La minaccia di Steph

Crampi Sportivi
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2 min readFeb 28, 2016

Un po’ lo odio, Steph Curry. Perché io non feci tutto ‘sto casino quando, quindici anni fa, viaggiai per un anno intero al 100% da 3. Un tiro tentato, un canestro realizzato. In tutta la stagione. So clean. Giocavo da play, giocavo tanto, non tiravo praticamente mai. Ero scarso — certo — ma c’era dell’altro: sentivo l’obbligo, quasi morale direi, di fare solo le “cose semplici”.

Non so dire se fosse il risultato dell’ossessione del mio istruttore per il terzo tempo, o invece la conseguenza principale della presa di coscienza dei miei evidenti limiti tecnici, oppure ancora l’effetto diretto del fatto che l’America e il suo basket fossero all’epoca lontanissimi dalla provincia in cui crescevo. Fatto sta che, allora, la magia principale della pallacanestro, la sua innegabile attrattiva, discendeva per me dal fatto che si potesse giocare — e vincere, a volte — facendo solo e soltanto “cose semplici”. Una buona difesa, una corsa in contropiede, un passaggio non rischioso al compagno più libero.

Il tiro da 3, in particolare, mi appariva come una specie di scorciatoia furba, l’incarnazione di un rischio che non mi interessava e che non volevo correre. “Le percentuali sono dalla parte delle cose semplici”, mi dicevano. “Non incazzarti con chi ti segna con le mani in faccia, non puoi farci nulla. Ma alla lunga la legge dei grandi numeri premierà te”. Mi convinsi, e quell’allenamento alle scelte meno pericolose cominciò a influenzare anche molto altro, nella mia vita. Timido con le ragazze, misurato con gli amici, chiuso a poker. All’università, qualche anno dopo, avrei persino scelto statistica, essenzialmente per provare a rafforzare la convinzione che le benedette cose semplici — quelle che stanno nella parte grossa della curva di Gauss — fossero davvero la chiave dell’esistenza.

Per questo a me, ora, non interessa capire se e come il talento e la dedizione di Stephen Curry stiano minacciando il Gioco e cambiando il gusto dello spettatore globale, né se la sua rivoluzione, alla fine della fiera, avrà migliorato o peggiorato la pallacanestro. Quello che so è che Curry sta minacciando me. Perché Curry inverte irrimediabilmente i concetti di “cose semplici” e “cose difficili”, di rischio e sicurezza, di probabilità e certezza, di giusto e sbagliato, di bene e male, minando così l’intero sistema di valori cui a lungo ho fatto riferimento.

Se tendo sempre a schierarmi dalla parte dell’inerme difensore di turno — quello che si porta sistematicamente le mani sui fianchi e sembra dire con gli occhi “ma come cazzo ha fatto?” — è perché Curry vuole impormi, alla soglia dei trent’anni, di ripensare a fondo tutti i miei schemi mentali, da sempre orientati verso la ricerca di una rassicurante normalità. Curry mi sta obbligando a fare una cosa terribilmente faticosa, lunga, di dubbia moralità e senza garanzia di riuscita. Questo è il motivo per cui un po’ lo odio. Che è poi lo stesso motivo per cui forse un giorno lo ringrazierò.

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