La luce dell’Est

Crampi Sportivi
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75 min readMay 3, 2017

Episodio 10 — I migliori giocatori di sempre dell’ex area sovietica (Russia, Ucraina, Georgia, Bielorussia, Azerbaijan, Armenia, Lettonia, Lituania, Estonia).

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Rinat DASAEV

( Ринат Файзрахманович Дасаев)

Rinat Fajzrachmanovič Dasaev, detto Dasaev: eri l’idolo di un adolescente portiere di riserva di una squadra sgangherata di terza categoria. C’era questo campo orrendo, ositle e ghiacciato per tre stagioni su quattro, lastricato di sassi e d’ortiche, e quell’adolescente si sfregava a sangue le cosce e i gomiti come contadine bestemmiose della steppa, chine a raccoglier patate; con la maglia gialla uguale alla tua e i guanti bianchi e rosa uguali ai tuoi bestemmiava già i patriarchi ortodossi ogni volta che la domenica non giocava (cioè sempre). Perché egli (l’adolescente) abbandonò gli idoli della pubertà, i capitalisti e vincenti Carl Lewis e Larry Bird, per seguire te e Serhij Bubka, solo San Basilio e San Nicola lo sanno (cioè Bubka pure pure, ma poi quell’adolescente portiere era, e non saltatore con l’asta, pertanto eri diventato la sua naturale guida spirituale, e quello che egli è oggi, caro Rinat, te ne devi assumere la responsabilità).

Nel 1988, col Milan dell’arcidemonio Berlusconi che già si aggirava spettrale per l’Europa, eri l’ultimo baluardo contro lo strapotere del liberalismo. L’URSS militare, veloce, gerarchica e disciplinata veniva spazzata via dall’Olanda berlusconiana nella finale degli Europei tedeschi (dell’Ovest, per l’ultima volta) del 1988: il socialismo discotecaro e multietnico europeo dava la prima picconata a quello che sarebbe stato l’anno zero della distruzione della grande madre Russia. Cadde l’URSS, cadde il muro, e tutti felici a correre a ovest in cerca di fortuna e di libertà: ma troppa libertà - tu ci insegni - è come zero libertà: arrivasti a Siviglia come miglior portiere del mondo (oltre che il più bello): in un anno raccolsi cento volte il pallone in fondo alla rete, l’occidente inghiottiva te come la rete dello stadio Ramón Sánchez-Pizjuán spagnolo inghiottiva palloni; poi nell’occidente c’era pure il divorzio e quindi tua moglie se ne andava insieme a tua figlia Elvira; e tu? “portace n’antra vodka, che noi se la bevemo, e poi j’arisponnemo: niet”.

Niet Siviglia, niet San Gallo, niet giocare, niet Nazionale; solo il turbinio della vodka e della depressione e del guidare a fari spenti nella notte per vedere se è difficile morire. Morire no, ma incidenti sì, un paio, dritti contro il muro, e poi rianimazione in ospedali bui e malmessi, il ritorno in patria come traditore del regime: ma il regime non c’era nemmeno più. E quindi succede quello che sarebbe successo in un libro di Dostoevskij: la discesa nelle tenebre dell’alcolsimo e del barbonaggio, giri per le strade e nessuno ti riconosce, e quando e se fanno finta di credere alle tue storie sull’incredibile portiere pieno di donne della grandissima URSS, è solo appunto per vederti ballare e cantare canzonacce oscene; magari con un cane spelacchiato vicino che si alza sulle zampe di dietro, in sottofondo una fisarmonica triste e stonata che suona “urla il vento e fischia la bufera”, gli occhi di ghiaccio dell’ex portiere più bello e più forte del mondo iniettati di rosso e giallo e gonfi, i denti marci di un dolce Remì che non ce l’ha fatta. Attualmente Rinat Fajzrachmanovič Dasaev è vivo e questo mi basta, non voglio sapere cosa fa l’importante è che stai bene.

Yuri GAVRILOV

( Юрий Васильевич Гаврилов)

Yuri Gavrilov è stato sia direttore d’orchestra che bacchetta, creativo come un compositore, esile e longilineo come una stecca, è stato la quintessenza del 10 classico applicato al Soviet. Guance scavate, fantasia e leggerezza sia che giocasse da centrale o da mezzapunta, gol ma soprattutto un volume notevole di assist: nel corso di una carriera ultraventennale — che negli ultimi anni l’ha portato fino in Finlandia. Il suo sinistro fatato ha esibito una varietà di passaggi smarcanti e/o illuminanti tanto densa, e ha fatto correre tanti di quei chilometri ai compagni di squadra, da far invidia a un centauro americanski delle highway statunitensi. In tandem con l’ucraino Blokhin e il georgiano Shengelia, poi, era in grado di creare una rete di costruzione offensiva che incarnava alla perfezione tutto ciò che dell’esperienza bolscevica era stato bello e buono. Terreno comune, fantasia, redistribuzione del coefficiente agonistico.

Andriy SHEVCHENKO

( Андрі́й Микола́йович Шевче́нко)

Merk-Pallone. Merk-Pallone. Merk-Pallone. Merk-Pallone. Merk-Pallone. Merk-Pallone. Dentro, Campione d’Europa.

Cinque sguardi verso l’arbitro tedesco e cinque sguardi verso un pallone, poi uno alla porta con dentro Buffon e Andriy Shevchenko, il “diamante” come lo chiamava il suo mentore Valeriy Lobanovskyi, diventa campione d’Europa con il Milan. Sì, va bene: pallone d’oro, capocannoniere alla prima stagione in serie Serie A, porta l’Ucraina alla prima qualificazione dei mondiali della sua storia e la porta fino ai quarti di finale, tutto quello che volete. Ma uno che il 26 aprile 1986 ha visto uscire di casa suo padre per andare a Chernobyl e lui dover andar via da Dvirkivščyna, a 100 km da Kiev sul Mar d’Azov, uno che da ragazzino viene ospitato ad Acropoli quando l’Italia ancora era ancora un paese che ospitava chi era in difficoltà, uno che poi da Lobanovskyi viene allevato è uno su cui dire più cose dei gol che ha fatto. E di gol ne ha fatti. È uno che si fa letteralmente frantumare la faccia da Loria e non fa una piega, uno di cui Leonardo ha detto “che ha già in testa il gol prima che prende la palla”, uno che sulla tomba di Lobanovskyi porta ogni singolo trofeo che vince, uno che è stato sempre determinante in tutte le sacrosante partite decisive. O meglio quasi tutte perché uno di rigore lo sbaglia e perde la possibilità di vincere la seconda Champions contro il Liverpool sbagliando, forse, pure per le buffonate di Dudek prima di ogni singolo calcio di rigore. Chissà se è stata colpa delle scarpe che riceve a quattordici anni in premio da Ian Rush come capocannoniere del torneo “Ian Rush”, lo stesso Ian Rush attaccante dei Reds che vinse la Coppa Campioni grazie alle buffonate ipnotiche del portiere Grobbelar. Una sua citazione, quelle con cui lo schernisce Dudek, un solo incidente di percorso che, a posteriori, è solo un presagio di ciò che lo aspetta nel Regno Unito quando con il Chelsea diventa il peggior affare di calciomercato della Premier League degli ultimi dieci anni.

“La nostra vita” scrive Sergej Dovlatov, “è solo un granello di sabbia nell’indifferente oceano dell’infinito. E così bisogna cercare di non ridere almeno questo irripetibile istante a tristezza e noia! Bisogna cercare di lasciare un piccolo graffio sulla crosta terrestre. Che tirino la cinghia i mediocri. Quelli che comunque non possono combinare niente di eccezionale”. E Andriy Shevchenko, numero sette (in lingua ebraica il numero sette si pronuncia “sheva”), ispiratore della linea EA7 di Giorgio Armani, più di qualcosa di eccezionale l’ha fatta e forse, adesso che è CT dell’Ucraina, continuerà a farla.

Mikheil MESKHI

( მიხეილ მესხი / Михаил Шалвович Месхи )

Ora, retorica a parte, voi riuscireste a dare compiti tattici a una farfalla? Chiaro che no, col suo svolazzare imprevedibile che ha mandato a culo all’aria la maggior parte degli sprovveduti inseguitori, una farfalla difficilmente può trovare saggia l’idea di tornare indietro e rincorrere chi in precedenza voleva catturarla. E così Mikheil Meskhi, ala sinistra georgiana della Dinamo Tbilisi, visse una carriera da funambolo incompreso, di quelli che stanno lì fermi ad aspettare il pallone e quando lo perdono si fermano di nuovo, in attesa che questo gli ritorni sui piedi, e che sia il momento di avanzare a folate fulminee. O lo hai amato, o lo hai odiato, questo inventore di finte irripetibili, alla più caratteristica delle quali venne dato il suo nome. Durante le partite di casa pare che il pubblico preferisse acquistare il biglietto per i posti vicini alla bandierina, sapendo che avrebbe visto il suo beniamino solo da quelle parti. Insomma nessuno voleva stare al centro, tra gli spettatori paganti col senso estetico più sviluppato. Leggenda vuole che durante un’amichevole che sarebbe dovuta essere il suo match d’addio, contro il Club Nacional di Montevideo, al giro di campo finale l’allenatore avversario domandò ad alta voce: “fatemi capire, questo se ne va e questi altri — riferendosi ai suoi compagni — rimangono?”. Qualcuno trovò l’interrogativo legittimo, e infatti Meskhi si ritirò ufficialmente un anno dopo. Con lui se ne andò dai campi un pezzetto di quel calcio riluttante all’agonismo che sopravvisse meno a lungo del bianco e nero nelle fotografie.

Aleksandr MOSTOVOI

( Александр Владимирович Мостовой)

La risposta alla domanda di storia “Chi è stato l’ultimo zar?” non è, come si potrebbe ingenuamente pensare, “Nicola II”. No: la Russia ha avuto un altro imperatore ottant’anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, perfino dopo la perestrojka — Aleksandr Mostovoi, tra i pochissimi ad aver indossato le maglie di Unione Sovietica, Comunità Stati Indipendenti e Russia. Sguardo glaciale, chioma lunga da condottiero, è stato eccezionale regista di centrocampo e trequartista con un carattere spigoloso e difficile da governare: chiedere a Georgij Jarcev, il ct che lo cacciò dagli Europei del 2004 per aver rilasciato qualche improvvida dichiarazione alla stampa a seguito della sconfitta nella gara inaugurale con la Spagna. Proprio nella penisola iberica Mostovoi fu ribattezzato “lo Zar”: ai suoi piedi cadevano i tifosi del Celta Vigo ogni volta che pennellava una punizione o faceva secchi i portieri avversari con bordate dalla distanza. Il suo regno ebbe una durata di otto stagioni epperò finì malissimo, con i galiziani malamente retrocessi. Perché non esiste Zar senza crepuscolo.

Valerij KARPIN

( Валерий Георгиевич Карпин)

Ora, se Mostovoi era “lo Zar” del Celta Vigo, Valerij Karpin era il degno guardaspalle del genietto con la maglia numero dieci. Centrocampista dotato di temperamento, velocità e intelligenza tattica, conobbe la fama a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, quando mise piede in Spagna e con la Real Sociedad arrivò perfino a segnare 13 reti in una sola stagione, numeri da discreto centravanti più che da mediano. Il suo nome meriterebbe di essere stampato sui libri di storia contemporanea: fu lui a segnare il primo gol della nazionale della Russia dopo la dissoluzione dell’Urss. Indomito e granitico, era centrocampista nel sangue, anche quando il gioco era inattivo: fu infatti memorabile il modo in cui, dopo aver guadagnato una punizione dal limite durante una partita tra Russia e Francia, fece da solo a sportellate con metà nazionale transalpina, per costringerla a mantenere la distanza. Una volta appesi gli scarpini al chiodo ha investito nel settore immobiliare e nel mecenatismo sportivo, fondando la squadra di ciclismo su strada Karpin-Galicia e sostenendo economicamente le compagini di pallavolo e rugby di Vigo. In un’altra epoca sarebbe stato un influente dirigente del Politbjuro.

Valerij VORONIN

( Валерий Иванович Воронин)

Valerij Voronin, bello come la disfatta di un nazista alle porte di Stalingrado, bello come un’irregolarità, come la contraddizione di un centrocampista tendenzialmente difensivo — ruolo che più di tutti viene associato al sacrificio per bene il collettivo — che viene accusato di essere fin troppo individualista e innamorato del pallone. Bello come il senso di giustizia che si avverte quando si mette in discussione un ethos troppo rigido, così bello che una giovane Regina Elisabetta lo premiò, ridondantemente, come il giocatore più bello dei Mondiali del ’66, con un servizio di piatti in argento.

Figlio del titolare di un alimentari a Peredelkino, il sobborgo alle porte di Mosca dove vivevano gli scrittori, servì in bottega e conobbe personalmente il Premio Nobel Boris Pasternak e i poeti Evgeny Yevtushenko, Andrei Voznesensky e Bella Akhmadullina. Come un novello Icaro conobbe fin troppa bellezza per poter sperare di sfuggire al contrappasso della tenebra.

Al suo apogeo condusse al trionfo gli underdog designati della Torpedo Mosca, orfani di Streltsov imprigionato per stupro, e fu il volto carismatico dell’URSS che raggiunse il secondo posto agli Europei del ’64 e il quarto posto ai Mondiali del ’66. Appassionato di jazz e affamato lettore di libri britannici e americani nell’era sempre più paranoica del post-Stalin, amico di dissidenti come lo stesso Pasternak e il poeta/cantautore Vladimir Vysotsky, Voronin visse la contraddizione di una vita da eroe del popolo sorvegliato speciale del KGB, fino al giorno in cui un inatteso incidente automobilistico lo lasciò diverso da come lo aveva trovato, sfigurato in volto e nell’animo, e pose fine prematuramente alla sua carriera di atleta.

La sua esistenza si fece dionisiaca e paranoica, lontana dai riflettori e vicina alla bottiglia di vodka, il popolo moscovita che lo aveva amato lo dimenticò in fretta e se ne ricordò solo quando, nel 1984, il suo cadavere venne ritrovato tra i cespugli in una località poco distante da Mosca. privo di vita per via di un violento colpo inflittogli alla testa da una mano misteriosa. Le indagini della polizia non portarono mai a nulla, nessuno seppe chi l’aveva ucciso e perché. Ma da allora nessuno se l’è più scordato Valerij Voronin, bello come un’anomalia.

Oleksandr ZAVAROV

( Олександр Анатолійович Заваров)

Beh, vediamo un po’ chi abbiamo qui: Aleksandr Anatolijevič Zavarov, ah ah ah, il bidone. Dio, che noia. Oppure: l’incompreso, rovinato dalla vodka, il campione che girava in Duna (pare fosse una Tipo, peraltro): che orrore. Partiamo invece dalla fine: Aleksandr Zavarov, non più calciatore ma sempre gloria sportiva, gloria di tutta l’Ucraina e figlio del Donbas, dichiara nel 2015, chiamato alle armi per la guerra civile, che non partirà e non andrà a combattere per l’Ucraina contro il Donbas, e che tutto quello che desidera è la pace. È la posizione di un uomo non più giovane, forse mai stato coraggioso, ma è una posizione forte e coraggiosa. Anche in Sc’vejk l’ungherese che non vuole andare in guerra per scrupoli religiosi, e piuttosto resta a marcire nelle galere militari, è deriso da Vodička, l’attaccabrighe boemo amico di Sc’vejk (del resto anche Vodička ama la guerra solo come occasione per pestare i propri compagni di esercito, i dannati ungheresi; non vuol certo sparare a nessuno). E forse quell’ungherese è veramente un vigliacco: d’altronde a volte i vigliacchi sono necessari, tremila anni di canti epici dovrebbero avercelo fatto capire. O forse, e su questo anche Vodička sarebbe d’accordo, forse è tutta colpa di una vecchia convenzione un po’ razzista, per cui tutto quello che di buono viene dall’Europa centrale e orientale dev’essere frutto o filtrato dalla cultura tedesca o mitteleuropea: per cui avevano ragione gli Asburgo, e torto quell’ungherese, per cui hanno ragione i tedeschi a dire che Einmal ist Keinmal, che una volta è nessuna volta, e che dunque un evento isolato non ha nessun valore. Eppure un giorno di autunno del 1988 l’impalpabile Zavarov dei due anni juventini si tira su le maniche di lanetta di quella orribile maglia con lo scollo a V: è l’intervallo di uno Juventus-Napoli e la squadra di Maradona sta vincendo 3–0. Zavarov allora, con le maniche rimboccate, inventa un assist geniale per Galia e poi un gol impavido, con un volo ad alto rischio di figuraccia, per tirarne fuori il 2–3. Poi quella Juve scarsa e divertente perde un altro pallone stupido e la partita finisce 3–5: ma nel complesso Zavarov, quella partita lì, non la gioca peggio di Maradona, che anzi viene sostituito sul 3–4 da un Napoli che sta cercando di resistere. E chi dice che non basti una volta? I tedeschi, ma date retta anche agli ucraini e ai russi, una volta; fidatevi, per una volta, di un testone nato a Vorošilovgrad. Lasciate che sia lui a dirci onestamente quanto Zavarov sia stato un vigliacco, quanto un bidone, quanto un ometto capitato in mezzo a troppe cose che non gli piacevano e non facevano per lui.

I fratelli STAROSTIN, Nikolaj, Aleksandr, Andrej e Pëtr

I fratelli Karamazov stanno alla letteratura russa come i fratelli Starostin stanno al calcio moscovita: Nikolaj, Aleksandr, Andrej e Pëtr giocarono negli anni pionieristici del Moskovskij Kružok Sporta che nel 1935 ribattezzarono Spartak, la “squadra del popolo”, in onore del condottiero della rivolta degli schiavi contro Roma. Nikolaj, il maggiore, era diventato il capofamiglia di casa Starostin dopo la morte del padre: per mantenere madre e fratelli giocava a hockey su ghiaccio in inverno e a calcio d’estate. Leggenda narra che a Tbilisi avesse ridicolizzato in una partita tale Lavrentij Berija: il futuro capo dell’NKVD, la temibile polizia segreta, si vendicò di quell’umiliazione facendo arrestare gli Starostin nel 1942. Li accusò, pur non avendo le prove, di aver complottato per l’assassinio di Stalin sei anni prima in occasione di un’esibizione dello Spartak sulla Piazza Rossa, sotto lo sguardo divertito dello stesso segretario del Pcus. Alla fine i reati contestati furono propaganda dello sport borghese e pagamento dei giocatori (cosa che in realtà avveniva con permesso delle autorità): si beccarono dieci anni in un gulag. Una volta conclusi gli anni del terrore nel 1953 con la morte di Stalin e la fucilazione di Berija, gli Starostin poterono tornare a Mosca, dove Nikolaj prese le redini del suo amato Spartak facendone una delle squadre più forti e titolate nella storia dell’Urss.

Lev YASHIN

( Лев Ива́нович Я́шин)

È probabile che non immaginasse minimamente la vita che avrebbe vissuto negli anni della sua maturità atletica. È probabile che stesse per lasciar perdere il sogno di diventare un calciatore professionista per ripiegare in un anonimo lavoro in qualche fabbrica enorme, al cui interno l’aria si mescola col pulviscolo di metallo. Per ben tre volte il destino gli è scappato dalle mani. Un rinvio dalla porta opposta, il vento a favore dell’avversario, il rimbalzo beffardo del pallone, l’uscita sgraziata, il gol subito. Per tre volte l’anonimato ha fatto lo sgambetto a ciò che di lì a poco sarebbe diventato Lev Ivanovič Jašin: il Ragno Nero. Qualcuno dice che quel soprannome da super eroe gli fosse stato dato a causa della sua divisa, sempre completamente nera. La verità è che la sua divisa era di un blu così scuro da sembrare nero, le fotografie in bianco e nero, poi, hanno fatto il resto. Qualcun altro, invece, dice che il soprannome gli fosse stato dato per riuscire a spiegare figuratamente le 207 partite in cui riuscì a mantenere la porta inviolata. Eppure la fortuna gli girò le spalle troppe volte, fino a spingere i dirigenti della Dinamo Mosca a parcheggiarlo nella rosa della propria squadra di Hockey sul ghiaccio per due stagioni. Fu in quel frangente che cominciò a manifestarsi l’ordine prestabilito per Lev Jašin. Vinse una Coppa Sovietica, prima di abbandonare i ghiacci per i prati verdi. Che non avrebbe più lasciato, fino al suo ritiro, nel 1971, all’età di quarantadue anni. Prima di salutare il mondo che imparò ad amarlo e rispettarlo — forse — troppo tardi, vinse cinque campionati sovietici e tre volte la coppa dell’URSS, una medaglia d’oro alle Olimpiadi del ’56 in Australia, l’Europeo del ’60 in Francia. A titolo personale, probabilmente la lista di riconoscimenti ottenuti è interminabile, tanto quanto la distanza che separa il pianeta Terra dall’asteroide che nel 1978 l’astronoma sovietica Ljudmyla Vasylivna Žuravl’ova gli dedicò senza alcun tentennamento. Ah, dimenticavo: nel 1973, Jašin vince il Pallone d’Oro, superando nelle preferenze Gianni Rivera e Jimmy Greaves. Tutt’oggi è l’unico portiere ad aver vinto il Pallone d’Oro.

Igor NETTO

( Игорь Александрович Нетто)

Da capitano carismatico ed esigente guidava da davanti alla difesa il suo Spartak e la nazionale. Capitano dell’URSS per più di due lustri, è stato lui ad alzare al cielo l’Europeo del 1960, l’unico vinto dalla squadra sovietica. Detiene ancora il record di stagioni consecutive con lo Spartak dove per 18 anni ha governato lo stile di gioco della “squadra del popolo”, guidandola a 5 titoli sovietici: ossessionato dal controllo del gioco pensava di poterlo raggiungere attraverso il controllo del pallone. O peggio per abbandonare ogni tentativo di controllo sui destini della Sua squadra. Soprannominato l’oca per il lungo collo, la testa dalla forma ovale e la voce sibilante, riusciva a manifestarsi in tutta la sua fisionomia da pennuto quando le cose non andavano come voleva lui in campo. Strenuo amante del calcio di possesso, affina la sua tecnica per sviluppare il passaggio corto e preciso. Cosa che lo rende avverso quindi ad ogni lancio che superasse i 40 metri, cosa che riteneva un modo semplice e stupido per perdere il possesso. Allora eccolo lì alzare le braccia e diventare un’oca starnazzante verso i suoi stessi compagni rei di non seguirlo nella filosofia che amava. Si arrabbiava anche quando dai passaggi ne uscivano gol. Per lui erano una coincidenza. Netto è un fermo sostenitore della supremazia del fair play sul ogni aspetto del gioco e si è reso famoso di un gesto in linea con la sua idea di sport: la richiesta all’arbitro di annullamento di un gol al Mondiale di Cile ’62 mentre tutti i compagni stavano festeggiando il gol di vantaggio segnato per il pallone che tirato da Chislenko entra da un buco nella rete laterale della porta. Netto ascoltando le proteste uruguaiane invece va prima dal compagno per chiedere conferma dell’errore e poi dall’arbitro per ottenere l’annullamento del gol. L’URSS vincerà comunque la partita. L’opposto del calciatore che vive in un bolla, è atleta versatile e riconosciuto intellettuale e non fa niente per nasconderlo: in inverno gioca anche ad hockey ad alto livello, in estate si diletta col tennis, quando nevica è uno scacchista di successo e amante del biliardo, la sera è un appassionato di jazz, blues e teatro. Poco amato dal Partito per essere stato durante la seconda guerra mondiale liberato dall’esercito americano da ostaggio dei nazisti dopo un anno di prigionia nel 1945. Il Partito lo sospetta per anni di essere una spia e solo dopo i successi sportivi viene riabilitato nel 1958. Oggi sul muro del palazzo dove ha vissuto a Mosca c’è una placca in suo onore.

Igor SHALIMOV

( Игорь Михайлович Шалимов)

Avevo sette anni e mezzo, divoravo giornali su giornali che parlavano di calcio e avevo appena cercato di completare il mio primo album di figurine dei calciatori. Quindi, come dire: una perfetta conoscenza di tutti i giocatori della Serie A, limitata però al solo tempo presente. Non retroattiva, ecco. Seppi, anzi lessi, che la mia squadra aveva preso Igor Shalimov. Non riuscii a essere molto entusiasta: era un calciatore un po’ così del Bologna, una faccia strana e una stempiatura pronunciata — di cui però non mi rendevo conto, allora. Niente di eccezionale, comunque. Non potevo sapere che, come dice testualmente Wikipedia, che Shalimov «nel 1991 era considerato tra i migliori talenti della Nazionale sovietica allenata da Byshovets». Io ci sono nato, nel 1991. Non potevo sapere che il Foggia di Zeman l’aveva acquistato dallo Spartak Mosca che era un talento 22enne con un futuro designato di star assoluta, Shalimov che si autodefiniva «organizzatore di gioco» ma in realtà giocava dappertutto e giocava benissimo, soprattutto con il sinistro. Non potevo sapere che l’Inter l’avesse comprato per “sostituire Mattheus”, che era stato mandato via dopo un inizio incoraggiante (in effetti la sua era una missione praticamente suicida), che dopo aver fatto un po’ il matto con il Duisburg e il Lugano era tornato in Italia per giocare quasi bene con Udinese e Bologna. Non potevo sapere che aveva saltato il Mondiale del 1994 perché era uno dei firmatari di una lettera che chiedeva la riassunzione del vecchio ct. Non potevo sapere che, prima di lasciare Bologna, era (ed è, quindi) stato il primo calciatore del campionato italiano a postare un video su internet in cui diceva di cercare un nuovo club. Non potevo sapere che oggi, a quasi vent’anni di distanza, sarebbe diventato il mio idolo per quest’ultima cosa, che lo elegge immediatamente presidente onorario di un club che voglio fondare domani, “fanculo la nostalgia nel calcio” — perché Shalimov è un giocatore anni Novanta che fa cose degli anni Duemiladieci. Un precursore, un futurista. Non potevo sapere tutte queste cose. Con il Napoli, la mia squadra, Shalimov giocò 18 partite e segnò 2 gol. Si fece pure beccare all’antidoping, disse di aver mangiato una bistecca col nandrolone. Avevo ragione io: Shalimov era (diventato) solo un calciatore non eccezionale.

Temuri KETSBAIA

( თემურ ქეცბაია)

Una delle maglie più iconiche nella storia del calcio, almeno per me, è quella del Newcastle fine Anni Novanta. Le strisce bianconere, lo sponsor tecnico dovrebbe essere adidas, non controllo per non rovinare il mio ricordo, anzi devo controllare per forza perché devo scrivere di quella bellissima stella che faceva da sponsor, blu in campo giallo con la scritta rossa. Non ricordo il nome. La Newcastle Bown Ale, eccola lì. Una birra, immagino. Comunque, avete capito di che maglia si tratta. Ecco, per me Temuri Ketsbaia indossa quella maglia, ancora e da sempre. La usa pure oggi, la mette quando dorme con sua moglie. Ketsbaia era un “quattro stelle” in Premier Manager 99, quello con la faccia di Zaccheroni, lo andavi a scovare nei giocatori sul mercato e lo trovavi con questa maglia fantastica, ovviamente senza capelli, lo acquistavi facilmente anche se allenavi la Lucchese. Era un gioco irreale, perché Ketsbaia era un signor calciatore. Della serie che non sarebbe mai andato alla Lucchese. Il suo percorso: Georgia-Cipro-Grecia e poi il Regno Unito, prima con i Magpies e poi addirittura con The Shirt addosso, l’oro del Wolverhampton. La portata narrativa di Temuri Ketsbaia è impressionante, anche perché dopo il ritiro ha allenato due club in cui ha giocato (l’Anorthosis e l’Aek Atene), la nazionale georgiana, l’APOEL e l’Olympiakos. Tutte squadre con una precisa configurazione etnica o politica, più la selezione di un paese diviso tra Asia ed Europa. La dimensione tecnica non si scinde da questo racconto ad altissimo contenuto: se digiti Ketsbaia su Youtube, trovi un video in cui lo vedi giocare a tutto campo, controllare il pallone solo di destro come fanno i grandi calciatori mancini, dribblare gli avversari, tirare in porta. Il tutto, in un video che si chiama “Temuri Ketsbaia — Georgian Geordie”, si alterna alle immagini in loop di un’esultanza che è rabbia pura. Ketsbaia segna, si mette a torso nudo e comincia a calciare ripetutamente i cartelloni pubblicitari. Lo abbracciano, ma lui continua. La maglia che ha tolto è quella bianca e nera con la stella, Newcastle Brown Ale. È perfetta, anche se non si vede perché è stata lanciata nella curva di St. James’ Park. Lo sponsor è effettivamente adidas.

Aleksandr HLEB

( Аляксандр Паўлавіч Глеб)

“Chiamami vandalo, mi son ben meritato questo nome” dice Bulgakov. Ecco chiamate Aljaksandr Paŭlavič Hleb, classe (nel senso che ne ha dal) 1981, un vandalo: se lo è ben meritato. Non tanti gol, vero, ma una faccia sempre più prossima (tra qualche anno sarà praticamente la controfigura) a Norman Osborn/Green Goblin montata su un metro e ottantacinque centimetri poggiati dentro calzini quasi sempre abbassati, capaci di farlo sterzare e dribblare su piedi montati per fargli toccare la palla di interno come mai nessuno nato a Minsk: è Hleb il vandalo. Vandalo in continuo ritorno da se stesso, oltre che da Borizov. Vandalo perché ha ammesso di aver sprecato una carriera andando via da Wenger per giocare al Barcelona Perché se vinci due campionati bielorussi, una coppa di Lega col Birmingham, e se soprattutto porti l’Arsenal in Finale di Champions League da protagonista (Henry, sì era l’Arsenal di Henry, Pires,etc, ma pure di Hleb), se vinci (ma da non protagonista) il triplete col Barcellona, e a 36 anni continui a girare tra squadre turche, tedesche, bielorusse e russe, sei un vandalo. Tante ne ha cambiate di squadre Hleb, e tanti i calzini, quasi quanto i duecentocinquanta paia fatti in crespo dello scrittore russo espatriato Sergej Dovlatov che la carriera di Aljaksandr Hleb la ricordano bene “Una sola cosa rimase immutata. Per vent’anni sfoggiai calzini color pisello. Li regalai a tutti i miei conoscenti. Ci tenevo dentro le palline per l’albero di Natale. Li usavo come stracci per la polvere. Ci tappavo i buchi negli infissi delle finestre. Eppure il quantitativo di quegli stranissimi calzini sembrava non diminuire mai. L’unica consolazione era il marchio made in Finland”.

Albert SHESTERNYOV

( Альбе́рт Алексе́евич Шестернёв)

Il libero è il ruolo che più di tutti permetteva di guidare una squadra come un burattinaio. Il grande burattinaio del calcio sovietico è un ragazzo dalla voce flebile e dal portamento tranquillo, ma carismatico a tal punto da far silenziare lo spogliatoio per poter ascoltare la sua voce alla fine di ogni partita. Le sue parole sono le ultime sentite prima di entrare in campo e le prime appena finita la gara. Tutti vogliono giocare muovendosi come dice Shesternyov, fidandosi anche perché in campo lui c’è sempre per i compagni in difficolta ed il giocatore più veloce ad arrivare in copertura sul pallone in caso di errore (il passato da sprinter lo porta a fare i 100 metri in 11 secondi netti, all’epoca record regionale a Mosca). Più giovane debuttante della storia del CSKA (17 anni), più giovane capitano (dai 21 anni), gioca per la squadra dell’Armata Rossa tutta la carriera. Coronata nel 1970 con il primo titolo della squadra dopo 19 anni di digiuno. Miglior difensore del calcio sovietico, per tre anni dal ’68 al ’70 entra sempre nella top 15 del Pallone d’Oro. Angustiato dall’isolamento del calcio sovietico dal resto del mondo, che non permetteva di apprendere da altre scuole e di migliorare il proprio gioco, Shesternyov è un libero dal gioco cerebrale che vede il calcio come una grande partita di scacchi, riteneva necessario non solo studiare gli avversari in campo prima di capire come affrontarli, ma anche approfondire nella preparazione prepartita ogni aspetto, non solo quello tattico. È soprattutto quello psicologico che gli interessa e dove pensa si vinca veramente la partita. Con la preparazione, il suo talento in campo e la sua dote di lettura del gioco riusciva a prevedere ogni mossa avversaria, tanto da far nascere la leggenda che potesse leggere nella mente dei rivali. Tanto terrorizza gli attacchi avversari anche in Europa, che la stampa internazionale su imbeccata del corrispondente inglese inizia a chiamarlo Ivan il Terribile come il grande sovrano che fece la Russia. A discapito del soprannome Shesternyov è sempre calmo e posato in campo come fuori, non alza mai la voce e non sopporta chi si fa prendere dalla foga o chi abbandona i dettami del gioco corretto. Addirittura si rifiuta di fare interventi da dietro e anche solo di vederli in campo perché ritiene siano pericolosi e scorretti e non si capacita di come (all’epoca) il più delle volte questi interventi non risultino in un cartellino.

Ramaz SHENGELIA

( რამაზ შენგელია / Рамаз Александрович Шенгелия)

L’ala ambidestra Ramaz Shengelia, ultimo portatore sano di quella grande tradizione che la leggendaria Dinamo Tblisi asperse ai lati del rettangolo verde, fu anche nobile precursore di quegli attaccanti che oggi vanno a ruba sulle pagine del calciomercato estivo, quelli che nonostante superino di poco il metro e 70 sanno giocare sia sull’esterno che da punta centrale di movimento. Velocissimo, implacabile in area come sotto rete, tecnica di base sontuosa, tiro preciso e senso del gol altrettanto vispo, Shengelia costituì insieme a Blochin e Gavrilov l’ultimo trio delle meraviglie sovietico con il CCCP sulla maglia.

Alan DZAGOEV

( Алан Елизбарович Дзагоев)

Quando ho appreso che Alan Dzagoev non avrebbe partecipato agli Europei di Francia causa infortunio mi è preso il solito attacco di nostalgia tipico dei momenti in cui realizzo che si, il tempo sta passando anche per me. Poi, però, ho voluto approfondire e mi sono reso conto dell’errore: Alan Dzagoev aveva “solo” 26 anni. E, a quel punto, non so se sia stato maggiore il sollievo cullato dalla speranza che avrei potuto ammirarlo almeno ai Mondiali del 2018 a casa sua o l’inquietudine dovuta al fatto che uno così stesse ancora a “svernare” (mille e una virgolette) nella squadra dell’armata rossa. Ed è proprio con la maglia del CSKA addosso che mi accorsi di lui nell’aprile del 2010: l’Inter, sulla strada per Madrid, fece scalo a Mosca certificando il passaggio alle semifinali con la solita punizione maligna di Sneijder dopo minuti sei. In un secondo tempo che si trasforma in un commovente, ma inutile, assalto all’arma bianca butto l’occhio su questo numero 10 gracilino che, a un certo punto, prova l’impossibile: controllo su un pallone che rimbalza male, sombrero a Walter Samuel (ripeto: sombrero a Walter Samuel versione 2010) e sforbiciata volante con il pallone che finisce direttamente a San Pietroburgo. Ma non importa. In quel momento, in un’epoca in cui la concezione italica del calcio russo non va oltre Arshavin, decido che Alan Dzagoev diventerà uno dei miei giocatori preferiti. E l’audacia tecnica di quel gesto c’entra, ma fino a un certo punto. A colpirmi sono gli scarpini: Mizuno classiche, nere, essenziali. Un unicum nell’epoca dei colori fluorescenti e delle divise lisergiche; una sorta di anello di congiunzione tra antico e moderno, con la figura del trequartista puro che stava progressivamente scomparendo sull’altare degli ibridi esterni/mezze punte/falsi nueve. Dzagoev sapeva (sa) fare tutto e farlo, sapeva (sa) calciare le punizioni come pochi al mondo, sapeva (sa) ribaltarti una partita in un minuto dopo 89 di annoiato girovagare per il campo, sapeva (sa) quando essere Mario Brega con palla (“sto destro po esse fero e po esse piuma” semicit.). Il problema è che ha voluto (vuole) farlo solo dalle parti sue, apparendo molto più vecchio dei suoi 27 anni e, di conseguenza, facendo sentire più vecchio anche me. Forse perché, da quel giorno d’aprile, si è messo anche lui a indossare scarpini fluorescenti.

Igor’ Vladimirovič AKINFEEV - Игорь Владимирович Акинфеев

Diciamo la verità, la prima ondata generazionale dei millennials è arrabbiata con Akinfeev. Non esiste 20enne che non abbia testato questo calciatore in un videogioco, dato che le sue medie erano spesso e volentieri formidabili, quasi fosse una sottospecie di Yashin. La risposta dell’est ai Dida e ai Canizares. Invece Igor ha deluso tutti, è rimasto un semplice portiere timoroso di provare l’esperienza al di fuori della Grande Madre Patria. Eppure, essere per anni il capitano silenzioso del CSKA Mosca ha donato un’aura leggendaria al numero 1 della capitale, a prescindere dalla sua ribalta mancata fuori dalla Russia.

Viktor ONOPKO

( Виктор Савельевич Онопко)

Il periodo della dissoluzione dell’Unione Sovietica è stato un periodo di grande confusione e contraddizioni in cui improvvisamente sono venute a mancare certezze quasi secolari. Anche lo sport ha visto l’abbattimento improvviso dei programmi statali e l’arrivo di oligarchi e avventurieri in quello che diventa una giungla dove regna il più forte. In questo periodo di tumulto c’è bisogno di una figura che riesca come un muro a reggere l’ondata che rischia di far crollare tutto il calcio russo. Quel muro sono i 190 centimetri di Viktor Onopko, un moderno Atlante in grado di sorreggere la volta celeste di un movimento dalla storia illustre che si sgretola a vista d’occhio. Onopko è l’uomo che tiene in piedi le spoglie della selezione sovietica, divenuta poi CSI e infine solo Russia. Lui che poteva scegliere di giocare per la nata Federazione Ucraina e che invece diventa capitano e simbolo dei primi due lustri di calcio della Federazione Russa. Prima di lui nessuno raggiunge e supera le 100 presenze. Praticamente da solo si occupa di un passaggio di consegne dalla nazionale allo sbando di un campionato in crisi economica e senza stelle a quella pronta a rinascere di un campionato foraggiato dai soldi oligarchi. Possente, tecnico, tatticamente intelligente, famoso per i takle scivolati, le coperture, la falcata imprendibile palla al piede quando vedeva un varco e la minaccia aerea che è in grado da solo di garantire. In carriera finisce per giocare in ogni ruolo lungo l’asse centrale ed era pratica comune dell’allenatore di turno avanzarlo a fare la prima punta nelle partite da sbloccare nel finale. È il padrone del nuovo campionato Russo nato nel 1992, che vince per tre anni di fila con lo Spartak Mosca venendo nominato due volte miglior giocatore del torneo. Quando parte la diaspora dei talenti russi verso l’Europa lui sceglie la Spagna, convinto di aver firmato per l’Atlético Madrid, ma l’agente l’aveva truffato e al suo arrivo si ritrova con un contratto firmato per il più modesto Real Oviedo. Nelle Asturie però Onopko diventa uno delle leggende storiche della lunga permanenza in Liga della squadra che anche grazie a lui resiste in liga per altri 7 anni consecutivi. Ho sempre pensato che fosse nato anche solo cinque anni prima sarebbe stato una delle colonne della nazionale URSS che gioca la Finale dell’Europeo ’88 contro l’Olanda e invece si deve accontentare della magra soddisfazione di annullare Gullit nell’inutile 0–0 dei gironi dell’Europeo successivo con una Russia ridimensionata dagli eventi e che esce mestamente ai gironi.

David KIPIANI

( დავით ყიფიანი)

In assoluto il più forte calciatore ad aver mai indossato la maglia della Dinamo Tblisi, David Kipiani era un numero 10 alto 1 metro e 84 quando la maggior parte dei numeri dieci gli arrivavano al fianco. Aveva iniziato la carriera da attaccante e quindi aveva una chiara visione della porta, ma le sue armi migliori erano il dribbling ubriacante, funambolico nonostante il suo passo dinoccolato e quell’aria da trentenne invecchiato precocemente in mezzo alle risme di carta di un ufficio polveroso, e soprattutto i suoi lanci da 40–50 metri, in grado di tagliare in due il campo e illuminare la via della porta per i compagni. Faceva l’elastico prima ancora che nascesse Ronaldinho, la veronica quindici anni prima di Zidane, e il cambio di direzione spalle all’attaccante vent’anni prima di Totti. Con la maglia blu della Dinamo vinse, tra le altre cose, un titolo sovietico nel 1978 e una Coppa UEFA nel 1981, quando la Coppa UEFA era di gran lunga più divertente della Coppa dei Campioni.

Andrej KANCHELSKIS

( Андрей Антанасович Канчельскис)

La storia di Kanchelskis è tormentata, densa di alti e bassi, fortune e sfortune, dicerie e fatti. La sua carriera parte subito a cannone, dalla Dinamo Kiev allo United: primo anno esordio, secondo metà delle partite giocate, terzo e quarto anno protagonista delle vittorie dei Red Devils. In quel momento era titolare in una delle squadre più forti al mondo. Poi, a quanto pare, litiga con Ferguson e dietro a lui c’è un’ala giovane, un biondino con un gran destro, che scalpita. Andrej se ne va, Beckham si prende quella fascia destra.
Viene venduto all’Everton, acquisto più costoso della storia dei Toffees, e gioca alla grande. Passa quindi alla Fiorentina quando in Italia c’erano i soldi che sprizzavano dalle tasche dei ricchi intrallazzoni, all’epoca presidenti delle sette sorelle. Era l’acquisto più atteso ma Candela prima, poi Taribo West e infine Pagliuca in un incontro tra nazionali gli maciullano la gamba sinistra. È già tanto se riesce di nuovo a correre. Da lì si va in declino, voci di ogni tipo gli girano intorno, va ai Rangers, litiga con l’allenatore, va al City che retrocede, poi al Southampton giocando praticamente mai. Alla fine prende la decisione più saggia: va a prendersi dei soldi in Arabia e poi torna in Russia per la cui nazionale lui, ucraino, aveva comunque scelto di giocare.

Anatoliy TYMOSHCHUK

( Анатолій Олександрович Тимощук)

La carriera del mediano ucraino per eccellenza ci si manifesta un po’ come il suo ruolo in campo: sembra anonima e una delle tante e invece, numeri alla mano, è il contrario. Una Champions in Baviera, Coppa e Supercoppa UEFA con lo Zenith, campionati e coppe nazionali a manciate. Tymoshchuck è stato il classico calciatore per cui allenatori come Mourinho, Ancelotti e Conte darebbero ancora oggi un rene, pur di averlo in squadra. Biondissimo, diafano, altezza media, otto polmoni e piede nemmeno troppo ruvido, tre volte calciatore ucraino dell’anno, se n’è andato ad appendere gli scarpini in Kazakhistan vincendo altri due trofei, tanto per gradire.

Aleksandr ANYUKOV

(Александр Геннадьевич Анюков)

Prima della Cina, a inizio millennio, c’era un altro mercato che sembrava dover esplodere ed in più aveva anche una gran tradizione alle spalle, ed era il mercato russo. Questo per via dell’interessamento degli oligarchi nei confronti del mercato europeo e per via di uno squadrone come lo Zenit San Pietroburgo che aveva un giovane russo come pilastro e questo era, ed è tutt’ora oggi un pilastro, Aleksandr Anjukov. Difensore tuttofare, bravissimo a marcare e ad offendere, capace di seguire ogni direttiva tattica che un allenatore gli possa dare. Un soldato dello Zar.

Stanislav Salamovič ČERCHESOV- Станислав Саламович Черчесов

Nato quando Nikita Chruščëv era presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo, quando ancora Jashin era un formidabile calciatore, cresciuto con questo mito ingombrante, ha giocato in giro per vari club di Mosca, e già questo è interessante, perché testimonia la sua capacità di adattamento al terreno di scontro, fondamentale per un portiere, specie per uno con un’eredità così pesante come quella del Ragno Nero prima e di Dasaev poi. Čerčesov ha provato anche l’esperienza straniera, dopo la riunificazione della Germania, giocando nella Dinamo Dresda.

Andrej ARSHAVIN

( Андрей Сергеевич Аршавин)

Le braccia aperte, i palmi rivolti verso l’alto, il labbro inferiore in fuori e quegli occhi che dicono: «Beh, che ho fatto?». È questa la prima immagine di Arshavin che ricordo, scattata durante la partita che l’ha fatto conoscere al grande pubblico: Olanda-Russia di euro 2008. Arshavin è una spina nel fianco degli Oranje per tutta la partita e finisce per decidere la gara ai supplementari con un assist — un cross dalla linea di fondo che mette il suo compagno davanti alla porta spalancata, effettuato con forza e precisione dopo aver seminato il proprio avversario — e un gol, insidioso diagonale che, leggermente deviato, si infila tra le gambe di van der Sar. I suoi lampi sono il fiore all’occhiello di una Russia brillante, lontana parente da quella che si è vista in Francia.

Con quella partita, una stella si era finalmente rivelata al calcio mondiale, dopo aver già vinto una serie di premi individuali in Russia ed alcuni trofei, tra cui un campionato e una Coppa UEFA, con lo Zenit. A 28 anni, e quindi piuttosto tardi, Arshavin approda all’Arsenal di Wenger nel gennaio 2009. Nel mese di aprile, con indosso la maglia gialla da trasferta dei Gunners fa venire gli incubi ai tifosi del Liverpool, segnando 4 reti ad Anfield durante un incredibile scontro finito 4–4. Queste due gare, durante le quali Arshavin si è reso protagonista di momenti che resteranno nella storia del calcio, rappresentano i picchi più alti del suo talento fatto di dribbling, accelerazioni e conclusioni sorprendenti.

Ma uno dei motivi per cui mi piace Arshavin è anche il suo aderire completamente alla retorica del campione che cade vittima della propria discontinuità e finisce per fare una fine infame. Criticato per la sua scarsa attitudine al sacrificio e al rigore, il numero 23 dell’Arsenal si spegne dopo una stagione e mezzo, finisce ai margini dello spogliatoio e, a 30 anni, è già praticamente finito. Inviato in prestito allo Zenit nel 2012 e poi rispedito al mittente, torna allo Zenit nel 2013, dove gioca senza brillare e soprattutto segnando poco. Dopo una breve esperienza al Kuban Krasnodar, ora gioca nel Qaýrat Fwtbol Klwbı, squadra di Almaty, Kazakistan. Dopo aver pensato al ritiro alla fine dell’esperienza in Premier, Arshavin ha cercato un posto dove far brillare ancora qualche scintilla.

Henrikh MKHITARYAN

( Հենրիխ Մխիթարյան)

Mkhitaryan ha fatto subito breccia nella mia sfera emozionale, perché, con quel cognome, avrebbe potuto suonare nei System of a Down. È diventato uno dei miei preferiti tra gli idoli insoliti del calcio europeo anche perché è «diventato grande» giocando nel Dortmund, che ha colori inconfondibili e tifosi autentici e calorosi.

Dopo tre anni allo Shaktar — nel primo lotta per una maglia, nel secondo si afferma, nel terzo spacca tutto segnando 25 gol in 29 partite — a Dortmund, con la maglia numero 10, Mkhitaryan è stato un po’ tutto quello che si possa desiderare da un centrocampista offensivo: dotato di ottima tecnica e di un tiro da cecchino, ha fatto vedere gol dalla distanza, assist in profondità per gli altri «ragazzi terribili» di Klopp e poi Tuchel, pregiati tocchi da fantasista.

Con la maglia della nazionale di calcio dell’Armenia (che in armeno si dice Հայաստանի ֆուտբոլի ազգային հավաքական), è stato semplicemente il migliore mai visto, a livello di qualità, traguardi raggiunti in carriera e numeri (19 gol in 59 presenze and counting). Al momento è l’unico giocatore della nazionale che giochi in uno dei maggiori campionati europei, e ha vinto il titolo di miglior giocatore armeno per cinque volte, dal 2009 a oggi (saltando solo il 2010).

Agli ordini di Mou, Mkhitaryan ha messo a segno un gol «dello scorpione» proprio nel momento in cui si diceva che, tra tutti gli assistiti di Raiola portati a Manchester nell’estate 2016, lui fosse quello che stava facendo più flop di tutti. L’attuale numero 22 dello United ha definito questa rete «la più bella che ho segnato fino ad ora in carriera»

Sergeij ALEJNIKOV

( Сярге́й Яўге́ньевіч Але́йнікаў)

Ah Italia! Recitava una ignobile ma prosperosa pubblicità di chissà cosa, ma che del nostro paese aveva un’idea stereotipata e immobile. Eppure per alcuni calciatori giunti a cercare fortuna (più che a lasciarne), l’Italia in un ventennio tra la fine degli anni Ottanta e la fine degli anni Zero è stata una metà attraente al punto, poi, di restarci anche dopo. Il polivalente centrocampista Sergej Evgen’evič Alejnikov, icona della Dinamo Minsk, squadra con la quale ha totalizzato 220 presenze, giunse alla Juventus dopo un intrigo fatto di calzature sportive e contratti ministeriali russi, per restarci in fondo una sola stagione e finire per farne due a Lecce, ben lontano dai fasti che l’avevano visto giocarsi una finale europea solo nel 1988. Ma dopo l’esperienza esotica con il mitico Gamba Osaka in Giappone, eccolo tornare per chiudere la carriera nella serie D calabrese (!). Fortuna che nel contratto con la Juventus aveva ottenuto anche due auto della Fiat, altrimenti ti voglio a fare su e giù sulla Salerno-Reggio Calabria…

Georgi KINKLADZE

( გიორგი ქინქლაძე)

Il Maradona di…quanti posti? Dalle Alpi alle Piramidi, da Buenos Aires a Mergellina, di quasimaradona ce ne sono stati in grandi quantità. Georgi Kinkladze, nato in Georgia, ha goduto anche lui dell’appellativo, in virtù di un piede sinistro fatato e di una capacità di saltare l’’uomo in velocità davvero sorprendenti. Dopo aver girato a lungo e prima di tornare a farlo, è solo al Manchester City di metà anni Novanta che trova la consacrazione di una carriera ad alti livelli, affermandosi per le sue progressioni inarrestabili e per quel dribbling secco che pochi difensori sono stati in grado di arginare. Quando avrete, alieni cari, da far vedere come si tocca un pallone, non dimenticate di mostrare il suo piede sinistro.

Evgenij RUDAKOV

(Евгений Васильевич Рудаков)

Nella storia del calcio un solo portiere è stato premiato con il Pallone d’oro: il Ragno nero, Lev Jašin. A Evgenj Rudakov è toccato il ruolo più difficile di tutti, essere il suo successore. Non far rimpiangere il numero uno più forte di sempre deve avergli tolto più di un’energia. Nato a Mosca, cuore della Russia, è diventato un idolo laddove i russi sono sorti originariamente, Kiev. Gambe lunghe, fisico imponente, ma un’agilità esplosiva nascosta in quel metro e novanta.

Il passaggio di consegne con Jašin è avvenuto nel 1968: due Europei speciali in maglia rossa, terminati uno a Napoli con la sconfitta per colpa della monetina e l’altro nel ’72 con il secco 3–0 imposto dalla Germania di Müller e Beckenbauer. Non sarà stato appariscente come il suo precedessore o il suo successore Dasaev; resta il fatto che in un paese con una storia tra i pali “normale” sarebbe stato di gran lunga il miglior portiere della nazione.

Shola ARVELADZE

( შოთა არველაძე)

Shota Arveladze nasce inizialmente, nella mia mente, come bandierina. Erano gli anni dei primi manageriali di calcio — non quelli belli; quelli un po’ così, oggettivamente, ma divertenti — ed erano ancora gli anni del tetto massimo di stranieri, sia pure ormai solo extracomunitari. Sicché il buon Arveladze aveva la sua bella bandierina a fianco del nome, una bandierina che ti ricordava di acquistarlo solo dopo ponderata riflessione; era una bandierina rossonera, carinella, ora messa in soffitta in nome di una nuova bandiera tamarrissima e con radici tanto antiche e gloriose quanto verosimilmente inventate, almeno a sentire i vessillologi (io una volta sono stato a un convegno di vessillologi; ma non vorrei divagare, e comunque non abbiamo parlato di Arveladze). Poi alla fine lo acquistavi lo stesso, perché stiamo comunque parlando di una punta dell’Ajax. I georgiani uno se li immagina bassetti, tozzi e tecnici; Arveladze era soltanto molto tecnico, per il resto era piuttosto alto e slanciato, ma aveva dei caucasici una certa pignolissima ferocia, che gli consentì ad esempio di cancellare con un tocchetto furbo e preciso la rimonta dell’Udinese di Poggi e Bierhoff nella Coppa Uefa 1997/98, in una partita storica e sul punto di diventare epica per il club friulano; la stessa ferocia gli consentì anche di giocare anni da protagonista con una maglia detestabile quale quella dei Rangers, oltretutto quando costoro erano arroganti dominatori della scena patria. D’altra parte Arveladze aveva l’asma cronico e l’Unione Sovietica era crollata, uno dovrà pur arrangiarsi, anche a costo di fare un po’ lo stronzo.

Gennadij LITOVCHENKO

( Геннадій Володимирович Литовченко)

Di Gennadij Vladimirovič Litovčenko so poco. Pare che fosse un centrocampista dai piedi buoni e insieme un grande atleta, come molti ucraini della sua generazione, segnati dal modello sportivo sovietico e da quello calcistico di Lobanovskij. Ma di giocatori simili, appunto, ce n’erano altri, forse migliori di lui, e certamente più noti. Vinse parecchio in carriera, ma più che altro in patria, e comunque non abbastanza per essere ricordato; io, in effetti, lo ricordo solo perché nell’estate del 1988 segnò un gol all’Italia, un gol amaramente decisivo: erano le semifinali di un Europeo giocato in Germania e il suo gol, cui fece seguito qualche minuto dopo quello di Protasov, ci escluse dalla finale. Non so se quanto sto per scrivere avvenne dopo il gol di Litovčenko o a fine partita; ricordo solo me stesso, un bambino, in lacrime ai piedi della scalinata bianca, all’epoca nuova e ai miei occhi bella, della casa di mio nonno. Mio nonno era in cima alla scala, appoggiato alla balaustra, e non piangeva; rideva, anzi, perché lui tifava Unione Sovietica Ogni volta che racconto questo aneddoto la gente ride o sorride. Ma io vorrei avere qui con me Gennadij Vladimirovič Litovčenko, benché io non parli una parola di russo o di ucraino, perché mi aiuti a spiegare a tutti che questo è un aneddoto tragico sotto diversi punti di vista, e più lo giri più è tremendo. Tenete Litovčenko, vi prego, e portatelo da me.

Volodymyr BESSONOV

(Володимир Васильович Безсонов)

Se alieni appassionati di calcio fossero arrivati sulla Terra nel 1977, avrebbero chiesto in dono due calciatori, con criteri assolutamente oggettivi e incontestabili: il Pallone d’oro Allan Simonsen del Borussia Mönchengladbach, fresco perdente nella finale di Coppa Campioni con il Liverpool, e il terzino sovietico di Charkiv, Volodymyr Bezsonov. In quel momento è un levriero che corre sulla fascia destra ad ampie falcate, veloce e leggero. Il destro alterna piuma a ferro, perchè puoi calciare, crossare ed inserirti divinamente, ma alla fine se sei un terzino per giunta sovietico negli anni ‘70–80, devi saper fare il tuo mestiere: frustare, a suon di scivolate, l’ala avversaria.

Vagiz KHIDYATULLIN

( Вагиз Назирович Хидиятуллин)

25 giugno 1988, Olympiastadion di Monaco di Baviera. Ore 16 40. L’arco di una parabola olandese sorvola un cielo tedesco da cui un manipolo di russi cade, restando per sempre sulla terra. Lì, tra le assi di legno e un boato, quattro uomini allora sovietici nello stesso momento si bloccano in linea quasi perfetta e lasciano cadere le braccia lungo il corpo. Vagiz Nazirovich Khidiyatullin portava la maglia numero 3; ed era uno di loro. Uno stopper roccioso, libero all’occorrenza, capace di tempismo ma non particolarmente dotato in impostazione. Ma quello non era il calcio dei difensori eleganti, delle retrovie agghindate per la premiere, era il calcio in cui queste cose avvenivano solo in attacco, solo per i piedi di certi fuoriclasse che poi un giorno te li trovi davanti, tu hai fatto il tuo e poco ci resta. È in quel poco che si infila la storia. Basta un pomeriggio di giugno. E non puoi far altro che restare a guardare.

In quel 1977 l’URSS vince il Mondiale Under 20 in Tunisia grazie alle giocate di Bezsonov, che segna due reti nella finale contro il Messico e si porta a casa il premio di miglior calciatore del torneo. Diventa quindi inevitabile la sua ascesa tra gli astri assieme agli alieni e a Simonsen.

Sergej Ignaševič

(Сергей Николаевич Игнашевич)

Ignaševič sembra esistere da quando il calcio russo ha ammainato la bandiera rossa sul Cremlino in un freddo Natale del 1991. In realtà in quel momento ha 12 anni e solo nel 1998 raggiunge il calcio dei grandi nella “ridente” città industriale di Orekhovo-Zuyevo, luogo di nascita di uno dei primi soviet nel 1917. Cresce rapidamente diventando una montagna di centimetri e muscoli. Gli inizi del Duemila sono il suo periodo d’oro tra le maglie della Lokomotiv e del CSKA, che porta ancora oggi. Sembrava fosse in procinto anche di venire in Italia ma poi non se ne fece più nulla. Scompare dai consueti e non attenti radar dei calciofili, per riapparire solamente con la nazionale russa: nell’estate del 2016 all’Europeo francese ha deciso di lasciare dietro di sé una galleria di lanci lunghi misteriosi, espressione barocca e per nulla concreta di una Russia anni ’90 che non c’è più.

Artem MILEVSKIJ

(Артем Мілевський)

Laureato e forte, tanto da venire additato come erede di Ibra ancor prima che lo svedese divenisse una vera star Mondiale. Artem Milevskij avrebbe dovuto e potuto continuare la linea dinastica di grandi attaccanti prodotti dalla Dinamo Kiev tra anni ’90 e 2000: Rebrov–Shevchenko–Milevskij. In realtà, nonostante 13 anni alla Dinamo e sei in nazionale, la tanto attesa esplosione non è mai arrivata. Un giro infernale nell’Europa dell’Est — tra Turchia, Kazakistan, Croazia e Romania — l’ha portato a Tosno, dove il club locale gioca nella seconda divisione russa. Il perché? Le tante Zapoj, ovvero maratone alcoliche a cui Milevskiy si è sottoposto con una certa continuità. Di lui ci rimangono due stagioni in doppia cifra, altrettanti premio da giocatore ucraino dell’anno e un Panenka con silenziatore contro la Svizzera al Mondiale 2006.

Anatolij Fëdorovič BYSHOVETS

(Анатолий Фёдорович Бышовец)

Anatolij Byšovec ha vissuto nella sua carriera due vite, una da calciatore, l’altra da allenatore, con un solo grande antagonista: Valerij Lobanovs’kyj.

Quando Byšovec è arrivato alla Dinamo di Kiev nel 1963, Lobanovs’kyj era già famoso per le sue punizioni e per la vittoria del campionato di due anni prima. Una sola stagione assieme basta a generare una rivalità calcistica profonda. Kiev diventa piccola per la fantasia di entrambi, così il Colonnello si trasferisce ad Odessa. Byšovec prosegue con successo la sua esperienza “ucraina” vincendo 4 campionati, prima di infortunarsi al ginocchio e interrompere la sua carriera a 27 anni.

Da quel momento ne inizia un’altra, quella di un giovane allenatore under-40. Va sulla panchina prima delle giovanili sovietiche poi della nazionale olimpica che sbanca Seoul ’88. I suoi successi vengono quasi oscurati in patria dai risultati di Lobanovs’kyj sia con la Dinamo Kiev (in campionato e in Europa) che con la nazionale maggiore (anche se a casa non porta trofei al contrario di Byšovec). Sceglie quindi di scendere sul terreno di gioco del confronto tra club sedendosi sulla panchina della Dinamo Mosca. Il 1990 però sancisce la vittoria del Colonnello: con tre punti in più della D.Mosca, la Dinamo Kiev vince il 7° campionato con lui.

La fine dell’URSS divide del tutto le loro strade: Lobanovs’kyj sceglie la via ucraina, Byšovec quella russa, guidando anche la triste esperienza del CSI ad Euro ’92. Una rivalità eterna tra i confini sovietici.

Viktor Vladimirovič PONEDELNIK

(Виктор Владимирович Понедельник)

Una volta (molto tempo fa) esisteva l’American Dream, un concetto che il mondo “orientale” non riusciva a sconfiggere con nessun’altra favola mediatica. Fossi stato in loro, invece avrei preso la storia di Viktor Ponedel’nik, ci avrei fatto venti film o libri e l’avrei denominata Советская мечта, il sogno sovietico.

Inizio. La sua storia affonda le radici nell’800 quando l’Imperatore Alessandro II abolisce la servitù della gleba; tutta quella massa di persone finalmente libera deve essere registrata e così è anche per gli antenati di Viktor. Non si sa bene per quale motivo (anche se viene spontaneo pensare a qualche vodka in più del solito) ma all’interno di quel registro la famiglia viene segnata come i “Ponedelnik”, tradotto letteralmente i “Lunedì”. Il giorno in cui si recano in quell’ufficio diventa il loro cognome.

Protagonista e difficoltà. Viktor nasce nel ’37 sulle rive del Don a Rostov. La guerra e l’invasione tedesca spinge lui e la sua famiglia prima a soffrire la fame e poi lontano a Tbilisi. Quando torna a casa cresce nella squadra della città, l’attuale FK Rostov, allora Rostsel’maš, e poi si trasferisce nel club dell’Armata rossa sempre lì sul Don. Peccato che la squadra militi in seconda divisione, ma a suon di goal Ponedel’nik cerca di farsi notare. Gli effetti si vedono quando diventa il primo calciatore di “Serie B” ad essere convocato in nazionale. Molti detrattori parlano male di lui e il clima che lo accoglie è freddo come fosse gennaio in Siberia.

Soluzione. L’Europeo del 1960 gli dà l’occasione di farli tacere. Si gioca di domenica a Parigi la finale tra URSS e Jugoslavia: la partita si trascina ai tempi supplementari, facendo sì che intanto a Mosca di fatto non fosse più domenica, ma lunedì. È in quel momento che il советская мечта di Viktor si realizza e che l’errore involontario di un impiegato ubriaco si trasformi in una premonizione del momento più alto della vita di quella famiglia: con una capocciata andando indietro con il corpo segna la rete decisiva e consegna l’Europeo all’URSS.

Ultima immagine. Ponedel’nik di lunedì alza la coppa mentre sullo sfondo sventola la bandiera rossa nel blocco occidentale.

Конец, the end.

Sehiy Rebrov

Ricordo di aver sentito parlare di lui per la prima volta alla vigilia della doppia sfida Juventus-Dinamo Kiev della Champions League 1997/98. Non c’era Youtube e i giornali parlavano della pericolosità della squadra ucraina lodando il talento Andriy Shevchenko e la rapidità e la freddezza del più esperto Serhiy Rebrov. In effetti, fu proprio Rebrov a riportare la gara di ritorno in parità, ribattendo in rete un intervento un po’ goffo di Peruzzi su tiro dalla distanza. Passò la Juve, ma in quella stagione Rebrov segnò 37 gol in 48 partite, il suo record personale di sempre.

Rebrov sarà sempre ricordato come il partner d’attacco di Sheva nella Dinamo degli anni ’90 e, un anno dopo la partenza di Sheva per Milano, lascia anch’egli l’Ucraina per accasarsi al Tottenham. Siccome certi amori non finiscono fanno dei giri immensi e poi come va a finire lo sapete anche voi, Rebrov è tornato alla Dinamo nel 2005 dopo cinque stagioni trascorse tra la Premier e la Turchia. Detentore del record di miglior marcatore con la maglia della Dinamo nelle competizioni UEFA (31), Rebrov ha collezionato un’abbondante serie di trofei e premi individuali in Ucraina. Dal 2014, è alla guida del club come allenatore.

Igor Kolyvanov

Igor Kolyvanov è stato una costante del campionato italiano negli anni ’90 e nelle figurine Panini non sorrideva mai (solo un pochino, forse, qui, con la maglia del Foggia). Ha fatto in tempo a vincere l’Europeo Under 21 con l’URSS in finale contro la Jugoslavia, una partita che pochi mesi dopo non sarebbe più esistita storicamente. Arrivato in Puglia giovanissimo e lanciato da Zeman nella stratosfera, in Italia si è fatto benvolere, prima dai tifosi dei satanelli, poi dai tifosi del Bologna. In maglia rossoblù, Kolyvanov ha giocato in un interessantissimo tridente d’attacco insieme a Kenneth Andersson e Roberto Baggio. Ricordato con grande affetto a Foggia, nel 2010 è ritornato (visibilmente invecchiato e appesantito) per partecipare alle celebrazioni per il novantennale della società. Un suo gol segnato proprio in maglia rossonera contro il Genoa è uno dei migliori ricordi che Kolyvanov ha lasciato in dono alla Serie A; ci sono potenza e poesia nel suo sinistro, che scagliato da appena dentro l’area che si infila sotto l’incrocio dei pali opposto.

Oleg BLOCHIN

(Олег Владимирович Блохин)

Blochin è innanzitutto uno dei palloni d’oro meno noti del mondo, ma perché il calcio è eurocentrico. Se il “calcio moderno” è quello che è, molto lo si deve a quando giocava Blochin negli anni ’70 quando quel genio di Valerij Lobanovs’kyj fece di lui un “Crujiff ucraino” e punto di riferimento del calcio totale della Dynamo Kiev, probabilmente la cosa più vicina mai vista alla perfezione tattica e quello che poi si sarebbe visto 35 anni dopo con il Barça di Guardiola che ci arriva dopo tanti e tanti esperimenti in giro per l’Europa perché il primo a teorizzare un calcio scientifico, fatto di collaborazioni con le Università e con le grandi menti del mondo, lo ha teorizzato proprio Loba. Blochin era la chiave di volta degli ingranaggi perfetti del Colonnello che vedeva in Blochin un vero soldato che seguiva ossequiosamente i suoi ordini e quelli del fido Petrovski, il preparatore atletico della nazionale olimpica sovietica oltre che preparatore della squadra di Kiev. Blochin era un mancino naturale dotato di un gran dribbling, velocissimo e intelligentissimo ma proprio con Petrovski dopo durissimi allenamenti con ore ore di tiri col destro alla cieca con la porta divisa per quadranti lo rese letale anche col piede destro. Blochin era la perfezione calcistica sovietica, il corrispettivo calcistico (e un po’ più basso) di Ivan Drago di Rocky IV. Un genio rivoluzionario, calciatore avatar di un genio rivoluzionario in panchina.

Slava MET’REVELI

(Слава Калистратович Метревели)

L’Europeo in Francia nel ’60, il primo della storia, se lo giocarono in finale due nazioni che oggi non esistono più: Jugoslavia e URSS. Un europeo profondamente politico, come tutto il calcio di quel periodo, in cui la Spagna di Francisco Franco rinunciò alle qualificazioni che si sarebbero dovute giocare nella Russia Comunista per motivi politici e che 4 anni dopo avrebbe organizzato e vinto i propri europei. Nel 1960 l’URSS era guidata da Lev Jashin, ma l’Europeo arrivò grazie ad un georgiano, Metreveli. Per l’italiano medio “Georgia” è sinonimo di Kahladze, ma c’è stato uno che ha aperto la via, ed è proprio Metreveli che segnò il gol più importante della storia sovietica quando segnò in finale rispondendo alla rete slava.

All’epoca si giocava ancora con 5 punte e Metreveli era un trequartista di intermezzo. Doveva creare, e creava. Grazie a lui la Dinamo Tbilisi riuscì anche a vincere il campionato sovietico ed è l’unica squadra, oltre agli armeni dell’Arat, ad aver vinto il campionato tra le nazioni “minori” dell’Unione Sovietica del calcio. Tutti gli altri titoli sono andati a russi ed ucraini.

Anatolij DEMYANENKO

( Анатолій Васильович Дем’яненко)

Date una fascia su cui correre ad Anatoly Demyanenko, cuore e polmoni della Dinamo Kiev del colonnello Lobanovski e della Nazionale sovietica degli anni ‘80, piede destro che giocava a sinistra nel calcio totale che ha rivoluzionato l’est, un culto nel culto. Per il resto, cinque campionati sovietici, quattro coppe nazionali e tre supercoppe, e addirittura un titolo ucraino nel 1992–93, a suggello di una carriera leggendaria. Difensore, ma non basta, ala, ma nemmeno, profilo sinistro della concretezza che si fa filosofia, e quindi rappresentazione, e quindi gioco.

Roman PAVLYUCHENKO

( Роман Анатольевич Павлюченко)

Quella di Pavlyuchenko è una vicenda di croci e di fortezze. Se è vero quello che ripeteva quel poeta leningradese semi-sconosciuto “La Russia è un terrificante paese da sballo”, Pavlyuchenko Roman è un po’ Russia: un terrificante attaccante, ma da sballo. Chiedetelo agli inglesi e alle loro speranze di qualificarsi agli europei del 2008 in Austria e Svizzera: Roman gliene fa due (non lo chiedete a Redknapp e al Tottenham che ci hanno già messo una croce sopra, anche se numeri alla mano ne fa comunque 14 alla prima stagione). Potete però chiederlo agli olandesi: Pavlyuchenko porta la Russia a essere tra le prime quattro squadre d’Europa. Una fortezza, quasi centonovanta centimetri d’altezza, come fortezza è la sua città natale: Stavropol, l’avamposto dell’impero creato, si dice, da Grigori Potëmkin (si la corazzata, etcetc) ad avere un ruolo fondamentale nella creazione della città. Secondo la leggenda, sul sito in cui la fortezza sarebbe stata edificata, i soldati trovarono un’enorme croce di pietra. Dei centosette gol che fa con lo Spartak Mosca in 190 partite, ce n’è uno in rovesciata, per velocità di esecuzione, altezza e cosacca prontezza nel capire che quel pallone che a momenti abbatte la traversa dello Sporting Lisbona, in Champions League, sarà quello che l’attuale fortezza col numero nove dell’Sverdlovsk Oblast di Ekaterinburg, con la scritta trasformerà in un eurogol da sballo. (a proposito, chiede lo scrittore Paolo Ricci: ma un eurogol ha un corrispondente in America Latina, o in Oceania, o in America Latina?).

Eduard STRELTSOV

( Эдуард Анатольевич Стрельцов)

Bulgakov, Čechov, Dostoevskij, Gor’kij: nemmeno loro avrebbero potuto immaginare un romanzo più avvincente della storia (tutta vera) di Eduard Strel’cov, traslitterato in Streltsov. Considerato il “Pelé bianco”, avrebbe potuto sfidare quello originale ai Mondiali del 1958 se non fosse stato arrestato quindici giorni prima del calcio d’inizio. L’accusa di violenza sessuale ai danni di una giovane, l’ingenuo acconsentimento a dichiararsi colpevole davanti alla promessa di venir rilasciato per la Coppa del Mondo, il processo sommario basato su prove tutt’altro che schiaccianti e la reclusione in un gulag stroncarono a soli 21 anni la carriera del centravanti della Torpedo Mosca, campione olimpico a Melbourne: alla squadra dell’industria automobilistica Zil giurò eterno amore rifiutando le offerte di Dinamo e CSKA, un diniego che, unito a quello di sposare la figlia di una potentissima donna del Politbjuro, lo mise in cattiva luce davanti alle autorità sovietiche. Si spiegherebbero forse con questi due antefatti l’arresto e la condanna a 12 anni di Eduard, bello e dannato che sfoggiava un ciuffo alla teddy boy, amoreggiava come un adone e irrideva gli avversari con il tacco, cementatosi nell’immaginario collettivo come la giocata “alla Streltsov”. Ritrovò la libertà nel 1963: pur segnato dagli anni trascorsi nei campi di rieducazione di Vjatski ed Elektrostal’, trascinò la Torpedo alla conquista del campionato e della Coppa dell’Urss venendo poi eletto giocatore dell’anno per due stagioni consecutive. Come ha detto un vecchio dirigente della Torpedo, “Streltsov è come una grande montagna di cui è impossibile abbracciare l’intera estensione”.

Maksim SHATSKIKH

( Максим Александрович Шацких)

La carriera di Maksim Šatskich, meglio noto come Shatskikh, in fondo è tutta un’incomprensione. Shatskikh, nato da genitori slavi in mezzo all’Asia centrale, diviene con il crollo dell’Urss un calciatore uzbeko: e come uzbeko firma un sacco di primati, alcuni anche ridicoli, perché in fondo quanti uzbeki ci sono in giro? quanti calciatori uzbeki? E che senso hanno allora queste storie sul primo gol di un uzbeko in Champions? E anche il primato di gol nella Serie A ucraina che valore può avere, quando quel campionato esiste da così poco e così poco ha saputo trattenere i propri migliori? In questo senso la carriera dell’uzbeko slavo Shatskikh è una carriera ridicola, nel senso di risibile, nel senso di accompagnata da risolini. Già il fatto stesso che sia uzbeko, e insieme così chiaramente slavo in tutto e per tutto, induce al sorriso. Ma qui, come spesso accade, la gente fraintende. Shatskikh, in effetti, non è tanto il primo uzbeko a fare questo o quest’altro, ma è soprattutto il primo essere umano a giocare centravanti della Dinamo Kiev dopo la cessione di Shevchenko; in termini mitici o vichiani Shatskikh è colui che principia una difficile ma tanto necessaria Età degli uomini dopo che un semidio ha portato il proprio splendore lontano dall’Ucraina. A questo punto, io credo, dobbiamo tutti smettere di ridere. E toglierci il cappello, muti e pensosi, di fronte a un uomo che ha sostituito un dio e che, con la goffaggine di uno che comunque è rimasto sempre in Ucraina (meno una stagione in Kazakistan), pure ha preso quell’eredità, pure non ha piegato le gambe. Ha segnato anche; come segna un uomo, non certo come segnava Sheva, ma vale lo stesso. Vale lo stesso.

Jevhen KONOPLYANKA

( Євген Олегович Коноплянка)

Il passato di Jevhen Konoplyanaka è nebuloso. Non tutto è certo. Come quando raccontavano di come, da bambino, le sue prime passioni fossero le arti marziali e l’hopak, il tradizionale ballo ucraino tipico della regione di Zaporizhia, sulle rive di quel fiume Dnipro che lo avrebbe visto anni dopo protagonista con l’impronunciabile squadra locale, a seguito di un amore non troppo corrisposto con la Dinamo Kiev. Come tutte le leggende, però, c’è un fondo di verità: e vedendolo giocare, la conferma che abbia davvero danzato in una vita precedente arriva da come riesce ad evitare il contatto con l’avversario diretto per poi lasciarselo alle spalle con l’accelerazione e il dribbling che seguono il primo controllo. Il resto lo fanno la levità con cui attacca lo spazio in verticale e la falcata ad alta frequenza insostenibile per chiunque non sia lui. Ovvero le caratteristiche che lo spinsero, diciassettenne, a chiedere al suo allenatore dell’epoca di cambiargli ruolo: da seconda punta (il senso del gol non è mai stato il suo forte) ad ala pura, facendosi e facendoci un favore. E non stupisca che a Siviglia, terra di flamenco, non abbia lasciato ricordi memorabili fin dal primo giorno, in un calcio sincopato e che va al ritmo del cajon: niente e nessuno può portare qualcosa di nuovo e di diverso. Molto meglio in Vestfalia, sponda Schalke: cosa ne volete che ne sappiano, lì, di danza.

Anzor Q’avazashvili

(ანზორ ყავაზაშვილი/ Анзор Амберкович Кавазашвили)

Quando si parla della pesante eredità di Lev Yashin tra i pali sovietici non si cita mai abbastanza uno dei primi atleti ad accoglierla e onorarla, Anzor Kavazashvili. Georgiano dal balzo felino, talento così puro da non riuscire ad essere lasciato in pace alla gloriosa Dinamo Tblisi per più di cinque presenze, prima di passare alle squadre russe a soli vent’anni. Esordì allo Zenit ma passò la maggior parte della sua carriera prima alla Torpedo Mosca e poi allo Spartak. Vinse un campionato e una coppa nazionale in ognuna di queste due squadre.

Marat IZMAJLOV- Марат Наилевич Измайлов

Un regista offensivo coi fiocchi. Pur essendo nato quando l’Urss si avviava alla sua conclusione, lo spirito sovietico, calcolatore ma fantasioso, dei geni russi del passato è sopravvissuto tutto nei piedi e nelle finte di Marat Izmajlov. Le sue prestazioni in patria, ma anche allo Sporting Lisbona, sono classificabili come di culto per efficacia e continuità… mancata. Come tutti i geni, anche Izmajlov non ha mai avuto nella costanza il suo più grande pregio. Ma chi l’ha visto sgroppare sulla fascia ha saputo accontentarsi anche di quelle linee non rette e non costanti.

Kakhaber Kaladze

In un periodo in cui solo i gufi e le colpevoli vittime del cantastorie Milton Friedman millantavano la fine del CCCP, ai confini meridionali della più bella esperienza di architettura sociale, nasceva una futura stella del calcio post-sovietico. La storia di Kakha Kaladze è drammaticamente teatrale, dai successi in rossonero, al rapimento del fratello finito in tragedia, fino al suo approdo in politica con uno di quei partiti pigliatutti, per dirla con Pasquino. Ma la parabola del coriaceo Ministro dell’Energia è significativa per il parallelismo che intercorre tra lui e l’imperituro compagno Giuseppe Stalin.

I due georgiani, infatti, si batteranno alacremente contro il nemico più prossimo, avendo sempre la meglio, nonostante la manifesta superiorità morale dell’avversario: l’Internazionale. In maniera molto pragmatica applicheranno il socialismo in un solo paese, superando a destra Trockij e a sinistra Cauet, Zanetti e Blanc, per poi servire l’assist della doppietta a Sheva e all’Armata Rossa. Un “cappottone” storico che resterà marchiato a fuoco in tutti quei cuori in cui la falce al martello è disegnata all’inverso.

Leonid BURYAK

Calciatore leggendario nativo di Odessa, numero 10 classico e uno dei figli prediletti di Lobanovski nella Dinamo Kiev degli anni ’70. Il suo mentore lo definì elegante sul campo come nella vita. Tecnicamente molto dotato, una luce sulla trequarti, agile, finemente edotto in tutti gli aspetti complessi del gioco del pallone. Si distingueva in particolar modo sui calci piazzati, sui lanci lunghi e sulle bordate dalla distanza.

Buryak è uno dei protagonisti del calcio internazionale dei suoi anni, essendo l’elemento più talentuoso della squadra che vincerà il campionato sovietico nel 1974, la Coppa delle Coppe 1974/75 e la Supercoppa UEFA 1975. Dopo il fallimento della stagione 1984 (10° posto), è costretto a lasciare la squadra. Inizialmente si pensava sarebbe finito allo Spartak, dove giocò anche due partite di prova. Ma alla fine, ha cambiato idea —resosi conto che il pubblico di Kiev non avrebbe mai accettato il suo trasferimento ai rivali di sempre. Perciò optò per la squadra di Mosca con un profilo più basso, la “Torpedo”, dove si fermò per una sola stagione prima di trasferirsi al Metalist, ma un brutto infortunio al tendine di Achille lo costrinse ad accorciare il suo cammino sul viale del tramonto.

Oleksij MYCHAJLYCHENKO

( Олексій Олександрович Михайличенко)

C’è chi lo ricorda come un mediano di belle speranze ma scarsa applicazione. Era, in realtà, un principe dostoevskijano Oleksij Oleksandrovyč Mychajlyčenko, una vita alla Dinamo Kiev e carriera conclusa a Glasgow, sponda Rangers, con una parentesi incolore nella Genova blucerchiata. Giocatore a tal punto polivalente da andar bene per ogni ruolo, dunque paradossalmente mai in grado di coprirne uno e tenerselo stretto; intendiamoci, magari averne: ma volete mettere con quel regista che si porta i pennelli in campo fin da casa? O quel mediano che non ha mai smesso di alzare muretti di foratini? Nella battaglia allo specialismo, Mychajlyčenko ha soltanto anticipato di un’epoca le necessità e il credo del periodo appena successivo, finendo da personaggio secondario, lui gigante, in un regno di soli nani.

Marius STANKEVICIUS

La fisica vuole che per lanciare un proiettile alla massima distanza sia necessario inclinare il cannone a 45° rispetto al suolo. Nicholas Linthorne e David Everett, fisici dello sport presso l’Università di Uxbridge hanno stabilito che l’inclinazione ottimale per una rimessa laterale su un campo di calcio è tra i 20 e i 35°. Marius Stankevicius, difensore, esterno, ma adattabile, proveniente dal parquet di Kaunas, Lituania, dove sono nati Šarūnas Jasikevičius e Arvydas Sabonis, ha passato sei anni a Brescia, poi Sampdoria, vincitore di coppe nazionali in Lituania, Italia e Spagna, a dimostrare che anche da sopra il metro e novanta si può essere uno calciatori a più lunga gittata del calcio. Il volgo blucerchiato lo vuole capace di arrivare con un lancio direttamente sul secondo palo. Linthorne e Everett possono andare ora a Siena per studiare a quanti gradi il nostro Marius lancia un fallo laterale e lo riconosceranno subito: una lunga fionda bionda. E se è vero il proverbio lituano Dievas davė dantis; Dievas duos ir duonos (Dio diede i denti, Dio darà anche il pane), allora pensando a Marius, Dio ha gli dato un lancio e gli darà ancora qualche grado in più.

Sergei GURENKO

( Серге́й Вита́льевич Гуре́нко)

Fabio Capello…Fabio Capello….Fabio Capello, mentre era disoccupato, prima di diventare allenatore della Roma, si divertiva a fare la seconda voce alla Rai per le partite della nazionale. Un giorno di quel periodo si giocava Italia — Bielorussia (o Bielorussia — Italia, non ricordo, ma che ce ne cale?) e Capello era talmente annoiato (o forse ubriaco, il che giustificherebbe le sue azioni successive) che si fissò con questo terzino basso e poco appariscente. Chissà che gli disse la testa, appena ingaggiato dalla Roma esigè l’acquisto di Gurenko come vice-Candela. Solo l’arrivo di Jose Angel scalzò il bielorusso dal posto fisso nella “Worst Eleven” di tutti i tempi dei giallorossi. Rientrò nel megascambio Roma — Parma in cui frullarono lui, Lassisi, Fuser, Longo, Mangone e Poggi e piano piano sparì, lasciando a Capello l’arduo compito di giustificare un gesto così imbarazzante.

Levan M’CHEDLIDZE

( ლევან მჭედლიძე)

« Ed invece è stato il più grande fallimento tecnico ed umano della mia carriera ». Con queste parole caustiche, il miglior DS di sempre ha definito un altro figlio della terra di Peppone Stalin. Dall’altra parte quel temerario tattico di Gigi Cagni lo etichettò come l’Ibra georgiano. A vederne i colpi non sembra possibile che questo gigante dai piedi così raffinati possa in realtà essere un sallucchione (nella lingua der sor Belli: un fregnone, un fesso, spesso di elevata statura). Eppure la sua carriera rispecchia l’andamento di uno dei più bei rifacimenti soul, dedicato all’altra Georgia, quella del nemico a stelle e strisce. Lenta, straziante, melanconica, compassata, eterea. Ciò che rende la cover del signor Charles una perla, fa del nostro GGG il classico colpo di chi vuole fare il coatto al fantacalcio.

Revaz DZODZUASHVILI

( რევაზ ძოძუაშვილი;)

Revaz Dzodzuashvili era uno di quei terzini che alla sgroppata in avanti preferivano il tackle senza quartiere, la scivolata impetuosa, e che erano ugualmente bravi sia in difesa che in attacco. Dotato di un gran tiro, è stato cuore e polmoni della Dinamo Tblisi anni ’70 e della Nazionale sovietica dei suoi anni. Leggenda vuole che, giocando lui a destra e trovandosi a marcare George Best durante una partita con l’Irlanda del nord, la sua marcatura indefessa rimase talmente impressa nella memoria del Belfast Boy che a fine gara questo gli chiese la maglia.

Viktor KOLOTOV

( Виктор Михайлович Колотов)

Tuttocampista ante litteram la cui dote più fulgida era quella di non saper giocare per altro che per la squadra, fu soldato instancabile di Lobanovski nella Dinamo Kiev e figlio ubbidiente del Soviet con la maglia della Nazionale.

Nikita SIMONYAN

( Նիկիտա Մկրտիչ Սիմոնյան / Никита Павлович Симонян )

Nato armeno e vissuto da sovietico, è stato un attaccante veloce dal baricentro basso, prima punta di diamante dello Spartak Mosca degli anni ’50 e poi allenatore dello stesso club per tutti gli anni ’60 e parte dei ‘70. Con la maglia biancorossa fu spina nel fianco delle difese avversarie segnando vagonate di reti (133 in 233 partite) e vincendo un sostanzioso grappolo di trofei nazionali.

Aleksandr KERZHAKOV

( Александр Анатольевич Кержаков)

Attaccante piccoletto nell’era dei colossi, l’agile e rapido Aleksandr Kerzhakov, tutto proiettato in avanti negli anni in cui la Russia rialzava la testa sulla scena internazionale, ha giocato per una vita allo Zenit di San Pietroburgo, con un paio di parentesi qua e là (prima al Siviglia, poi alla Dinamo di Mosca e infine allo Zurigo). Non ha mai avuto doti straordinarie, non ha mai fatto nulla di straordinario, ma si è sempre distinto per concretezza e, soprattutto, per essere riuscito a conseguire risultati importanti ovunque andasse: 3 titoli nazionali e 4 coppe di lega con lo Zenit, una Coppa UEFA e due coppe di lega con il Siviglia, persino una Coppa di Svizzera nel 2016. Un frullato di efficacia.

Oleg PROTASOV

( Олег Валерійович Протасов)

È abbastanza certo che l’Unione Sovietica non abbia mai conosciuto un attaccante completo come Oleh Valerijovyč Protasov, capace negli anni Ottanta e Novanta di realizzare 250 reti tra Nazionale e club. Prima punta di peso e abilissimo in area di rigore ma anche molto agile, puntuale nella scelta di tempo sia per la rasoiata di un ultimo scatto verso la porta, sia per la difesa del pallone dall’intervento del marcatore; il suo talento, riconosciuto dalle maggiori squadre europee, è però rimasto sempre ancorato alla linea orientale: prima al Dnepr e nella straordinaria Dinamo Kiev di Lobanovski, poi in Grecia nell’Olympiakos del connazionale Blochin. Dopo aver terminato la carriera da calciatore, ha proseguito con quella di allenatore. Appassionato di letteratura, probabilmente se fosse finito in una squadra di maggior blasone a quest’ora si sarebbe scritto qualche libro su di lui. Ben più che questa misera scheda.

Vladimir MUNTYAN

( Володимир Мунтян)

Uno dei migliori centrocampisti del Mondo negli anni ’70, Muntyan è veloce, agile, tecnico, elegante e creativo con la palla e sui suoi passaggi precisi e sul suo movimento instancabile la Dynamo Kiev costruisce due lustri di successi che la porta a dominare l’URSS (dove Muntyan arriva a vincere un record di 7 campionati sovietici) e a stupire l’Europa (la ciliegina sulla torta è la Coppa delle Coppe del ’75). E Pensare che ha iniziato a giocare a pallone solo per caso, quando al padre operaio viene assegnato un appartamento vicino ad un campo da calcio a Kiev. Da allora il ragazzino timido dal fisico minuto e fatto apposta per la ginnastica acrobatica (dov’è campione cittadino) finisce per appassionarsi al calcio e passa da raccattapalle ad arrivare ad un provino con la grande Dynamo Kiev di Moslov. Racconta la leggenda che Muntyan fosse talmente timido da non aver il coraggio di varcare la soglia d’ingresso del campo di allenamento per il provino una volta visti entrare i suoi idoli e che solo grazie alle parole dell’amico fraterno e futuro compagno di squadra Anatoliy Byshovets, viene convinto a far vedere quello di cui era capace. Probabilmente con le parole di Byshovets l’URSS ha perso una medaglia Olimpica nella ginnastica, ma ha guadagnato un talento con pochi paragoni: già al primo allenamento con la squadra si esibisce in un arcobaleno che porta l’allenatore Moslov a fermare il gioco per mostrare a tutti i giocatori quello che quello scricciolo aveva appena fatto.

Fyodor CHERENKOV

( Фёдор Фёдорович Черенко́в)

Con la sua tecnica sovrumana, eccentrica, sbruffona, il suo dribbling ubriacante e i suoi tocchi di prima che brillavano come incantesimi lucenti tra i ghiacci, Fyodor Cherenkov avrebbe potuto essere l’astro più luminoso del calcio dell’Est in assoluto e, per alcuni versi, lo fu, ma scelse invece di limitarsi ad esserlo per la maglia dello Spartak Mosca, che indossò più di chiunque altro, dal 1977 al 1993, con la sola eccezione della stagione 1990–91, che lo vide giocare nella seconda divisione francese con addosso l’iconica maglia della Red Star di Parigi. Numero 10 di passaggio tra un’interpretazione classica del ruolo e una più moderna, Cherenkov era il classico giocatore più preoccupato di dare gioia al pubblico che di seguire i dettami tattici dell’allenatore (attitudine che scontò in Nazionale), facendo la spola tra la trequarti e l’attacco fino a confondersi con quell’area stessa del campo. A livello internazionale fu vittima dell’incompiutezza del calcio sovietico dei suoi anni, ma al contempo seppe consolare il suo movimento calcistico, deliziandolo con le sue magie. Come lui stesso ebbe modo di dire, da ragazzo fu avvicinato dall’Aston Villa negli anni di massimo splendore del club di Birmingham, ma quando l’agente gli parlò in inglese lui non capì una parola di quello che gli aveva detto, ma in compenso capì che non sarebbe riuscito a immaginarsi con nessun’altra maglia addosso che non fosse quella dello Spartak.

Marians PAHARS

È abbastanza noto che nessun Re degli ontani è mai esistito e che gli ontani, che sono una pianta, per definizione non hanno monarchi: questa incongrua idea deriva solo dalla scarsa conoscenza di un dialetto tedesco che trasformò un normale Re degli Elfi in, appunto, il re di questi alberelli umidi e mezzi matti, decisi a crescere anche in mezzo alle paludi come se fosse la cosa più normale del mondo. E però l’ontano è un albero eminentemente nordico, anzi molto baltico: e Marians Pahars, nato da lettoni in Ucraina, tifoso dello Spartak Mosca, volto furbetto da gnomo non del tutto buono, se uno ci pensa era un perfetto Re degli Elfi o degli ontani. Rapidissimo, astuto, sfrontato quel tanto che basta (cioè tantissimo) per inventare un tunnel a Jaap Stam all’Old Trafford ed andarsene a uccellare anche Schmeichel; uno così, per antifrasi, non poteva che giocare nei Saints. Eccolo che salta fuori da un cespuglio, Marians; eccolo che scappa via sulla fascia, eccolo che sposta la palla quel tanto che serve a mandare con il culo per terra i pesanti cavalieri fasciati di ferro che lo rincorrono. Folletto magico, creatura strana, a metà tra la Premier dei soldi e della razionalità e i campionati post-sovietici misteriosi a tutti, non poteva che essere fragile: la sua è una carriera falcidiata da infortuni piccoli, fastidiosi, insuperabili. E lui stesso era piccolo e fastidioso: creaturina mezza pagana, come tutti i baltici, gli toccò di inaugurare con un gol il nuovo stadio dedicato alla Madonna. Anni dopo dovette arrendersi agli infortuni e lasciare quel porto e quella squadra: ma la gente di Southampton non dispera, anzi confida — non irrazionalmente, date le caratteristiche di quel folletto — che quel reuccio della gente piccola torni di nuovo a far capolino sull’erba, prima o poi, inventando uno di quei suoi trucchi che invariabilmente mettevano i grossi con il culo per terra.

Tomas DANILEVICIUS

A me, per dire, Danilevicius piaceva. Mia moglie dice, un po’ scherzando, un po’ sinceramente preoccupata, che secondo me non esistono donne brutte; allo stesso modo, forse, anche nei centravanti, perlomeno in quelli alti e potenti, trovo sempre del buono. Possono essere delle pippe abbastanza oggettive, ecco: però io, a furia di cercare, un lato positivo glielo trovo sempre, un pregio, un brillio nascosto che li renda felici. Ma questo discorso non c’entra nulla con Danilevicius, che era invece forte. Lo fregò secondo me un po’ il fisico baltico, anzi ancor di più la psiche da baltico, che lo costringeva a ritmi diversi, a una fioritura assai ritardata (è un discorso che ho letto per la prima volta in un’intervista ad Anna Falchi, quando cercava di addebitare alla metà finlandese quello che in realtà era semplice mastoplastica; ma io le credetti, io, anzi, da una che ha girato la scena sulla tomba in Dellamorte Dellamore accetto qualsiasi scempiaggine senza discussione alcuna). Ma soprattutto lo fregò, a lui alto, grosso, lento e pensoso, quel provino e anzi quell’ingaggio con l’Arsenal, che evidentemente gli fece pesare anche moralmente tutta la consueta batteria di mezzali velocissime ed eleganti — sulla cui produttività ed utilità peraltro potremmo discutere. Tomas — nome da nordico — si riebbe solo col tempo da quello shock: segnò sempre pochino, pur standosene spesso lì in mezzo a prender botte e a conquistare spazi, ma guadagnò fiducia con l’età, e onestamente la sua seconda stagione alla Juve Stabia fu quella di un ottimo giocatore, capace di gol pesanti, belli, gol pensati: traiettorie che avevano la precisione di una mente teutonica e l’onirismo di un baltico, accecato dalla neve e costretto a fantasticare dai lunghi inverni infiniti. Certo questo non lo sa nessuno, quanto fosse forte quell’anno Danilevicius: lo sappiamo solo noi appassionati delle vespe. Tra questi gli alieni, che scherzano su tutto ma non sulla Stalingrado della Campania.

Roman SHIROKOV

Forse Roman Shirokov è semplicemente nato nell’epoca sbagliata. Un’epoca in cui la polivalenza era sintomo del vecchio adagio “chi può fare tutto bene, non può fare niente molto bene”. Capita, quindi, che uno dei migliori giocatori degli ultimi 15 anni del calcio russo si sia trovato a combattere con l’ etichetta di uomo ovunque, talvolta sottostimante delle sue effettive capacità. E questo solo perché da centrocampista di (grande) lotta e di (ottimo) governo si ritrovò, quasi per caso, a giocare da difensore centrale in una memorabile ripassata dello Zenit al Bayer Leverkusen in un’altrettanto memorabile edizione 2007/2008 della fu Coppa Uefa; oppure perché, pochi mesi dopo, Guus Hiddink lo schierò da terzino nella prima partita degli Europei contro la Repubblica Ceca: per i soli parziali, 4–1 e rete del vantaggio proprio di Shirokov. Il quale passerà il resto della sua carriera senza sapere di essere almeno cinque anni avanti: oggi uno con quella velocità di piede e di pensiero, con quella capacità di read and react in relazione alla singole situazioni di gioco, con il saper, alternativamente, occupare le linee di passaggio e, subito dopo, mandare il compagno in porta con un tracciante di 60 metri, il poter essere impiegato da regista basso in un accenno alla russa di salida lavolpiana o da difensore centrale di prima costruzione per far uscire il pallone in un certo modo, sarebbe titolare nelle squadre di mezza Europa. Peccato sia nato nel 1981 e non nel 1991.

Igor DENISOV

Ennio Flaiano diceva che “chi ha carattere ha un brutto carattere”. E Igor Denisov ha un pessimo carattere. Oltre ad essere un leader naturale e ad avere la fascia di capitano (dell’Under 21 e della Nazionale maggiore) al braccio praticamente da quando è nato. Normale per chi è nato a Leningrado ed incarna lo spirito di un popolo solo all’apparenza enigmatico: se anche non si conoscessero nome e provenienza, basterebbe guardare Denisov negli occhi per capire chi è e di che pasta e fatto. Mediano vecchio stampo, ha una parola sola. La sua. Come quando rifiutò, sdegnosamente, la convocazione per gli Europei 2008 non accettando di essere stato preso in considerazione soltanto dopo la finale di Coppa Uefa vinta dal suo Zenit al City of Manchester Stadium; o come quando fu il primo ad abbandonare la nave chiamata Anzhi dopo appena due partite, a causa dell’ostracismo verso i giocatori russi a vantaggio di giocatori non russi e più lautamente remunerati. Scelte di carattere. Un caratteraccio.

Igor BELANOV

( Ігор Іванович Бєланов)

Il laboratorio tattico e tecnico messo in piedi da Lobanovskyi nella sua Dynamo prima di tirare fuori il grande Shevchenko, aveva prodotto il suo archetipo, che ne sarebbe stato poi l’idolo. Figlio di un regime d’allenamento imposto da Lobanovskyi per spingere al massimo le capacità fisiche di ogni giocatore, Belanov pur avendo un corpo normolineo possiede un’accelerazione impressionante (ci mette un battito di ciglia per raggiungere la velocità massima nello scatto) sembra quasi saltare sul primo passo e per questo viene soprannominato Skippi come il canguro protagonista di un cartone dell’epoca. Ma anche missile o fulmine. Dopo aver vinto il campionato sovietico e la Coppa delle Coppe con la Dynamo nel 1986 è con l’URSS che stupisce veramente tutti al Mondiale di Messico dov’è la punta di diamante di un calcio totale frutto di un gioco corale e atletico in campo come non si vedeva da anni. Belanov domina contro l’Ungheria nonostante i 40 gradi e l’umidità in campo e viene chiamato per l’antidoping per lo scetticismo nel vedere un giocatore così reattivo nei movimenti in campo con tale temperatura. Stessa cosa pochi giorni dopo nella sfida contro il Belgio dove nonostante la sua tripletta l’URSS non era riuscita a passare il turno. Ovviamente non fu riscontrato nulla in entrambi i casi tolto il fatto che si stava parlando di atleta fuori dal comune. Lo stesso anno vince il Pallone d’Oro. Famoso per la conduzione del pallone e sopratutto per un tiro potente e preciso ha sbagliato solo due rigori in carriera, pur tirandoli tutti potenti e centrali, purtroppo per lui uno dei due sbagliati è il più famoso della storia dell’URSS: quello che avrebbe potuto riaprire la finale degli Europei dell’88 contro l’Olanda. Lui diede la colpa alla prospettiva sbagliata che la copertura storta e la pista atletica dello Stadio Olimpico di Monaco davano all’altezza della traversa. Cosa che portò il rigore ad essere calciato troppo basso e addosso al portiere. Fatto sta che la Fortuna non gli concede più l’occasione di rifarsi, perché il successo internazionale lo porta all’ingaggio in Europa poco dopo, ma incapacità di adattarsi ad una nuova vita e soprattutto ai sistemi di allenamento tanto diversi in Germania, non lo porta più ad esprimere il suo calcio. Isolato e consapevole di non riuscire più ad esprimersi lontano dal suo maestro Lobanovskyi riceve il colpo di grazia quando con l’aver lasciato l’URSS per la Germania Ovest nel 1989 gli viene preclusa la nazionale. Terminando così la sua carriera internazionale prima dei 30 anni. Da lì si spegne piano piano la sua attenzione alla forma fisica non giustificando più il soprannome e soprattutto facendo stagnare una carriera troppo presto. Per fortuna il suo mesto ritorno in patria coincide con lo sbocciare proprio a Kiev del suo erede.

Aleksej e Vasilj BEREZUTSKI

Алексей Владимирович Березуцкий, Василий Владимирович Березуцкий)

I fratelli De Boer, i fratelli Koeman, i fratelli Van der Kerkhof, i fratelli Inzaghi, i gemelli Derrick. Ognuna di queste coppie di fratelli, i quali hanno condiviso almeno una volta la stessa maglia sullo stesso campo (per gli Inzaghi capitò in Nazionale), ha saputo guadagnarsi il proprio posto al caldo dei riflettori del grande calcio, sulla base di un’impresa sportiva o di un valore riconosciuto. C’è qualcosa di leggendario nel rapporto tra due fratelli che giocano a pallone insieme, dalla provincia ai palchi della Champions League ogni singolo fratello ha aumentato di un’unità il valore del duo, contrapponendo le proprie caratteristiche o il proprio ruolo alla narrazione atletica del congiunto. Ecco, i fratelli Aleksej e Vasiliy Berezutski in questa lista fanno eccezione. Se ci fosse stato un solo fratello Berezutski, per dire, al calcio europeo in senso lato sarebbe cambiato poco. Entrambi giganteschi ma modesti difensori centrali, entrambi discreti colpitori di testa. Non hanno mai diviso le proprie strade, né in Nazionale né nel loro club, il CSKA di Mosca, del quale si può dire che siano le colonne portanti, dato che in due hanno totalizzato quasi 700 presenze con la maglia rossoblu, e fatto incetta di titoli nazionali in più di quindici anni di carriera. Premio famiglia e fedeltà.

Kostantin BESKOV

( Константи́н Ива́нович Бе́сков)

Prima ancora che come allenatore dell’URSS nel ’64 e nell’82, Kostantin Beskov fu uomo chiave per il calcio sovietico in quanto provò di essere, nel secondo dopoguerra, uno dei più forti attaccanti di Russia, vincendo ben due titoli nazionali con la Dinamo Mosca.

Evgenij LOVCHEV

( Евгений Серафимович Ловчев)

Ogni Pantheon che si rispetti ha un suo dio della velocità, Evgenij Lovchev è stato l’Ermes del calcio sovietico per tutta la durata degli anni ’70. Terzino sinistro dalla velocità sovrumana ed eccellente crossatore dalla buona tecnica di base, fu colonna dello Spartak, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Monaco, sosia sovietico di Ninetto Davoli e spina nel fianco di tutti gli attaccanti in predicato di perdere il pallone.

Vasyl RATS

( Василь Карлович Рац)

Ucraino ma di origine ungherese, Vasyl Rats era il duttile cursore di fascia sinistra della Dinamo Kiev anni ’80 targata Lobanovski, con la quale vinse tre volte il titolo sovietico. Con la maglia dell’URSS all’Europeo dell’88 fu lui a segnare il gol vittoria nel girone contro l’Olanda, che si sarebbe poi laureata Campione sconfiggendo i sovietici per 2 a 0 in finale. Come a dire, Rats il suo l’aveva fatto.

Vitaly DARASELIA

( ვიტალი დარასელია)

Nel 1978, durante una trasferta allo Stadio San Paolo di Napoli, il ventunenne Vitaly Daraselia disse ai compagni di squadra che avrebbe chiamato il figlio in arrivo col nome del giocatore che avrebbe segnato quella sera. Destino volle che fosse lui a trafiggere il Napoli quella sera, e al nascituro venne dato il nome di Vitaly Junior. Daraselia era, in prospettiva, il centrocampista più forte della Dinamo Tblisi a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, e l’impressione era che non avesse ancora raggiunto il suo picco. Sfortunatamente perse la vita in un incidente automobilistico a venticinque anni, due anni in anticipo su Jimi Hendrix, Jim Morrison e Kurt Cobain, pochi mesi dopo aver giocato il suo unico Mondiale e un anno e mezzo dopo aver vinto la Coppa UEFA.

Konstantin ZYRYANOV

(Константин Зырянов)

Con lo Zenit San Pietroburgo, Zyryanov ha scritto la storia, ma l’ha fatto solamente dai trent’anni in poi, dopo quasi 15 anni spesi tra Perm e Mosca. Un impatto clamoroso, che lo ha portato ad avere un ruolo da shadow striker nello Zenit di Advocaat e a vincere sia la Coppa UEFA che la Supercoppa Europea con il club di San Pietroburgo. Entrato anche nel giro della nazionale russa nell’arco di quei sei anni, Zyrianov è ancora attivo mentre vi scriviamo, ma in realtà è come se si fosse ritirato: scaduto il suo contratto nel 2014, ha firmato per la squadra riserve dello Zenit, dove ha svolto il ruolo di giocatore-allenatore.

Roman SHIROKOV

(Рома́н Широ́ков)

Altra colonna dello Zenit, ha dovuto girare parecchio su e giù per la Russia prima di trovare la propria meritoria consacrazione: Mosca, Istra, Vidnoye, Khimki. A un certo punto della sua carriera venne improvvisato addirittura come centrale difensivo grazie alla sua visione di gioco, poi Advocaat ne alzò nuovamente il raggio d’azione dopo aver vinto la Coppa UEFA. Ha giocato praticamente in tutte le grandi di Russia — comprese Spartak e CSKA Mosca. Di tutti i centrocampisti della sua generazione è stato quello che aveva più facilità nel trovare la rete. Non a caso chi ha seguito la Nazionale italiana nei suoi anni se lo ricorda bene per una doppietta in un’amichevole pre-Euro 2012.

Viktor Jevhenovič LEONENKO

(Виктор Евгеньевич Леоненко)

Leonenko è una storia degli anni ’90. Caratteraccio e tanti gol, sapeva come conquistare il tifo, era un uomo della curva e soprattutto sapeva mettersi la squadra sulle spalle.

Leonenko entra nella leggenda un giorno ed un momento preciso, quando nella Champions 95/96 vinta dall’Ajax rimonta da solo una partita durissima contro lo Spartak Mosca, da 0–2 a 3–2 (doppietta per lui, più gol di Rebrov), il tutto in un momento particolarissimo della sua carriera e della storia della Dynamo Kiev, con il tecnico Sabo che stanco dei suoi continui litigi con Leonenko cominciò a preferire un ragazzino delle giovanili al bomber che nacque russo, un tale Andrij Shevchenko.

Andriy YARMOLENKO

( Андрій Миколайович Ярмоленко)

Quando a un uomo di fascia metti il 10 sulle spalle sai già cosa aspettarti, specie se il suo piede è il sinistro. Tecnica, passo, tiro e facilità nel lasciarsi indietro gli avversari. Col suo dribbling sforbiciato e il suo baricentro altissimo, Andriy Yarmolenko è uno di quei giocatori che negli anni ’80 e ’90 avrebbero fatto impazzire le difese inglesi, italiane e spagnole. Nei giorni del suo massimo splendore, invece, gli unici palcoscenici europei che lo vedono esibirsi sono quelli di Coppa, ma nonostante venga accostato quasi ogni estate a un club dell’ovest, continuiamo a vederlo in azione solo con la maglia della Dinamo Kiev. Chissà che storia sarebbe, dalle nostre parti, quella di un giocatore da odi et amo come Yarmolenko.

Dmytro CHYGRYNSKI

(Дмитро Анатолійович Чигринський)

Dmytro Anatolijovyč Čyhryns’kyj è stato l’uomo giusto al momento giusto, ma forse al posto sbagliato. Negli anni di massimo splendore del calcio ucraino si fa notare come uno dei migliori difensori dell’Est per le sue prestazioni in campo europeo, con indosso la maglia neroarancio dello Shaktar Donetsk e quella gialla della sua Nazionale. Difensore reattivo non solo quando c’è da non prendere gol, ma anche quando c’è da siglarne, soprattutto dotato di discreto un colpo di testa e di un piede onesto per un difensore, attira l’attenzione di Pep Guardiola nell’anno in cui la difesa strenua di Mourinho impedisce ai blaugrana di conquistare la Champions League. Quello sarà un anno da comprimario per Chygrynski, e di quelli neanche troppo brillanti. La sua esperienza catalana durerà una sola stagione, poi farà ritorno allo Shaktar finché le condizioni precarie e sfortunate del club non lo costringeranno a portare la sua esperienza in altri lidi, prima al vicino Dnipro, poi all’AEK Atene.

Yegor TITOV

( Егор Ильич Титов)

Un centrocampista che gioca da attaccante o un attaccante che gioca da centrocampista? L’impiego di Yegor Titov nella fascia tra linea mediana e reparto offensivo non ha mai dissipato del tutto il dilemma sulla posizione che occupava sul rettangolo verde. Dalla tenera età fino ai trentadue anni ha giurato fedeltà allo Spartak Mosca, brillando per visione di gioco e precisione nei passaggi, e lasciandola soltanto quando la sua carriera era ormai al crepuscolo. Nel 2004 in alcuni suoi campioni di urina furono trovate tracce di bromantan, uno stimolante usato dai soldati sovietici ai tempi dell’invasione in Afghanistan, e rimediò una squalifica di dodici mesi. Rifiutò la convocazione in nazionale per un incontro di qualificazione agli Europei per stare vicino alla moglie incinta o almeno così si giustificò: da quel momento non ha più indossato la maglia del suo Paese. E, come nella parabola di un complesso personaggio da letteratura russa, ha chiuso col calcio giocando le sue ultime partite in un campionato semiprofessionistico.

Oleksandr SHOVKOVSKIY

( Олександр Володимирович Шовковський)

Ma quanto è stato fico? Era il portiere della Dinamo che davanti aveva Sheva-Rebrov, quella Dinamo che sembrava potesse vincere pure la Champions, volendo. Il giocatore con più presenze nella storia dell’armata di Kiev, sempre titolare, capitano, ancora in campo. Spalla a spalla col Colonnello Lobanovski, quante ne conoscerà Oleksandr. Non si è mai mosso da Kiev, è vero, ma più di 120 presenze tra Champions e Europa League gli hanno permesso di viaggiare abbastanza. Oggi, a 42 anni, è ancora in campo, ancora titolare, ancora con la Dinamo Kiev. Il Colonnello è morto, Sheva ha smesso, Rebrov non ha mai realmente cominciato, lui è ancora la. Fico come il primo giorno.

Ilya TSYMBALAR

(Илья́ Цымбала́рь)

Ilya Tsymbalar, centrocampista dal fine tasso tecnico, prima di venire sottratto al pallone russo da un problema cardiaco a soli 44 anni, ha giocato sia per l’Ucraina che per la Russia, optando poi per quest’ultima, nonostante fosse nato a Odessa. Passato allo Spartak Mosca nel ’93, ha fatto parte di quella generazione che ha dominato la Russia in Europa e nel mondo. Con la maglia della Nazionale indosso lo ricordiamo per una rete segnata all’Italia a Euro ’96, poi passò a fare la spola tra scrivania e campo, alternandosi come dirigente e allenatore.

Vladimir Besčastnych

( Владимир Евгеньевич Бесчастных)

Per chi non mastica il russo, si tratta in assoluto del nome meno pronunciabile in tutta la lista, ma tralasciarlo per limiti linguistici dello scrivente sarebbe un torto al pallone che crede nell’Europa culturalmente unita, poiché Vladimir Beschastnykh è stato un ariete d’attacco giramondo che ha portato la tradizione dei centravanti sovietici in giro per il continente per tutta la durata degli anni ’90. Potente fisicamente e di testa, chirurgico ed essenziale nell’area di rigore, ha giocato per lo Spartak in patria ma anche per il Werder Brema, per il Fenerbahce e per il Racing Santander. Ovviamente è allo Spartak che si è tolto più soddisfazioni, portando a casa ben nove titoli tra cui una ormai morente Coppa dell’Unione Sovietica nel 1992.

Anatolij BANISHEVSKIY

( Анатолий Андреевич Банишевский)

Miglior giocatore azero di sempre, ha giocato per tutta la sua carriera nel Neftchi Baku, squadra di casa. Attaccante velocissimo e implacabile, esordì a soli 19 anni nella Nazionale Sovietica, della quale fece parte dal 1965 al 1972. Nel ritorno di un doppio confronto col Brasile di Pelé, finito poi 2 a 2, segnò il gol del momentaneo 0–2 per l’URSS, una rete di fattura talmente pregevole che lo stesso O’Rey si fermò ad applaudire.

Aleksandre CHIVADZE

(Александър Чивадзе)

Il concetto classico di bandiera fatto difensore. L’epitome del patriota trasformato in calciatore. Chivadze è stato tutto questo e molto di più: ha speso tutta la sua carriera in Georgia, anche quando questa non esisteva ancora dal punto di vista politico. È stato una colonna della grande Dinamo Tbilisi, capace di vincere la Coppa delle Coppe nel 1981, nonché due campionati sovietici. Ha fatto parte di quella straordinaria generazione sovietica che vinse l’Europeo U-21 del 1980, per poi prendere il bronzo alle Olimpiadi di Mosca dello stesso anno e diventare capitano dell’URSS ai Mondiali di Spagna ’82. Allenatore della Georgia a fasi alterne, ha guidato l’U-21 fino al 2016.

Server DJEPAROV

(Сервер Жепаров)

Probabilmente uno dei migliori talenti nati fuori dalla Russia attuale, ma patrimonio di quell’URSS che ancora era presente nel 1982, anno dei suoi natali. Se Maksim Shatskikh — storico bomber della Dinamo Kiev — è stato l’antipasto uzbeko alla notorietà, Djeparov è stato calciatore asiatico per due volte (nel 2008 e nel 2011). Ha girato il continente in lungo e in largo, guadagnandosi rispetto in ogni posto in cui sia stato. Ancora oggi capitano della sua nazionale — 121 presenze e 25 gol più tardi — ha persino avuto la possibilità di un provino con il Chelsea nel 2008, che però non ebbe mai luogo. Peccato: una chance europea se la sarebbe meritata.

Oleg KUZNETSOV

( Олег Володимирович Кузнєцов)

Nato in una famiglia di militari, divenne nel modo più naturale possibile il Ministro della Difesa della Dinamo Kiev di Lobanovski e della Nazionale Sovietica, nonché uno dei migliori difensori d’Europa nella seconda metà degli anni ’80. Non a caso si classificò all’undicesimo posto della graduatoria del Pallone d’oro 1988 e al diciassettesimo posto nel 1989. Per il resto l’arte della sua difesa imperiosa e austera, tutta reattività, anticipo ed equilibrio, si rese talmente indispensabile per il calcio dell’Est che fu uno dei pochi calciatori a giocare per ben tre Nazionali di calcio. Dal 1986 al 1991 giocò con l’URSS 58 partite andando a segno in un’occasione, partecipando ai mondiali di calcio di Messico 1986 e Italia 1990 e al campionato d’Europa 1988. Nel 1992 fu parte della selezione della CSI che partecipò al campionato d’Europa 1992. Giocò infine tre partite tra il 1992 e il 1995 con la maglia dell’Ucraina.Nella seconda fase della sua carriera giocò anche per i Rangers di Glasgow e per il Maccabi Haifa.

Dmitrij ALENICHEV

( Дмитрий Анатольевич Аленичев)

Quando il russo arrivò a Roma era il miglior calciatore del suo Paese. Uno forte forte. E allora cosa gli successe? Nulla, gli successe Roma. C’è un detto tra i tifosi giallorossi, un detto storico che ebbe origine prima di Renato Portaluppi: “Ogni campione che fòri galoppa ariva a Roma e diventa ‘na pippa”. Non v’è bisogno di traduzioni. Alenichev non fu proprio “‘na pippa” ma non lasciò un grande segno. Doveva fare il vice-Totti nelle gerarchie di Zeman ma era troppo poco ligio ai suoi doveri tattici. I piedi invece erano di un livello molto alto, tant’è che il giovane Mourinho se lo prese al Porto e ci vinse Coppa UEFA e Champions League, anche grazie ai suoi gol in entrambe le finali, unico nella storia insieme a Gerrard a riuscirci. Magari a Roma uno così sarebbe potuto servire, ma vallo a distinguere dai Bartelt, Fabio Junior e Cesar Gomèz che arrivavano a mazzetti.

Yuri VOINOV

( Юрій Миколайович Войнов)

In un’era in cui erano gli ucraini a contribuire ai successi della Grande Madre russia, Yuri Voinov era un russo che aveva contribuito a fare grande l’Ucraina, portando al trionfo nel campionato sovietico la Dynamo Kiev nel 1961, e interropendo lo strapotere delle squadre moscovite. Centrocampista tutto passaggi e raziocinio, aveva vinto l’europeo con la maglia dell’URSS proprio l’anno prima. Uno dei più amati e importanti interpreti del ruolo di playmaker ante litteram, nella sua carriera internazionale si è trovato a marcare Pelè, Puskas e Garrincha, cuscendo a testa alta da tutti i duelli, e guadagnandosi il suo posto nella leggenda.

Murtaz KHURTSILAVA

( მურთაზ ხურცილავა / Муртаз Хурцилава)

Murtaz Khurtsilava è stato, senza esagerare, il miglior giocatore georgiano degli ultimi sessant’anni. Bandiera della gloriosa Dinamo Tblisi (con cui riuscì a strappare un titolo sovietico alle avversarie russe nel 1964) era la quintessenza di quella felice condizione dello spirito e della geometria che negli anni ’70 veniva chiamato libero. Avendo iniziato la sua carriera da centrocampista aveva intelligenza tattica, un tiro potente dalla distanza e un piede educato. Ma soprattutto, una volta arretrato in difesa, imparò a fare la differenza in campo esibendo una lettura dei tempi di gioco che gli permetteva di intuire i movimenti dell’offesa avversaria, e di anticiparli, nonostante non arrivasse al metro e ottanta. Perfetta bilancia tra i ritmi dell’attacco e del ripiegamento, conquistò con la maglia della Nazionale sovietica une medaglia di bronzo a Monaco e un secondo posto agli europei del Belgio, nel 1972.

Valentin IVANOV

( Валентин Козьмич Иванов)

Fu attaccante pericoloso e imprevedibile, subdolo e spesso prudente in fatto di tirare la gamba indietro, vezzo con cui teneva in sospeso tutti i difensori rivali.

Il più bel gol della sua carriera lo segnò probabilmente nel ’60, durante la semifinale dell’Europeo vittorioso, contro la Cecoslovacchia. Avendo ricevuto la palla al centro del campo, Ivanov si precipitò verso la porta per indirizzare di destro la sua bordata vincente, dopo aver vinto in velocità ben tre rivali. Goleador anche nella Torpedo Mosca, con la maglia azzurra segnò 124 reti in poco più di 280 partite vincendo due titoli sovietici.

Yuri ZHIRKOV

( Юрий Валентинович Жирков)

Sfogliando (quello che dovrebbe essere) il profilo Instagram di Yuri Zhirkov, ti accorgi che fa il calciatore solo dopo 66 post. C’è una foto vecchia, un’esultanza di quattro giocatori del Cska Mosca che si abbracciano, e si vedono le classiche acconciature da uomo dell’est, con le frangette che in Occidente sarebbero troppo corte a meno che tu non faccia parte degli Oasis, quelli appartenenti a una certa fase, tra l’altro. Probabilmente, il what if che è stato e che è Yuri Zhirkov si sintetizza al meglio nel suo atteggiamento nei confronti dell’autopromozione di sé stesso sui social. Quasi nullo, nonostante doti estetiche fuori dal comune. Zhirkov ha attraversato il calcio contemporaneo partendo da una dimensione di wonderkid assoluta e riconosciuta, certificata dall’acquisto da parte del Chelsea per una cifra che allora, era il 2009, lo rese il calciatore russo più pagato di sempre. Uomo di fascia sinistra, terzino d’attacco oppure esterno alto, piede educato ma pure predisposto a grandi botte da lontano. Oltre all’esperienza londinese, tanti passaggi nei posti sbagliati al momento giusto: l’Anzhi lo prende insieme a Eto’o, poi lo cede alla Dinamo Mosca che prova a diventare grande ma non ci riesce. Infine, da un anno e poco più, un crepuscolo di carriera dorata ma non luccicante allo Zenit. Che, nel frattempo, giusto per non smentire la premessa, ha ceduto Hulk e Witsel. Zhirkov oggi ha 34 anni, ha vinto una messe di trofei (la Coppa Uefa del Cska, il Double con Ancelotti, addirittura undici trofei nazinali russi) ma non ha saputo lasciare nel calcio il solco che ci si aspettava da lui. Da uno che, nel 2008, è stato inserito nella shortlist dei 30 candidati al Pallone d’Oro. Il fatto che finì per non racimolare un solo voto è assolutamente irrilevante, dato che la stessa sorte, in quella votazione, toccò anche a Toni, Pepe, Van der Vaart e Karim Benzema. Una buona compagnia.

La Linea Difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da Simone Vacatello, Tommaso Giancarli, Adriano D’Esposito, Simone Pierotti, Simone Nebbia, Daniele Morrone, Claudio Pellecchia, Andrea Cardoni, Gabriele Anello, Alfonso Fasano, Valerio Savaiano, Saverio Nappo, Leonardo Ciccarelli, Elena Chiara Mitrani, Sacha Marsili, Lorenzo De Alexandris.

La copertina è di Fabio Imperiale.

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