La leva calcistica della classe ‘76

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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8 min readJan 1, 2016

Siamo entrati nel 2016 da qualche ora e alcuni devono ancora smaltire la sbornia dovuta al Capodanno. Sarà un anno speciale, in cui molte persone compiranno i tanto temuti quarant’anni. Alcuni li giudicano i “nuovi 30” e allora sarà un momento da valutare con attenzione. Specie perché il calcio ha regalato i natali a tanti giocatori speciali nel 1976.

Fare una lista è persino difficile: i più meno blasonati, per così dire, del lotto comprendono Kluivert, Gilberto Silva, Frings, Camoranesi, Kanu, Nuno Gomes, Giuly e Marcos Senna. Senza arrivare agli esclusi eccellenti da questo racconto, come Nesta, Vieira o Recoba, ma giusto perché altrimenti avremmo dovuto mettere in piedi una quadrilogia.

Crampi Sportivi vi racconta il periodo tra luglio e settembre del 1976. Un periodo nel quale «nostro Signore si è decisamente lasciato scappare la mano» (cit. Buffa) e che ha portato al mondo cinque giocatori che hanno inevitabilmente segnato il mondo del calcio.

E non sono cinque qualunque. Per altro, a settembre si è esagerato: in 10 giorni nascono quattro assi del pallone che non dimenticheremo mai.

Noi vogliamo raccontarli con una canzone. E ci scusi De Gregori per la licenza poetica che ci ha momentaneamente prestato. Raccontarli tramite “La leva calcistica della classe ’68” è un modo per unirli sotto un unico cielo.

Per tutti e cinque, c’è un altro tratto comune. Quell’inciso: « Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore». Perché tutti e cinque passeranno per un momento da dimenticare sul dischetto.

29 settembre 1976 — Andriy Shevchenko

«Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone / e terra e polvere che tira vento e poi magari piove. / Nino cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma dura, / dodici anni e il cuore pieno di paura».

Forse un po’ di paura deve averla avuta Andriy. A 12 anni il suo mondo non era semplice: l’Unione Sovietica si avviava verso la dissoluzione e l’Ucraina non passava bei momenti. Giusto un paio di anni prima, Shevchenko fu evacuato insieme a tanti altri per via dell’esplosione alla centrale di Chernobyl.

Tuttavia, il giovane Sheva aveva già catturato gli occhi di un osservatore della Dinamo Kiev ed era sotto contratto con la più grande squadra a livello nazionale: «Per un bambino di quel tempo, la Dinamo era sempre stata la miglior squadra del paese».

Perché sì, Nino a dodici anni era gracilino, ma forse la paura era già passata. Del resto, lui non ne ha mai provata nel calcio, che fossero bei momenti o quelli brutti. Né a Manchester, né a Berlino.

Dopo una carriera da 321 gol nei club e 48 in nazionale, oggi Andriy Shevchenko mantiene quella stessa faccia con il sorriso appena accennato nello svolgere tornei di golf come rappresentante ucraino. Ha sperato anche in una carriera politica, ma non è stato eletto in Parlamento.

Momento rigore: dipende quale momento volete. Se optate per il romanticismo, si vola a Manchester.

Altrimenti la menzione d’obbligo è per Istanbul.

26 settembre 1976 — Michael Ballack

«E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai / di giocatori tristi che non hanno vinto mai / e hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro / e adesso ridono dentro a un bar»

Su quanto Michael Ballack possa aver riso a fine carriera ci teniamo qualche dubbio. Nato nella Germania dell’Est a metà degli anni ’70, Ballack rappresenta la metafora vivente della sfiga calcistica.

Troppo giovane per far parte della Germania teutonica e vincente di Beckenbauer, troppo vecchio per far parte di quella bella e spettacolare di Joachim Löw. Aveva iniziato la carriera con un’insperata Bundesliga vinta con il neo-promosso Kaiserslautern, poi gli dèi del calcio gli hanno girato le spalle.

Due finali Mondiali perse prima per squalifica (dopo aver trascinato con Kahn la Germania all’ultimo atto), poi perché si è trovato sulla strada Fabio Grosso. Due finali di Champions League perse, con forse Mosca che ha fatto più male di Glasgow. Simbolo del Bayer Neverkusen (triplete di secondi posti nel 2001–02), Ballack è l’epitome della sfiga.

Ha giocato undici anni in nazionale, chiudendo con 98 presenze e 42 gol, ma paradossalmente proprio il suo infortunio prima del Mondiale 2010 — insieme ad altri — ha aperto la strada alla Germania che conosciamo oggi.

Nonostante le critiche sul suo conto quasi ovunque abbia giocato, il suo palmarès personale parla di tre premi come giocatore tedesco dell’anno, capace di imporsi in molte zone del campo, autorevole e leader. Eppure…

Momento rigore: non c’è n’è uno particolare da ricordare. Piuttosto una tendenza da sottolineare. Ballack ha tirato 32 rigori in carriera e ne ha segnati 30. Con tutto quello che ha perso in carriera — anche ai penalty — possibile che il tedesco non abbia mai potuto decidere una gara? Anche questa è sfiga.

Uno degli unici due rigori sbagliati da Ballack nella sua carriera.

1 luglio 1976 — Ruud van Nistelrooy

«Nino capì fin dal primo momento, l’allenatore sembrava contento / e allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento»

Se c’è uno che non è mai celebrato abbastanza tra i cinque protagonisti, quello è l’olandese. La sua carriera sembrava finita a un certo punto: nell’estate del 2000 è tutto pronto per il trasferimento dal PSV Eindhoven al Manchester United, ma succede qualcosa.

Su suggerimento del figlio Darren («Papà, è un giocatore fantastico: dobbiamo comprarlo subito!»), sir Alex Ferguson si decide a spendere i venti milioni di euro necessari all’acquisto. L’operazione è definita, ma ci sono alcuni problemi fisici. Poi Ruud il giorno dopo si rompe il crociato.

Tutto finito? Macché. Ci vuole un anno di recupero, ma alla fine nel 2001 van Nistelrooy diventa a tutti gli effetti un giocatore dello United. I suoi cinque anni all’Old Trafford dimostreranno che l’olandese aveva ragione: «Il mio prezzo? Non mi preoccupa, anzi mi motiva a far meglio».

Mia opinione: a mani basse il miglior centravanti che abbia visto.

La sua carriera di club è stata bella, ma gli è mancato il trofeo più ambito. Nino ha sempre ambito a essere un “nove e mezzo”: ha segnato tanto (214 gol in 325 partite tra Manchester e Madrid, sponda Real), ma non ha mai vinto nulla in ambito internazionale. Ha concluso la sua carriera tra Amburgo e Málaga.

Peggio ancora è andata in nazionale. A guardare il suo profilo, si può dire — senza bestemmiare neanche troppo — che Ruud van Nistelrooy è stato l’unico vero erede di Marco van Basten. Entrambi eleganti, forti, capaci di segnare in qualunque modo.

Eppure, come il cigno di Utrecht, van Nistelrooy non è andato neanche vicino a vincere qualcosa con l’Olanda. Almeno van Basten portò a casa l’Europeo 1988. E tra l’altro, i due si sono pure conosciuti: van Basten è stato il ct ai Mondiali 2006 e agli Europei 2008. Definire il rapporto tra i due “conflittuale” è dire poco.

Momento rigore: ecco, diciamo che i rigori sono i momenti in cui il calmo Ruud si trasforma in un’altra persona.

Una volta un difensore di Andorra pensa di esultargli in faccia dopo un rigore sbagliato. Ci mette poco a vendicarsi.

27 settembre 1976 — Francesco Totti

«Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia»

Si può essere bandiere senza vincere troppo. Non sappiamo se questa sarà l’ultima stagione di Francesco Totti con la maglia della Roma (probabilmente no), ma certamente il suo palmarès è inversamente proporzionale al talento mostrato in 22 anni di carriera.

In questa retrospettiva, va ricordata una cosa che spesso viene dimenticata: nessuno ha puntato una pistola alla testa di Totti per rimanere a Roma a vita. Le offerte ci sono state — due in particolare: Real Madrid e Chelsea nel biennio 2004–05 — ma il capitano giallorosso ha sempre preferito restare in casa.

Dove non è arrivato lui, ci ha pensato qualcun altro o il destino: ricordiamoci sempre che nel 1997 Totti era stato virtualmente venduto alla Samp per volere di Carlos Bianchi. Se fosse andata così, parleremmo di un gran giocatore, ma non di un campione con certi numeri.

Il mancato erede di Mancini nella Genova blucerchiata è diventato poi titolare nella Roma di Zeman, capitano con Capello, goleador indomabile con Spalletti. Negli ultimi anni lotta con gli acciacchi, ma lui non si lamenta e lavora, come ha sempre fatto. Il suo score parla di 300 gol in 746 partite con la Roma. Uno scudetto, due Supercoppe Italiane e altrettante Coppe Italia.

Gli elogi si sono sprecati nel corso della sua carriera: da Maradona a Pelè, passando per Ancelotti, Platini e da ultimo Messi qualche mese fa. Nonostante gli infortuni e le presenze ridotte, la Konami l’ha celebrato con un’esultanza inserita in PES2016. Forse Nino non ha rimpianti per la nazionale, con la quale Totti ha avuto un’avventura molto strana.

Ha dato il meglio quando ancora era relativamente sconosciuto (Euro 2000) o era dato per assente (Mondiale 2006). Invece, è mancato ed è stato al centro di episodi controversi al suo massimo (il caso Moreno nel Mondiale 2002 e lo sputo a Poulsen a Euro 2004).

Momento rigore: vi dice niente la parola cucchiaio? Ve la proponiamo in entrambe le versioni, quella più riuscita e quella con fail clamoroso.

18 settembre 1976 — Ronaldo

«Prese un pallone che sembrava stregato / accanto al piede rimaneva incollato / entrò nell’area, tirò senza guardare / e il portiere lo fece passare»

Non si fa un torto a nessuno dicendo che Ronaldo Luís Nazário de Lima è forse l’unico che potrebbe veramente essere accostato ai due mostri sacri del calcio come Diego Armando Maradona e Pelè. Sì, Messi e Cristiano Ronaldo ci deliziano ogni domenica. E magari ci mancheranno pure tra dieci anni, quando entrambi dovrebbero aver smesso di giocare. Tuttavia, guardando Ronaldo nel pieno della sua attività, non si capisce neanche cosa possa aver da spartire con l’argentino e il portoghese.

Viene quasi da ridere pensando al Flamengo. Cresciuto nel Cruzeiro, Ronaldo in realtà avrebbe potuto esplodere nella Rubro-Negro, la squadra di cui tra l’altro era tifosissimo e per la quale non ha mai giocato. Convinti dal provino, i dirigenti chiesero al ragazzo di pagarsi da solo il biglietto dell’autobus per arrivare al centro sportivo, ma Ronaldo non aveva quei soldi. Non l’avessero mai fatto…

Da lì, PSV Eindhoven e Barcellona. Arrivato all’Inter per la mostruosa somma di 48 miliardi di lire (mostruosa per l’epoca: era l’estate del 1997), fino al Mondiale 1998 si ha a che fare con un mostro.

Il Ronaldo visto dai suoi 17 ai 21 anni è un signore che non è negoziabile. Da nessuno. La partita giocata contro la Lazio in finale di Coppa Uefa del 1998 è — a oggi — la più grande prestazione individuale che io abbia mai visto su un campo di calcio.

Nell’estate del 2002, dopo aver vinto il Mondiale, lascia l’Inter. Ma già dalla finale persa con la Francia (e dal misterioso pre-gara) ha perso qualcosina della sua straordinaria potenza, rovinata da due infortuni. Quello che si vedrà al Real è una buona fotocopia, ma non è l’originale.

I passaggi al Milan e al Corinthians faccio finta di non averli visti. Non ce la faccio. Quello non può essere Ronaldo. Non può essere lo stesso giocatore che ha segnato 15 gol in 20 gare con il Brasile nel 1997. Non può essere lo stesso che fintava Marchegiani fuori dagli scarpini a Parigi.

Momento rigore: due i momenti legati ai rigori per Ronaldo. Eccellente tiratore, il brasiliano ne ha sbagliati appena quattro su 46 tirati.

Il primo ricordo corre all’unico uomo probabilmente mai esistito in grado di guadagnarsi tre rigori nella stessa partita e trasformarli tutti. Nel Super Clasico sudamericano.

Il secondo è legato alla fine: l’ultimo gol da professionista Ronaldo lo segna con la maglia del Corinthians. Contro il Cruzeiro, la squadra che l’ha lanciato nel calcio che conta. Spiazzato Fábio, è l’ultima corsa del 9 per eccellenza.

Il 2016 è iniziato. Auguri di buon anno a tutti.

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