La pallanuoto di Zeman e quella der Patata

Crampi Sportivi
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4 min readJul 4, 2013
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La pallanuoto è uno sport fondato sulla paura. Non è semplicemente il timore di sbagliare (la variante sportiva della legge di Murphy è che se ti terrorizza l’idea di segnare un autogol, di sicuro lo segnerai; e, con ogni probabilità, lo farai nel peggior momento possibile, per esempio negli ultimi minuti di una finale di campionato molto tesa), né di deludere i propri compagni, né di essere sostituiti dall’allenatore. La pallanuoto si fonda sulla paura dell’avversario.

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Il più forte pallanuotista di tutti i tempi.

Il più forte pallanuotista di tutti i tempi.[/caption]

Ci sono almeno due principi da enunciare, per rendere questa frase meno assiomatica. Il primo è che nella pallanuoto praticamente non esistono i moduli. Niente discussioni su difesa a tre o a quattro (quale rende meglio in Europa?), nessuna dissertazione sulla scomparsa del trequartista e, per fortuna, assenza di dibattiti sul finto centravanti. Nella pallanuoto ci sono sei giocatori, disposti su due file da tre, più un portiere. Si attacca in sei e si difende in sei. Non così difficile, in realtà. Questa assenza di fantasia nel posizionamento dei giocatori significa che, cambi permettendo, ci si ritroverà generalmente a marcare e ad essere marcati dallo stesso avversario per tutto il corso della partita. E qui si inserisce il secondo principio. La pallanuoto è uno sport violento.

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La pallanuoto non è uno sport per signorine.

La pallanuoto non è uno sport per signorine.[/caption]

Quando giocavo, qualche anno e chilo fa, un mio allenatore, dall’emblematico soprannome de Er Patata (peraltro, incredibilmente simile al Silvio Orlando di Palombella rossa), mi stupì dandomi un consiglio che, come al narratore del Grande Gatsby, non mi è più uscito di mente: «Quando vedi il tuo avversario per la prima volta, dagli una ginocchiata sulle palle». All’epoca non accolsi il suggerimento, pensando, da buon zemaniano, che si dovesse giocare innanzitutto in maniera corretta. Tuttavia Er Patata aveva ragione, e me ne accorsi quando i miei avversari, con il mio stesso identico umore ma la calotta di un altro colore, non mi ricambiarono la cortesia e si presentarono tendendo il ginocchio al posto della mano. Ben presto, le mie partite si tramutarono in lotte acquatiche degne di quelle tra Bond e il suo acerrimo nemico Squalo, dove la mia massima aspettativa era limitare i danni fisici e, solo in via secondaria, segnare magari qualche goal.

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Ma in vasca c'è spazio anche per i sentimenti.

Ma in vasca c’è spazio anche per i sentimenti.[/caption]

Talvolta, si andava a giocare in qualche piscina di periferia. Prima della partita Er Patata cercava di spronarci, dicendo che i nostri avversari pensavano che noi fossimo delle fighette. Era vero? No. Assolutamente no. Delle fighette, noi? Gliel’avremmo fatto vedere chi erano le fighette. Poi uscivamo dallo spogliatoio e incrociavamo l’altra squadra per la prima volta. E di colpo comprendevamo lo stato d’animo degli antichi romani che si ritrovavano a scontrarsi con i barbari. I nostri avversari erano sempre più alti, più muscolosi e più cattivi di noi. La battuta più frequente prima di entrare in acqua era: “Ma i vostri figli quando arrivano?”. Sì. Eravamo delle fighette. Poi, la partita iniziava, e la piscina si tramutava in mattatoio. Noi giocavamo di fioretto; loro di sciabola. Noi disegnavamo geometrie perfette; loro rompevano nasi. La scena doveva apparire simile a quella con cui si chiude l’Ultimo samurai, con Katsumoto e i suoi che, militarmente superiori, vengono falciati dai proiettili vili di una mitragliatrice.

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Tipico team di periferia romana.

Tipica squadra di periferia romana (il portiere stava scattando la foto).[/caption]

Lentamente, iniziai a seguire i consigli der Patata. All’inizio con poca convinzione; colpivo gli avversari con timidi buffetti, che denunciavano ancora di più il mio intimo pacifismo. Fu con grande sforzo che mi adattai a quello stile di gioco e fu solo nell’ultimo periodo della mia poco memorabile carriera sportiva. Tuttavia avvertivo distintamente di aver smarrito qualcosa. Zeman, vedendomi, avrebbe scosso il capo impercettibilmente, masticando poche parole incomprensibili.

Valerio De Felice

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