La lealtà sportiva con le ali ai piedi

Chiara Di Paola
Crampi Sportivi
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6 min readFeb 6, 2018

«Questo è per Tony… Non gareggio mica aspettando che gli altri si ritirino!».

Sono le Olimpiadi di Innsbruck. Corre l’anno 1964 ed Eugenio Monti, dopo aver cercato nella dotazione di riserva italiana, porge agli avversari inglesi il bullone che mancava loro per poter gareggiare. Il 1° febbraio si disputa la gara di bob a due. Gli italiani, in questa disciplina, vanno forte: si giocano la medaglia due coppie azzurre; quella composta da Sergio Zardini e da Romano Bonagura e la coppia Monti-Siorpaes. Eugenio Monti, tra i quattro, è senza dubbio il più conosciuto. La sua, fino alle Olimpiadi di Innsbruck, è una storia di alti e bassi: di grandi aspettative, cocenti delusioni e colpi di scena, in cui fortuna e sfortuna diventano concetti di relativa importanza davanti alla tenacia di un Rosso che amava volare.

Paesaggi mozzafiato, contatto con la natura, purezza dell’aria: l’amore per gli sport invernali scatta facilmente. Tra i tanti punti di forza, le discipline in bianco hanno l’incomparabile capacità di poter mettere le ali ai propri atleti: come non innamorarsene? Eugenio Monti lo sapeva bene: appassionato di montagna e sport, quello che cercava costantemente era proprio la velocità. Slalom gigante, speciale ma soprattutto discesa libera, Monti viene conosciuto prima come sciatore che come bobbista e, proprio in quanto discesista, si guadagna il soprannome breriano di “Rosso Volante”. Ciuffo color carota e irrefrenabile voglia di indossare le ali.

Eugenio Monti corre sul filo del rasoio della neve da quando è nato, sulle montagne di Dobbiaco, e lo fa con quella sfrontatezza tutta da discesista. Quella sfrontatezza di chi — con le ali ai piedi, ma non abbastanza solide da sorreggerlo — cerca il brivido di una vita in bilico. La sensazione che Monti ama — della neve come della vita — è quella che si prova quando, buttandosi sui muri ghiacciati delle piste da sci. Lì si capisce che quel sibilo — che il vento bisbiglia nelle orecchie infreddolite — è labile e fuggevole esattamente quanto la vita che, a velocità altissime, si sta mettendo alla prova, ma che solo così si riesce ad apprezzare a pieno.

Due volte campione italiano di gigante, una di slalom, vincente su Zeno Colò nella discesa di Chamonix, ad appena vent’anni Eugenio Monti è considerato da tutti come una delle promesse dello sci italiano. Grandi aspettative. Fortuna, a questo punto della storia.

Punto e a capo. La sfrontatezza la si paga in un attimo: ali solo illusorie non possono reggere per sempre e a volte basta un secondo per frenare le aspettative di tutti. In allenamento a Sestriere, la caduta è banale ma la diagnosi parla chiaro: rottura di entrambi i legamenti del crociato. La chirurgia dell’epoca e un secondo incidente a Cervinia stroncano definitivamente i sogni di chi viveva per volare. Delusione. Sfortuna, stavolta.

Concetti labili, questi come i primi. Monti non si dà per vinto e si rimette in piedi, si rimette in fretta sugli sci. Prova con il fondo ora, quello forse può ancora praticarlo, ma — sulle piste piatte dello sci nordico — Eugenio sente che gareggia solo metà della sua persona. Il Rosso c’è ancora, ma senza ali non riesce più a volare. Tenacia, direi. È arrivato il momento di togliersi gli sci dai piedi, ma non — come potrebbe sembrare — per smettere di volare: la neve regala al Rosso amato da Gianni Brera una seconda vita, sul filo del rasoio e a cento all’ora anche questa.

Quella del bob è senza ombra di dubbio la scelta più giusta che Eugenio Monti potesse fare.

Colpo di scena, il ritorno della fortuna: le ali spuntano nuovamente sulle sue spalle e il Rosso, finalmente, riprende a volare. Chissà quali sono state le sensazioni dell’ex sciatore quando, stretto in una scatoletta, ha avvertito nuovamente il vento bisbigliargli nell’orecchio che la vita è labile. Sì, è un soffio, è fuggevole, ma Monti ha anche la consapevolezza che solo a quelle velocità è veramente la sua, di vita. Rinato e velocissimo, Monti sbaraglia la concorrenza. Campione italiano, campione del mondo una, due volte, tre, nove volte. Nel bob a due, nel bob a quattro. Argento olimpico a due, a quattro.

Gli manca solo, e non intende lasciarsela scappare, la medaglia d’oro a cinque cerchi. Innsbruck 1964 è la sua occasione, ed è qui che — facendo volare più che volando lui stesso — passerà alla storia. In coppia con Siorpaes, la prima manche non è stata brillantissima. Settantanove centesimi di distacco non sono un’infinità e le speranze di conquistare quella medaglia sono ancora intatte. Dopo la discesa finale, quando ancora mancano i quattro migliori, il minutaggio è senza dubbio da podio. L’oro, adesso, glielo possono strappare solo i connazionali Zardini-Bonagura o i bobbisti inglesi Nash e Dixon, ma un colpo di scena, l’ennesimo, decide di mettere in difficoltà i britannici secondi in classifica.

Le parole di Tony Nash: «Gli atleti italiani erano tutti delle grandi persone. Erano nostri amici».

“Non potranno gareggiare” si mormora al traguardo: nell’asse posteriore del bob si è rotta una vite che impedisce loro di completare la gara. Fortuna! Verrebbe facile pensare a qualsiasi rivale, ma Monti — senza esitare — ribalta ancora una volta questo concetto così labile e decide di avvantaggiare gli inglesi prestando loro quella vite che avrebbe consentito a Dixon e Nash di scendere in pista. Quello stesso bullone che avrebbe strappato dalle mani del Rosso Volante il tanto agognato oro olimpico, quella vite che sarebbe salita sul gradino più alto del podio con la bandiera inglese. I due britannici non battono il tempo della seconda manche italiana, ma riescono comunque ad arrivare primi e persino l’altra coppia azzurra (quella composta da Zardini e da Bonagura) ottiene un risultato migliore di Monti-Siorpaes. Per loro è solo bronzo.

«Nash non ha vinto perché gli ho dato il bullone… ha vinto perché è andato più veloce!» ammette, quasi a doversi discolpare, Eugenio Monti a fine gara.

Aspettative. Delusioni. Colpi di scena. Fortuna e sfortuna. Concetti labili. Labili come un bronzo olimpico che, da metallo meno pregiato è stato trasformato dal Comitato Olimpico Internazionale nel premio più importante cui un olimpionico potesse ambire. Medaglia Pierre de Coubertin del vero valore sportivo. Il primo atleta a ottenere questo riconoscimento è il bobbista azzurro, un Rosso Volante che, messe da parte le ali, ha saputo vincere (o perdere, giudicate voi) grazie a un bullone.

L’oro arriverà, più tardi. Arriverà a 40 anni suonati nelle Olimpiadi del 1968 a Grenoble per ben due volte, in coppia e a quattro. Fortuna. Colpo di scena. Monti è nella storia del bob italiano, è uno degli atleti più titolati di questa disciplina: nove podi Mondiali, sei olimpici. Vola, vola davvero, ma anche quel volo è labile… il vento glielo continua a ricordare.

Basta un attimo, com’era stato nel 1951, per far tornare il Rosso con i piedi per terra. La vita (generosa o ingenerosa con lui?) si incattivisce contro quell’atleta che si era illuso di poter spiccare il volo: separatosi dalla moglie, Eugenio è costretto a salutare la figlia Amanda, partita con la mamma alla volta degli Stati Uniti e il dolore è più intenso che mai. Non più volante, il Rosso torna a fare i conti con la vita vera, quella che cammina su due gambe e nella quale si inciampa a più riprese. Otto anni dopo la partenza di Amanda, lo sgambetto che la vita gli sta tendendo è ancora più grande; il dolore — stavolta — insostenibile, la perdita definitiva. Il figlio Alec, trent’anni e una forte tossicodipendenza, è morto per overdose. Ali spezzate, rotte, frantumate, forse mai esistite. Chissà, chissà se il vento gliel’aveva sussurrato.

Chissà se durante i suoi voli aveva fatto bene i conti con quella labilità che, sugli sci prima, sul bob poi, lo aveva fatto sentire così vivo. Vita e morte, concetti labili, come la fortuna.

Per Monti arrivano anche i guai giudiziari, con una condanna in primo grado per danni ambientali, ma saranno quelli fisici a spingerlo a un gesto fatale. Morbo di Parkinson. Altro che Rosso Volante, altro che oro olimpico, altro che bullone, altro che medaglia alla lealtà sportiva, altro che ali. Erano solo un’illusione.

Eugenio Monti non regge più alla durezza della vita. Si ricorda che era bella perché labile, perché fuggitiva; bella quando si percepiva la sua stessa fragilità, e allora — fragile, veloce, volante — il Rosso decide di farla finita e, nel buio del suo garage, si spara un colpo in testa.

Fortuna. Sfortuna. Successo. Lealtà. Vita. Velocità. Chissà se il vento gliel’aveva suggerito.

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Chiara Di Paola
Crampi Sportivi

Calcio e montagna. Penna e radio. Redattrice di Rete Sport, studentessa di Lettere all’Università La Sapienza di Roma, appassionata di sport e scrittura