L’imperativo Zlatan

Crampi Sportivi
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6 min readMar 15, 2016

Titanico, carismatico, egotico quanto basta da risultare una calamita sia per i riflettori che per le controversie, Zlatan Ibrahimovic è un giocatore difficile da rinchiudere in una categoria calcistica. Tuttavia per quanto riguarda le categorie filosofiche potrebbe essere un’altra storia: in quel caso Ibra può trovare il suo corrispettivo nella figura dell’uomo nobile nietzscheiano.

Vediamo perché.

Zlatan il nobile

L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è “creatore di valori”.
Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione.

F. W. Nietzsche — Al di là del bene e del male, aforisma 260

Zlatan (in cirillico: Златан) è un nome proprio di persona slavo, deriva da zlato (oro) e significa “dorato”. Sicuramente, per Ibrahimovic, il fatto di essere stato chiamato con questo nome non è frutto del caso. Zlatan è un eletto, un nobile, un “signore” che coglie il pathos della distanza: quel sentirsi unico, distinto da tutto e tutti, dell’individuo che deve rendere conto a se stesso prima che al mondo che gli sta intorno.
La morale di Zlatan consiste nel tener fede al proprio nome.

Zlatan lo “zingaro”

Svedese di madre croata e padre bosniaco, privo di radici territoriali e orfano di criteri valoriali calcistici. In un calcio dove gli dèi sono ormai quasi tutti caduti, obbediente sempre di più agli obiettivi personali che alla passione, Ibra non è mai stato e mai sarà una bandiera di un club: a-soggettarsi a dei valori prestabili, seguire regole date o concedersi a una fede non sono opzioni possibili, Ibra è creatore dei propri valori, mobili, dinamici, tutto il resto è illusione, sottomissione a qualcosa di altro da sé.

Può essere più o meno a suo agio in un ambiente, più o meno amato, ma non sarà mai il simbolo che si stanzia nel cuore dei locali: non può rinunciare alla sua intoccabile individualità, non può condivider-si con altri, compagni o tifosi. Appena si rende conto della possibilità di una cristallizzazione sotto una categoria, fugge, cambia aria (e stipendio).

Sotto quest’ottica i continui trasferimenti, i baci agli stemmi delle squadre cui è appena entrato a far parte, il rapporto con giornalisti, allenatori e compagni di squadra, sono solamente il risvolto concreto della sua essenza, forma della sua sostanza che non vuole essere definita.

Zlatan è Zlatan, punto.

Zlatan il guerriero

Io non sono cresciuto avendo la vita facile, molti se lo dimenticano. Non sono un talento che è semplicemente volato in Europa a passo di danza, io ho lottato controvento. Genitori e allenatori mi sono stati contro fin dal primo momento, e molto di ciò che ho imparato l’ho imparato ignorando quello che dicevano gli altri.

Z. Ibrahimovic — Io, Ibra

La storia di Ibra la conosciamo tutti, dal ghetto multietnico di Rosengård, dalla famiglia burrascosa e problematica, all’Olimpo del calcio e ai milioni in banca: una parabola in costante ascensione che parte dal grigiore delle strade di Malmö, transita per tutta Europa e giunge fino alle boulevard parigine. In tutta la sua vita, però, si riscontra una costante: Zlatan non ha passato un giorno senza lottare. Vuole lo scontro, ne ha bisogno: dover combattere e sopraffare, essere obbligati a corrispondere alla propria natura guerriera.

L’uomo nobile è necessariamente un guerriero. L’uomo nobile, il signore, è obbligato alla lotta, non tanto per giungere a qualche determinato telos, a un fine fuori di sé, quanto per un’intima necessità che lo spinge all’auto-affermazione.
Non è dunque frutto del caso nemmeno che la seconda passione di Zlatan, dopo il calcio, sia il Taekwon-Do, “l’arte di colpire con pugni e calci”. La lotta, unico luogo dove il signore può davvero essere fedele alla propria essenza. Lotta contro il nemico, l’avversario, unico mezzo che rende possibile l’esternazione di una natura prevaricatrice e sovrastante.
Non rinunciare mai a se stessi, nemmeno di fronte alle avversità più grandi; non scendere a compromessi quando i propri valori possono essere in qualche modo minacciati dall’esterno. Lo spirito indomito è uno dei cinque principi del Taekwon-Do che Ibra interiorizza a suo modo, ovviamente.

Zlatan il barbaro

Uomini con una natura ancora selvatica, barbari in ogni senso terribile della parola, uomini predatori, ancora in possesso di un’intatta forza di volontà e avidità di potenza, si gettarono su razze più deboli, più civili, più pacifiche […]
La casta aristocratica è stata sempre, agli inizi, la casta dei barbari: il suo predominio non stava in primo luogo nella forza fisica ma in quella psichica, essi erano gli uomini più integri.

F. W. Nietzsche — Al di là del bene e del male, aforisma 257

“Aristocratico” vuol dire “integro” o “veritiero”. Nietzsche evidenzia la fiera e prepotente volontà di dominio di questa classe di conquistatori che, appunto, proprio perché integra e veritiera, non è razionale, calcolata ma naturale.
Zlatan, dentro e fuori dal campo, lotta contro tutto e tutti, anche contro se stesso; per superarsi di continuo deve accrescere ciò che già è, trasformarsi, affermarsi, volere di più.
Lotta contro gli avversari, li calpesta fisicamente e mentalmente: l’impressionante strapotere fisico si rivolta in dominio mentale; il tutto in un moto spontaneo e fedele al proprio nome. I dominatori vogliono autoaffermarsi e basta, la negazione dell’altro è solo l’effetto della loro volontà di comando.

Zlatan e il pallone

Le giocate di Ibrahimovic sono fuori dal comune non tanto per la loro spettacolarità, o per la potenza dei tiri, ma per il particolare rapporto che si è instaurato tra lui e il pallone.
La relazione tra Zlatan e la sfera sembra essere duplice, amorevole da un lato, violento dall’altro.
La tecnica di base dello svedese è assoluta, tra le migliori al mondo in questo momento: tocca la palla con leggerezza e in modo raffinato, spesso la accompagna con movimenti fluidi e aggraziati. Altrettanto frequentemente, però, compie delle giocate al limite tra calcio e Taekwon-Do: “scorpioni” rabbiosi e spettacolari, calci volanti che sembrano voler fare scoppiare il pallone. Infine la conclusione in porta: secca e violenta anche quando non sarebbe necessario; la conclusione di Ibra non è solo un tiro veemente, bensì un inevitabile, caotico e impetuoso traboccamento di potenza.

Ancora una volta, anche nelle sue giocate, Zlatan è obbligato a esternare la sua natura dominatrice, il suo eccesso di forza vitale.

Ibrahimovic non ha bisogno dell’approvazione di chiunque non sia lui stesso, è sordo alle valutazioni altrui. I suoi giudizi, i suoi valori sono l’unica cosa che conta. Ormai, da qualche, ha perso anche quell’ossessione per la Champions che l’ha accompagnato per molti anni della sua carriera. Nemmeno vincere il Pallone d’oro avrebbe senso: nessuno può giudicarlo, nessun compagno, nessun club, neanche la Svezia.

No Ibra, neanche Dio, chiaro. Dio è morto.

Articolo a cura di Giacomo Raffin,

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