La maledizione è finita

Crampi Sportivi
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4 min readNov 4, 2016

Gara 6 delle World Series 2016, parte alta del terzo inning. Addison Russell realizza il grande slam più importante della sua carriera e i tifosi dei Chicago Cubs capiscono che forse la Maledizione di Billy Goat è finalmente giunta al termine. Per coloro che non sono pratici del baseball, “il passatempo americano” per eccellenza, fare il grande slam significa mettere a segno un fuoricampo con le basi piene — e di conseguenza segnare quattro punti tutti in una volta –, mentre la suddetta maledizione dura dal 1945. Ovvero da quando mister William Sianis, proprietario della Taverna Billy Goat, fu scacciato dal Wrigley Field, lo storico impianto di Chicago, per colpa dell’olezzo emanato dalla capra Murphy. “Non vincerete mai più”, disse un infuriato mister Sianis. I Cubs erano impegnati nelle World Series, che non vincevano dal 1908, e che ovviamente avrebbero finito per perdere. Ergo, la squadra del North Side della metropoli dell’Illinois attendeva il titolo nazionale da ben 108 anni, meritandosi il poco invidiabile “riconoscimento” di squadra più sfigata in assoluto della storia di questo splendido sport. E forse, a questo punto, di ogni altro sport.

Visto che quell’home run ha significato la vittoria nella partita e il pareggio nella serie, che Chicago perdeva 3–1 contro i Cleveland Indians, non era peregrina l’idea che gli dei del batti e corri avessero deciso di cancellare il sortilegio che incatenava da oltre un secolo i poveri Cubs. La franchigia faceva così tenerezza, tanto era drammaticamente perdente, che numerosi appassionati l’avevano scelta come seconda squadra — “tanto sono innocui!”. Per non parlare del florilegio di articoli di giornale, libri e film che ne descrivevano le “gesta”. Gli aneddoti — ovviamente sempre negativi — sui “cuccioli” si sprecano, non ci vuole un genio per capirlo. Nel corso di questi 108 anni ne sono successi di tutti i colori. “Only the Cubs” è un’espressione ormai entrata nel gergo quotidiano di molto americani. Solo i Cubs potevano mancare i play off senza soluzione di continuità fra il 1945 e il 1984, riuscendo poi a “suicidarsi” in tutti i modi anche quando facevano una fugace apparizione nella post season. Solo i Cubs perdevano partite 23–22 dopo essere stati 22–6 o bruciavano enormi vantaggi in classifica, come quando nel 1969 si fecero scavalcare dai New York Mets. E qui spunta un altro sortilegio, quello del gatto nero che entrò in campo proprio in un Cubs v Mets nella Grande Mela e che coincise con un’incredibile serie di rovesci del club di Chicago.

Generazioni e generazioni di tifosi hanno conosciuto solo il sapore amaro del fiele. Ma hanno continuato ad andare al Wrigley Field, uno dei templi di questo sport così profondamente stars & stripes. A tutti loro si addice un vecchio motto romanista: “La Roma non si discute, si ama”. Anche i Cubs si dovevano amare “a prescindere”, come avrebbe detto il Principe de Curtis. Negli ultimi anni hanno deciso di antidoto al virus della sfiga, che risponde al nome di Theo Epstein, il dirigente-Re Mida che condusse i Boston Red Sox al successo nel 2004. Nota bene, la compagine del Massachusetts era a digiuno dal 1918, colpita dall’ennesimo anatema, quello lanciato dal grande Babe Ruth. Con Epstein in cabina di regia il record della squadra è diventato piacevolmente molto positivo. L’eliminazione con i Mets nei play off dell’anno scorso è stata vissuta come un incidente di percorso, nell’inevitabile avvicinamento al titolo. Anche se qualcuno aveva temuto che la previsione “bucata” di “Ritorno al Futuro II” — i Cubs si aggiudicheranno le World Series del 2015 — fosse un pessimo presagio. Nulla di più sbagliato.

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Il 2016 del baseball Usa si è aperto con la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori che davano i Cubs favoriti assoluti per il titolo. Immaginiamo gli scongiuri in quel di Chicago, specialmente dopo una fantastica regular season da 103 vittorie. Con una squadra fortissima a dominare sui diamanti di tutti gli Usa, i presupposti per il trionfo c’erano tutti. Ma mica poteva essere così facile. Detto dello svantaggio di 3–1 nella serie finale (con due delle tre partite disputate in casa perse), ci siamo conservati per ultimo quanto accaduto in una delle gare 7 più pazzesche della storia dello sport americano (non solo del baseball). Già di per sé sarebbe stato un match da ricordare, dal momento che è terminato 8–7 per i Cubs al primo extra inning (tra l’altro ritardato 15 minuti per pioggia…), beh c’è da pensare che gli dei del baseball abbiano sul serio voluto far trepidare fino all’ultimo i fan dei Cubs, quasi che ci stessero ripensando. Siccome lo script di questa partita (oddio, riduttivo chiamarla così…) sembrava il frutto della mente di uno sceneggiatore di Hollywood, a metà dell’ottavo inning i Cubs erano avviati verso il tanto agognato successo grazie a un confortante 6–3. Nella penultima frazione regolamentare gli Indians hanno prima accorciato le distanze e subito dopo addirittura pareggiato con un fuori campo che ha mandato in visibilio il Progressive Field.

Poi le cose hanno preso il “verso giusto”, quello auspicato da tutti meno i supporter degli Indians. Che, ben inteso, potevano anche loro “vantare” una tradizione negativa ultra-decennale. Per ripetere i fasti del 1948 (ultima World Series vinta), alla franchigia dell’Ohio toccherà aspettare ancora. Speriamo per loro che non gli tocchi eguagliare il record dei Cubs.

Articolo a cura di Luca Manes

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