un kitchen porter, ma un dishwasher; mai bartender, piuttosto guardiano notturno. Era anche quello che a PES ti seviziava psicologicamente, perché tra le righe aveva sempre sofferto le tue prese per il culo per USA ’94. La sua gioia più grande, senz’altro, la vittoria della Coppa d’Africa 2013 a Johannesburg, contro il Burkina Faso. A questo Van der Vaart vestito di arancione e già stempiato, per dire, ho deciso di affidare le chiavi della mia vita: ben più di un semplice souvenir, che — motivo di vanto — preferii saggiamente all’altro portachiavi a disposizione, due zoccoli bianchi con il logo dell’Ajax.

3- Bicchiere del Sankt Pauli

Was dagegen?

Ora, non so bene se sia un bicchiere, una brocca o un decanter in plastica. A parte gli scherzi, è il risultato della mia ventennale amicizia con Andrea, che in uno dei suoi mille viaggi ad Amburgo a salutare il cugino “trapiantato” decide di dotarmi del prezioso cimelio. Mai, nemmeno per sbaglio, ho usato il cimelio per una bevanda che non fosse acqua: il tutto benché — come recita sul retro lo stesso bicchiere — Refugees are welcome. Nella stessa occasione, Andrea mi ha riportato pure un adesivo, di quelli con la faccia del Che su sfondo marrone; dirò soltanto che questo Guevara è finito, per la gioia di alunni e colleghi, sul mio personale Lorenzo Rocci, cui solo da qualche tempo ho affiancato — mio malgrado — il modernissimo (ed efficientissimo) “Montanari”, altrimenti noto tra gli addetti ai lavori come “il GI”.

4- Divisa originale di Adam Masina, stagione 2016–2017 (sponsor ufficiale Macron)

Chiamato — pare — all’anno della svolta, il vecchio Adam.

Se l’amore ha un nome, per me inizia con la Effe. Senza scendere nei dettagli, stiamo parlando di una persona che, pur odiando il calcio, riesce persino a intona motivetti riconducibili all’ambiente della “Bulgarelli”. Della stessa persona che ha visto al mio fianco l’unica doppietta di Destro sotto le torri, quella all’Udinese; della stessa persona che mi ha regalato un I-Pod personalizzato con una scritta tratta da un famosissimo coro che culmina con “impazzisco per teeee”; della stessa persona che, dopo una cena pagata a prezzo fin troppo caro, ci ha ricompensati rubando, con gesto plastico e impercettibile, una gigantesca calamita del BFC che i gestori esponevano incautamente su di una lavagna magnetica all’ingresso. L’operazione-Masina, tanto raffinata quanto profonda, è un regalo che tocca le mie corde più nascoste, nonché la passione per un ragazzo visto “crescere” e incontrato per strada varie volte. Un ragazzo distintosi (marocchino trapiantato a Bologna e “salvato” dalla famiglia adottiva e dal pallone) per aver parlato più volte a cuore aperto del tema immigrazione (“non penso si possa colpevolizzare qualcuno perché va in cerca di un futuro migliore”) e delle proprie passioni per letteratura (in particolare filosofia, da Platone a Schopenhauer) e teatro (“reciterei come attore il monologo di Novecento di Baricco”: https://www.youtube.com/watch?v=E_uVTjwXdqA ).

5- Gagliardetto del San Marino (non la nazionale!), stagione 1996–1997

Un po’ di muffa, nella postazione-computer.

Da piccolo volli fare il giornalista sportivo: colpa di Bruno Pizzul, colpa delle maestre italiane degli anni Novanta, dei loro incoraggiamenti e della loro scarsa fantasia. Bastava, del resto, andare bene nei temi d’italiano. La prima occasione che ebbi — poi non sfruttata, perché non intendevo “svilire” la mia “carriera” — arrivò da un amico dei miei, un avvocato di nome Manlio che era invischiato in alcune vicende calcistiche. Manlio mi fece telefonare da Alessio Pirri, all’epoca passato alla Salernitana dalla Cremonese, per mostrarmi che non scherzava affatto; quando mi chiese di scrivere qualcosa per il suo neonato giornale Sportissimo vacillai. Non ho mai capito che cosa, nei fatti, mi sembrasse svilente: so però che un giorno, qualche tempo prima, avevo comprato Sportissimo perché in allegato c’era “il poster del Real” e io mi ero trovato in mano il poster del Real Montecchio, che aveva vinto il campionato di eccellenza. In ogni caso, quel gagliardetto del San Marino me lo tenni, perché la rocca sullo stemma non era niente male.

6- Doppio autografo Bruno Pizzul / Arrigo Sacchi

“Sportivamente”.

Che nervoso, davvero. Giugno 2003 o 2004, tutte le scuole a teatro: è mattina, c’è un incontro sul tema “i giovani e lo sport”. Dopo alcune parole dell’assessore e di un tizio — forse — della UISP, Arrigo e Bruno si spalleggiano (non scontato il primo, brillantissimo il secondo) sui valori che l’etica sportiva dovrebbe rappresentare. Alla fine, è previsto il dibattito. Alzo la mano, cerco di sporgermi, di farmi vedere: avrei il disperato bisogno di domandare a Bruno come si senta di fronte all’evoluzione delle telecronache, sempre più dinamiche e dettagliate, di cui stiamo beneficiando tra Tele+ e i videogiochi a sfondo calcistico. Ma è una beffa: è tardi, il dibattito è sostanzialmente annullato e la sola persona che abbia accesso a Bruno è nientemeno che un mio coetaneo, noto imitatore da me non particolarmente apprezzato, che vuole semplicemente intervistare Pizzul imitando la voce di Pizzul (almeno uno, in ogni classe d’Italia, ricopriva questo ruolo e diceva “ggolll” un po’ meglio degli altri). La beffa nella beffa è che mi presento con un unico foglio per due firme, e che Arrigo firma il fronte, mentre Bruno firma il retro. Incorniciarli o isolarli, a quel punto, fu impossibile: avrei automaticamente dimezzato il mio bottino.

Arrigo sfida direttamente i paleografi del futuro.

7- Copia masterizzata dell’album da solista di Alexi Lalas

Dai, meglio mettere l’originale.

La rarità di una tiratura si misura da alcuni fattori oggettivi. Se penso che Mattia e Werner, quel pomeriggio, erano insieme, mi viene da ridere. Quando videro il disco di Lalas, in bella mostra su una bancarella, passarono dall’incredulità iniziale alla competizione per accaparrarselo. Lo comprarono “in società”, all’indegna cifra totale di 10 euro (5 a testa), senza mai decidere ufficialmente chi ne sarebbe stato il proprietario. Se penso che il loro affetto nei miei confronti, poi, comportò addirittura una copia masterizzata per il sottoscritto, non posso che commuovermi.

8- Divisa biancorossa della squadra di un centro per malati mentali

Sbizzarrirsi sugli acronimi è il minimo.

Conosco Santo molto bene: è a tutti gli effetti un malato mentale, una persona che nemmeno le più avanzate bombe dell’ultima Levi Montalcini sarebbero riuscite a riportare tra i normali. Dopo vari decenni passati a girare varie strutture, Santo ha trovato qualche annetto di pseudo-stabilità in un posto nel veronese, nel quale è riuscito a imparare qualche lavoro manuale e a non pensare, per qualche secondo all’anno, alle sue ossessioni. Senza un vero motivo — o per una grandiosa coincidenza –, Santo ed io abbiamo sempre avuto un nostro dialogo. Parlavamo grazie al collante più forte che esista: lo sport. Lui juventino, io milanista; entrambi supporters di Valentino Rossi e Scavolini Pesaro: le differenze erano che lui conobbe Sivori e negli anni Sessanta gli strinse la mano, mentre io una volta incontrai Alberto Zaccheroni; che lui aveva tifato — e visto — l’epopea di Dean Garrett, mentre io vidi al massimo Kevin Thompson, sfiorando Magnifico e mancando (per un pelo!) Carlton Myers. Un’estate, prima di partire, Santo mi lasciò una maglietta della squadra di calcio in cui militava ai tempi: bianca e rossa, minimale, non in polyestere ma quasi. Fu un regalo clamoroso: sintesi massima inattesa e proveniente dal cuore. Solo, vedendo il numero 15 stampato sulla schiena, pensai che quegli stronzi, almeno, avrebbero potuto dargli un numero da titolare: dubito che, nonostante i propositi, il suo team fosse in lizza per un posto-Champions.

9- Maglietta celebrativa degli ultras del Cosenza, centenario “ufficiale” 2014

Marulla etc. etc.

Nessuno più di Ruff mi ha spiegato il rap (e in effetti sarebbe Ruff-ness, il nome completo), tra un campione sgamato e la scoperta di Willie Peyote. In pochi, oltre a Ruff, hanno condiviso con me tanto pallone: dalla crisi di un milanismo mai sopito a previsioni sul futuro di Montella, passando per un programma radio co-condotto e due doppiette viste insieme allo stadio: autore della prima fu Mario Balotelli, mattatore a Livorno; autore della seconda fu Rachid Arma, in un Pisa che schierava Morrone come capitano e Giuseppe Giovinco con il 10. Vero è che portai a Ruff, direttamente da Londra, una maglia della nazionale inglese con i tre leoni su sfondo rosso, preferendola (ero a Camden, di corsa) a un inflazionato cappellino del West Ham; vero è anche che, quando mi portò la maglietta del centenario della squadra, altra compagine rossoblù, mi lasciò di sasso. Non sapevo, ai mondiali antirazzisti, quanto quella maglietta mi stesse rendendo trendy e rispettato. “Ah va’,” mi disse un ultras della Bulgarelli “complimenti! Non è da tutti una chicca del genere!”.

10- Divisa fac-simile di Dejan Savicevic, stagione 1995–1996

Grazie alla mamma, che l’ha ritrovata!

Potrei dire che ho quella dello stesso giocatore al Rapid Vienna, o che possiedo Gullit al Chelsea. Ma questo è quanto. Ben prima che il Genio diventasse appannaggio di tutti ed emblema della nostalgia più becera, io me ne innamorai grazie alla Iole, mia baby-sitter dell’epoca. La maglietta, però, me la portò Luigino, postino della mia città e boss del Milan Club che ad ogni natale, in segreto, contattava i miei con il “pacco” regalo. E che oggi non c’è più, ma è come se ci fosse.

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