La guerra etnica

Crampi Sportivi
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3 min readDec 5, 2016

Quando giunge la discordia tra i popoli il segno grafico che meglio le dà carattere è la linea secante, che sia il tracciato sicuro di un solco sulla terra, che sia la vertigine di un fiume dondolante verso mare aperto. Di qua. Di là. Dall’acqua, dall’aria, da ogni pensiero e fede nasca e si moltiplichi sotto quello stesso cielo. E Roma non è da meno, definendo la linea di confine tra Roma e Lazio ben oltre la vicenda d’origine che divise Romolo da Remo.
Eppure, qualche tempo fa, di fronte al sopruso dell’ordine pubblico sul diritto pubblico, ossia la famigerata divisione delle curve da parte della Questura come unico caso in uno stadio d’Italia, sembrava ci fosse spazio per un dialogo oltre la rivalità. Uniti contro un sistema schiacciante, uno slogan praticabile. Almeno finché, dopo un anno e mezzo di sciopero comune, in questo derby d’andata della stagione 2016–17 non accada di avere uno stadio pieno e biancoceleste, mentre i “colleghi” giallorossi decidono di restare fuori dallo stadio. E allora il discorso cambia.

«Il derby per i tifosi non è una ‘battaglia’, ma una ‘guerra etnica’»
Questo il punto numero 5 enunciato a Formello da parte dei 4000 presenti in un allenamento pre derby. Così ci ho pensato su: la rivalità, la discordia… la guerra etnica, etnia cioè stando alla Treccani «raggruppamento umano (dal greco ἔθνος «razza, popolo») distinto da altri sulla base di criteri razziali, linguistici e culturali», mmm… si profilava il momento di riabbracciare le armi per tanto tempo rimaste sopite, i cannoni ammutoliti dalla ruggine, scavare sempre nuove trincee perché una guerra va combattuta fino alla fine.
Ma cominciamo dall’inizio. Io un derby con mio padre, laziale di quelli che hanno fatto tutti gli anni di Serie B per intenderci, non lo vedevo da quando ero ragazzino e rischiai di mandarlo all’ospedale perché la guerra etnica, quella seria, si comincia in famiglia (oh non l’ho fatto apposta non cominciamo). Di fronte a una nuova chiamata alle armi non potevamo esimerci dal prendere di nuovo posto sul fronte più scoperto che si possa: casa nostra.

Per rispetto della recente tradizione, posizionato lui sul Divano Nord e io sul Divano Sud, nel mezzo abbiamo messo le barriere come un piccolo presepe da stadio: cuscini, con un rinforzo di Topolino e Minnie di pezza (residuo di una nipote in trasferta precauzionale) e un peluche di dalmata che cambia 101 nomi diversi a seconda dei giorni. Lui poggia gli occhiali sul tavolino di fianco, io sono nervoso, mi alzo, faccio due passi, torno indietro. I capelli di Szczęsny sono pettinati come in un collaudo dell’Audi, Simone Inzaghi ha invece scelto un look alla Renato Zero. Tutto come previsto, si parte.
Lazio più aggressiva in avvio, Roma costretta a vari ripensamenti di posizione in virtù di un modulo con difesa a tre ancora non perfettamente registrato; è allora che mia madre esce perché non vuole testimoniare, va al supermercato, dice, le manca sempre qualcosa all’ultimo momento. In realtà sta fuggendo.

Provo a dire qualcosa d’approccio, lui risponde cordiale. Dagli occhi allucinati di Topolino capisco che il dialogo non sta in piedi, c’è da soffrire, sarà lunga. La Roma riprende spazio, sulla fascia destra Bruno Peres si riprende con discreta calma dopo uno scontro con Lulic e decide di dimenticarselo alle spalle mentre cerca di entrare in area di rigore, steso da Biglia mentre cerca di entrare. Banti indica nell’ordine: niente, punizione dal limite, rigore e ancora punizione. E siamo tipo in un film di Kim Ki-duk. Lui dice che era fuori, io che era dentro. Topolino indica a entrambi gli occhiali sul tavolo. Poi forse non era nemmeno fallo, vabbè, lasciamo stare ché poi litighiamo.

Arriva il minuto 19, mia madre è al supermercato, sentirà un colpo secco e un boato, penserà al terremoto, a un attentato, poi “tacciloro” si accorge solo che era un gol, quello di Strootman con la partecipazione straordinaria di Wallace, quello in cui Strootman comunica cortesemente a Edin Dzeko di avere lui l’intenzione di raccogliere quel pallone e depositarlo in rete.

L’indemoniato, in quella che gli storici di guerre etniche hanno definito la “Linea Cafu”

va a fare un gol furbo per uno 0–2 che chiude il match e lascia la Lazio a recriminare per non aver avuto il coraggio di imporsi in quella prima mezz’ora in cui aveva fatto gioco; ad esclusione del dinamismo di un Immobile molto presente ma spesso solo, capace di far fruttare spazi di profondità, del solito apporto di quantità di Parolo e di qualche breve inserimento più energico di Mikinkovic Savic, è parsa una squadra nervosa e bloccata sul punto di crescere e convalidare l’alta posizione di classifica.

Simone Nebbia

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