La partita del silenzio

Crampi Sportivi
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7 min readFeb 10, 2017

La voce di una vecchia gloria del calcio sbuca da dietro un bancone abbellito da teli blu e grigi e invade il silenzio della sala. Ci sono palline tutte uguali, accalcate in una ciotola trasparente che la mano fa roteare energicamente. Ci sono giornalisti provenienti da ogni angolo d’Europa. Ci sono i rappresentanti delle squadre qualificatesi per la Coppa dei Campioni, il trofeo dei trofei, quello in cui si sfidavano le sole squadre vincitrici dei rispettivi campionati.

Niente seconde, niente terze, solo i campioni, i campioni e basta. All’Olimpo degli dei, fino al 1998, si accedeva solo con il biglietto più esclusivo.

Splende il sole, nell’estate del 1987. Splende così forte che sembra colorare di bianco il cielo azzurro terso che copre Napoli. L’afa toglie il respiro, il vento del Golfo porta sollievo solo per qualche ora, e generalmente è un’ora serale. Su una finestra aperta, una radiolina a pile è sospesa sul davanzale, tra il dentro e il fuori, da lì si propaga una voce gracchiante che squarcia il silenzio del vicolo, sul quale la finestra affaccia. I palazzi alti disturbano il segnale, qualcuno alza il volume con la vana speranza di capire meglio quella voce che sembra robotica. Assieme ai panni stesi tra i balconi, ci sono ancora, ben presenti, i festoni azzurri, le bandiere, i drappi della notte del 10 maggio.

Mio padre dice che se l’aspettava, che il Napoli è un amore maledetto non a caso. Non esistono i concetti di “facile” e “comodo”, in città come nel calcio. C’è una radio ad ogni vicolo e le parole si susseguono simultaneamente: «Sì EFF REAL MADRID», «ES ES Sì NAPOLI». È il primo Real Madrid-Napoli della storia, all’esordio assoluto del Napoli in Coppa dei Campioni, con il Tricolore cucito sulla maglia NR, assieme al cerchietto tricolore della Coppa Italia conquistata nella doppia finale contro l’Atalanta qualche mese prima, il 14 giugno dell’87. Il Real Madrid, il Santiago Bernabèu, Emilio Butragueño, la camiseta blanca, i migliori. Nel vicolo, un cane rincorre una pallina di carta tra le gambe dei curiosi radunatisi sotto la finestra, per caso, all’incrocio col destino manifestatosi ad onde medie.

Nelle precedenti settantadue ore Napoli è stata imbalsamata, indisponibile, troppo ansiosa per poter risplendere. Diego e i suoi sono all’ Aeroporto Adolfo Suárez all’ora di pranzo, il giorno prima della partita, il 15 settembre dell’87. C’è qualche napoletano residente nella capitale spagnola che li accoglie all’uscita, ma i flash dei giornalisti armati d’invadenza creano un cordone invalicabile tra il sogno e il sognatore. Qualcuno dice a Bagni che il Santiago Bernabèu sarà vuoto, come a voler colorare di ottimismo una spedizione forse troppo silenziosa.

Effettivamente, il giorno dopo, la sera del 16 settembre 1987, il gigante di Madrìd è una cattedrale deserta, immensamente vuota,. L’UEFA ha proibito l’accesso agli spalti come atto repressivo verso Ultras Sur, protagonisti di diversi episodi di violenza nella stagione precedente, sia in Europa che in Spagna. Precisamente, il provvedimento è stato preso dopo i violenti scontri in partite che in Castilla chiamano per nome: “El loco del Bernabéu” e “El pisotón de Juanito a Matthäus”. Però, il Bernabèu vuoto non aiuta i Campioni d’Italia: il Napoli è spaventato come un bambino al primo giorno di scuola. Maradona è il fantasma di se stesso, Carnevale è rimasto a Napoli assieme al nuovo acquisto, Antônio de Oliveira Filho Careca. All’esterno, un gruppo di fedeli segue il rituale raccontato dagli altoparlanti delle radio. C’è troppo Real e poco Napoli. La mente degli azzurri è sgombra, come Napoli ad agosto, come fosse notte fonda. Michel porta i blancos in vantaggio su rigore.

Michel è José Miguel González Martín del Campo, madrileno madridista, cresciuto nel Castilla — la cantèra del Real — assieme a Manolo Sanchís, Rafael Martín Vázquez, Miguel Pardeza ed Emilio Butragueño. In Spagna chiamano questo quintetto come la Quinta del Buitre, letteralmente “la corte dell’avvoltoio”. Domineranno il calcio spagnolo per un decennio.

El dies è ingabbiato, marcato a uomo, seguito a vista. Nel secondo tempo, al minuto 76, Tendillo, un difensore di quelli che calcia solo per spazzare, colpisce con il pallone Nando De Napoli che beffa Garella e finisce sul tabellino dei marcatori, beffato dal destino, in una notte cominciata settantadue ore prima. Qualcuno comincia a chiamare quella del Bernabèu come “el partido del silencio”, la partita del silenzio, perché sono le parole che meglio spiegano, nell’immaginario calcistico, l’epilogo della sfida. Nel silenzio dell’estate è nata, nel silenzio della paura è cresciuta, nel silenzio della cattedrale deserta è finita. Col silenzio del mas grande, in attesa del ritorno in una città che in silenzio aspetta.

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Sull’aereo che riporta gli azzurri a Capodichino, nella notte, Bruscolotti guarda fuori del finestrino le luci delle città, lontanissime. Diego non parla, a tratti sembra addirittura che non respiri. Il piccolo crocifisso d’argento che gli pende dall’orecchio sinistro scandisce il passar del tempo. Possibile che l’emozione abbia appesantito le gambe quasi a renderle come blocchi di cemento armato amalgamato e paure?

A notte fonda, dall’altra parte, la città dorme aggrappata a una sottilissima speranza che ancora le riscalda il cuore ma che le strozza la gola e le toglie la voce. Capodichino, ore 5 del mattino. Lo scalo è deserto, l’unico Gate aperto è quello dedicato agli azzurri. Ad aspettarli una decina di addetti ai lavori. Uno di loro indossa una sciarpa bianco azzurra. Maradona gli va incontro in silenzio, come a volersi scusare per una promessa non mantenuta, tende la mano al ragazzo con la sciarpa che gli sorride: «Non è finita, e poi la sciarpa l’avrei messa comunque».

Nei tre giorni successivi, al Centro Sportivo Paradiso non vola una mosca. Se è vero che ogni sconfitta corrisponde a un nuovo inizio, allora la stagione del Napoli comincia davvero solo il 20 settembre 1987, allo stadio San Paolo. C’è l’Ascoli di Casagrande, quello che aveva fatto parte della Democracia corinthina, voluta fortemente da un suo compagno di squadra dottore in medicina. un certo Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, passato poi alla Fiorentina. Il 20 settembre il catino di Fuorigrotta è pieno come sempre. All’ingresso in campo, gli azzurri sono silenziosi, scuri in volto. Diego guarda il cerchio di centrocampo intorno a sé come se fosse uno di quegli anelli di gas e rocce che circondano Giove.

Bagni segna subito, ma i bianconeri pareggiano qualche minuto dopo. Seguono sedici, ulteriori minuti di silenzio mai realmente squarciato dalle paure che risuonano sulle gradinate. È Giordano a spezzare le catene che legano la città alla zavorra che la tira a picco, lentamente. Leggero pallonetto, indirizzato nel sette alla sinistra del portiere che non può nulla. La paura dell’errore, l’ombra del miglior Napoli della stagione vincitore del tricolore, l’incubo bianco della notte di Madrid, scavano crepe nella testa degli azzurri, della gente, delle mura di Napoli che trema. Mancano ancora dieci giorni al 30 settembre, e i biglietti per la sfida di ritorno di Coppa dei Campioni contro il Real sono oramai un miraggio.

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Finalmente 30 settembre 1987. Alle 7 del mattino i bar sono già pieni di ipotesi, il caffè viene macchiato con latte e aspettative, i giornali non sono stati consegnati perché potrebbero essere pericolosi detonatori. Un’epidemia inattesa colpisce molti uffici di Napoli, ma non solo. Alle 9 del mattino le prime bancarelle vengono montate in posizioni strategiche attorno allo stadio San Paolo. All’ora di pranzo, lo stomaco si chiude in una morsa strettissima come al primo innamoramento. Alle tre del pomeriggio, invece, è la paralisi. Qualcuno è irrintracciabile, qualcun altro è sparito già da un po’. La mente di migliaia di persone viene attratta dall’enorme ovale di Fuorigrotta.

Alle 20:30, il San Paolo ribolle. Gli spalti sembrano pieni di magma incandescente che risale dalle viscere della terra e spinge, sbuffa, ondeggia, sussulta, esplode, implode. All’ingresso delle squadre in campo, le curve s’incendiano.

Il frastuono è indecifrabile, sugli spalti sembra ci sia un’intera città ammassata. Emilio Butragueño dirà, a fine gara, che non aveva mai visto una cosa del genere. E infatti il Napoli, spinto da quell’ubriacatura di canti e cori, torce e petardi, si impadronisce letteralmente del campo e del gioco. Il grande Real alle prime battute appare stordito, annichilito dall’impeto degli azzurri e dalla veemenza dei ripetuti assalti all’area di rigore.

Al nono minuto, una palla sporca danza in area di rigore. Le gole si strozzano, i petti si comprimono, i respiri si fermano. Ferrario salta più in alto di tutti e schiaccia verso il palo alla sinistra del portiere Buyo. Silenzio. Respinta del portiere. Sussulto, scintilla. Ribattuta in rete, violenta.

Boato.

Lo stadio trema sotto i piedi dei centomila presenti, ma in pochi se ne rendono conto. Per lo più, le persone galleggiano, tra i decibel insopportabili e le braccia che si tendono alternandosi caoticamente. Qualcuno riporta immediatamente il pallone al centro del campo. Tattica e programmi saltano subito, compostezza e contegno vengono cancellati immediatamente. Tutti seguono la marea che ha spazzato via la paura e che ha squarciato il silenzio. I blancos sono in balia del caos del San Paolo, sotto assedio. Poco dopo, Careca ha in mano le chiavi del paradiso.

Buyo però gliele sfila di mano, mentre alle sue spalle il San Paolo era pronto a franare. Butragueño, l’avvoltoio, si invola verso la porta, in contropiede. Minuto 40, Garella è in leggero ritardo. Il pallone finisce alle sue spalle. Qualcuno a Madrid la chiamò la partita del silenzio perché nacque nel silenzio, si giocò nel silenzio, finì nel silenzio. Come quello del San Paolo, dopo il goal del Real. Come quello in cui muoiono i sogni quando s’infrangono in mille pezzi.

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A cura di Saverio Nappo

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