La morte e il taglialegna

Crampi Sportivi
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7 min readOct 30, 2014

Anders Limpar l’altro pomeriggio a Ödeshög non c’è andato. L’ex centrocampista della Cremonese oggi gestisce un’importante agenzia di scommesse on-line e due settimane fa era in Asia per lavoro. Hemliga fyran, il quartetto segreto, non si è ricomposto. Erano in tre questa volta, l’ultima volta.

Tomas Brolin e Lars Eriksson hanno guidato verso Ödeshög il più velocemente possibile. Dovevano arrivare presto, li aveva convocati il loro vecchio amico Klabbe, che voleva riunire la “compagnia dell’alce” a casa sua. Sono diversi giorni che Klas Ingesson manda sms ed email ad amici e compagni di squadra di una vita. Le sue condizioni di salute sono precipitate, è stato persino costretto a lasciare la panchina dell’Elfsborg. Si è preso del tempo, quello che gli rimane, per salutare tutti. Ringrazia tutti, scrivendo e telefonando. Ma quei tre deve vederli, deve abbracciarli. A Ödeshög, cinquemila anime o poco più, dove Klas il taglialegna possiede una fattoria. Oltre 800 ettari in mezzo alle foreste e ai laghi, nel cuore della Svezia. Loro quattro erano il cuore della Svezia, la Svezia del pallone, quella miracolosa degli Europei del 1992 e del bronzo mondiale del 1994.

Il quartetto segreto non rimaneva mai in albergo a perder tempo con i videogiochi. Preferiva costruire storie, un mucchio di storie da raccontare, un giorno. Come quando, durante il mondiale americano, la compagnia si spinse in un avventuroso viaggio in elicottero sotto il Golden Gate Bridge di San Francisco. Il motore di tutto era sempre Klas, con la stessa, inarrestabile vitalità che lo faceva svettare in mezzo al campo ben oltre i suoi 190 centimetri.

I tre hanno riso un sacco l’altro pomeriggio a casa di Klabbe. Hanno chiacchierato di vita e di amicizia. Hanno pianto, anche. Perché non si sono detti addio, ma tutti sapevano che non ci sarebbe stata un’altra volta insieme. Klas non prendeva più farmaci: per la prima volta nella sua vita, si stava forse arrendendo. “E’ stata una giornata piena di Inge”, ha dichiarato Tomas Brolin tra le lacrime.

Anders Limpar, il quarto, non c’era quel pomeriggio solo perché Brolin gli aveva mentito sulle reali condizioni dell’amico. “Se avesse saputo come stavano le cose veramente, sarebbe tornato dall’Asia a nuoto.”

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Bari e la Svezia sono molto più distanti degli oltre duemila chilometri che dichiara viamichelin. Negli anni ’90 lo erano certamente di più. L’ordine eletto a stile di vita contro l’allegro caos imperante della capitale pugliese, dove l’unico welfare state di successo è quello delle mamme che, dalla culla alla tomba, sfornano focacce e calzoni fragranti.

La notte del 5 aprile 1997, Bari e la Svezia sono state vicine come non mai.

Mentre un mare di gente affolla i cinema del centro per piangere insieme a Kate Winslet sul Titanic, in un San Nicola depresso va in scena uno dei derby più importanti della storia dei galletti. E’ serie B, ma c’è Telepiù2: il Bari di Fascetti è costruito per vincere, ma arranca in classifica; il Lecce di Ventura e Palmieri è lanciassimo verso il salto di categoria. Quella notte Klas Ingesson diventa leggenda. Prima trasforma il rigore guadagnato da Rodolfo Giorgetti, poi firma il 2–1 su assist di Thomas Doll, anticipando l’uscita di Lorieri con un pallonetto. Lo specialista nei colpi di testa, il gigante — perché a Bari negli anni ’90 uno alto 1.90 era una specie di Gulliver — segna con un delizioso colpo sotto. Il Bari completerà una rimonta clamorosa nel finale di stagione e conquisterà un’insperata promozione in Serie A. Al San Nicola, il 15 giugno, saranno in 60mila a festeggiare il successo sul Castel di Sangro.

La svolta era stata quella doppietta di Klabbe, la cui tecnica (tutt’altro che trascurabile) tendeva a scomparire al cospetto della forza fisica e del temperamento. Dirompenti. Diventò rigorista e capitano del Bari. Giorgetti, ala tuttofare, amava le storie di Ingesson, i suoi racconti di caccia, di pesca, di natura. Le vacanze nei boschi svedesi e gli incontri ravvicinati con gli orsi, sempre scansati con mestiere. Un giorno, in allenamento, Klas affrontò di petto Gaetano de Rosa e gli urlò forte in faccia, incitandolo a tirar fuori gli attributi e a parlare di più. Era un tentativo per aiutarlo a far emergere il meglio di sé, racconterà. De Rosa sarebbe successo ad Inghessòn come capitano e simbolo del Bari, poco tempo dopo.

Klas negli ultimi tempi aveva espresso il desiderio di scrivere un’autobiografia, perché temeva che il grande pubblico ricordasse il calciatore combattente piuttosto che l’uomo indomito. Lo sottovalutava, il grande pubblico. Bandiera del Bari, ha chiuso la carriera a Lecce, dall’altra parte della barricata, ma nessuno glielo ha mai rinfacciato. I due capoluoghi pugliesi oggi lo piangono insieme. Con loro, tutte le città europee dove la sagoma imponente di Ingesson ha fatto tappa. Gli dedicheranno settori di stadi e piazze, forse. Di sicuro al San Nicola, così come al Via del Mare e al Dall’Ara, cori e striscioni per Klas Ingesson non mancheranno mai.

“Sono estremamente onorato e riconoscente perché ho potuto giocare per te. Tutto ciò che ho fatto all’Elfsborg è permeato dei tuoi insegnamenti e funziona ancora come un orologio.”

Tommy Svensson, c.t. della nazionale svedese dal 1991 al 1997, ha ricevuto questo sms da Klas Ingesson lo stesso pomeriggio dell’incontro della compagnia dell’alce. Svensson è convinto che Klabbe sia stato uno degli sportivi più importanti della storia svedese. Quando distruggeva gli avversari a centrocampo e pesava 76 chili, certo. Ma anche quando, più recentemente, era arrivato a pesare 106 chili e riusciva a percorrere a stento un maledetto chilometro, uno solo, per lui che ne macinava infiniti ogni domenica. Non aveva più massa muscolare, e le sue ossa si sbriciolavano ad ogni passo. Si è fratturato un braccio e un femore in poco tempo, e le ultime uscite sulla panchina dell’Elfsborg l’hanno visto costretto, pugni chiusi, su una sedia a rotelle. In Svezia sono sicuri che ci sia nato, con i pugni chiusi. Urlava, a volte, di rabbia e determinazione, urlava che il cancro aveva sbagliato corpo. Pochi mesi fa ha detto a un giornalista di Repubblica “Un vichingo non muore senza lottare. Lo scriva.”

Professionista esemplare contro ogni risma di avversario, fosse esso un mieloma o la Sampdoria. Nel 1999, una sua doppietta condannò i blucerchiati alla retrocessione. Ultima giornata di A, la Samp è avanti 2–1 al novantesimo quando Trentalange accorda un rigore inesistente a Simutenkov. Il tiratore scelto per Mazzone è Beppe Signori, ma l’attaccante — atteso ex — non se la sente. Tocca allo svedese, che si avvia verso il dischetto tra gli sguardi imploranti degli avversari. Dai, dai, sbaglialo. Ingesson non può sbagliarlo, non è nelle sue corde. 2–2, Samp in B. “Ero contento per il Bologna ma non felice, perché sapevo di aver fatto del male a un’altra squadra.”

1995-11-18 Klas Ingesson p stadion i Bari © BildbyrÂn(19246 )

Il bosco, i figli e il calcio sono stati aria pulita per Klabbe negli ultimi anni di lotta. La foresta, quella fitta, che viveva in lui. I figli Martin, che “ha il fisico ma non i piedi” e David, che “ha il fiuto del gol ma non si sacrifica”. Il calcio, da allenatore, per provare ad essere “un mix ideale dei maestri Fascetti e Mazzone”.

Diceva, Klas, di scoprirsi più felice ogni mattina: un altro giorno da godere con la sua famiglia, e sul campo. Ha lasciato a Borås, un’ora da Ödeshög, il progetto calcistico più interessante del panorama svedese. L’Elfsborg. Da guida dell’Elfsborg, ad aprile, ha scritto quello che è testamento e ispirazione per una generazione intera.

“Negli ultimi due giorni ho letto molti articoli che parlano molto bene del nostro lavoro. Questo mi rende felice. Ma ho anche letto altri pezzi che si chiedono se sia giusto che io sia ancora l’allenatore dell’Elfsborg, per via della mia malattia. Mi irrito se vengo giudicato a causa della malattia, e lo dico una volta per tutte: i discorsi sul mio cancro devono finire. Io e l’Elfsborg abbiamo un accordo, io sono l’allenatore della prima squadra. Non ho problemi né fisici, né mentali a svolgere il mio lavoro. Vorrei essere giudicato come tutti gli altri in base alle mie competenze e al lavoro che svolgo, non per il mio stato fisico. Tutte le persone hanno il diritto di essere giudicate rispetto a quello che sono e quello che fanno, e non perché hanno una malattia o un handicap.”

Johan Larsson è il ventiquattrenne capitano dell’Elfsborg. Racconta singhiozzando che il suo allenatore non ha mai detto alla squadra una sillaba sul suo dolore e la sua sofferenza. I suoi compagni di squadra hanno imparato a non piagnucolare più per i loro stupidi infortuni. Johan ha preso un altro impegno. “Le pareti del nostro spogliatoio sono impregnate della mentalità e dell’identità del nostro allenatore. Io mi assicurerò che queste restino impresse lì dentro, per sempre.”

Anche la scuola elementare di Ödeshög, adibita a luogo per l’ultimo saluto al campione, è piena di Inge. Foto, fiori, candele. La bandiera svedese a mezz’asta, a ricordare il combattente che negli ultimi giorni riusciva solo a dormire. Il taglialegna indomabile che ha portato via con sé avventure, battute di caccia, tackle, gol e notti sognanti di primavera. Dietro la scuola c’è la Klas Ingesson Arena, il campo sportivo del paese. Lì alcuni adolescenti rincorrono ogni pomeriggio un pallone e il proprio destino. Il destino di Klas il taglialegna è stato spietato, atroce. Ma non è riuscito, nemmeno per un attimo, a trasformare un grande eroe moderno in un perdente.

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“La morte e il taglialegna” (1859) è un dipinto di Jean-François Millet, ispirato a una favola di La Fontaine. E’ conservato al museo Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, meno di 400 km da Ödeshög.

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