Crampi Sportivi
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9 min readApr 21, 2017

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Verde contro Rosso — La più forte squadra di Germania che non vinse mai la Champions League

Il calcio degli anni Settanta porta vestiti lisi, ha spesso le mani sporche, parla soltanto la lingua del paese in cui è nato, con forti influenze dialettali peraltro, e frequenta il pub dopo una giornata trascorsa in miniera — molto spesso una miniera di carbone.

Liverpool, Saint-Etienne e Mönchengladbach sono le capitali europee di quel calcio. Anfield Road, lo Stade Geoffroy-Guichard, noto anche come “Il calderone”, e il Boekelberg, detto “La cava di ghiaia”, sono le cattedrali calcistiche dell’epoca.

I soprannomi evocano atmosfere da gironi infernali danteschi, cori e rumori assordanti e, perché no, fiumi di birra, anche perché la base dei fan che spinge le tre squadre nelle partite casalinghe è assolutamente working class, poco avvezza e poco incline a modi compatibili con il galateo, specialmente se si sta guardando una partita di pallone.

Il nostro viaggio tra le squadre più forti ma mai vincitrici della Coppa dei Campioni fa tappa questa volta nella Renania Settrentrionale-Vestfalia, a Mönchengladbach.

Puledri con un cocchiere d’eccezione

Il periodo 1970–1979 è il quando e la regione che ospita l’immenso agglomerato urbano della Ruhr, ricco di carbone e ferro, è il dove.

E’ in questo contesto spazio-temporale che prende forma la squadra della Bundesliga forse più forte di ogni tempo: il Borussia Mönchengladbach degli anni Settanta.

Vista la corazzata Bayern degli ultimi 5 anni, l’affermazione potrebbe sembrare un azzardo, ma recentemente un sondaggio tra i tifosi tedeschi ha evidenziato come il segno lasciato da quel Gladbach sia ancora indelebile.

In particolare, è nei primi anni del decennio che i Fohlen, “Puledri” è il nomignolo dei bianco-nero-verdi, giocano un calcio offensivo spumeggiante fatto di forza fisica, sì, ma soprattutto lampi di genio e classe da vendere.

Il cocchiere siede in panchina e non sul sedile di un carro, ma nella sostanza poco cambia. Si chiama Hennes Weisweiler e prende le redini del club nell’aprile 1964 realizzando in pochi anni un vero capolavoro. Il buon Hennes è un personaggio chiave nella storia del calcio tedesco: vale la pena fermarsi un secondo per conoscerlo meglio.

Il coach dei coach

In Germania il calcio si chiama Fußball, con quello strano — almeno per noi — simbolo “ß”, o scharfes S, retaggio ortografico antico rimasto nel tedesco di oggi. E, di Fußball, Weisweiler è un vero maestro, tanto da aver pure scritto e pubblicato un libro sull’argomento già negli anni Cinquanta: Der Fußball — Taktik, Training und Mannschaft (“Il calcio — Tattica, Allenamento e Squadra”)Titolo magari poco fantasioso e poetico, ma nella sua concretezza indicativo della chiarezza di idee dell’autore.

Il volume è considerato un autentico manuale di istruzioni e quindi non stupisce sapere che, oltre a dirigere il Gladbach, Weisweiler fa anche l’insegnante per circa 15 anni all’accademia tedesca per allenatori a Colonia.

Non risulta quindi casuale se con un maestro del genere, due colonne sul campo di quello che sarà il Borussia vincente degli anni Settanta, il terzino Berti Vogts e il goleador Jupp Heynckes, diventeranno anche due dei migliori allenatori del calcio tedesco degli anni Novanta e Duemila, capaci di vincere un Europeo — Vogts, sulla panchina della Germania — e due Champions League — Heynckes, sulle panchine di Bayern e Real Madrid.

Quando Weisweiler viene messo alla guida del Gladbach nel 1964, il club si barcamena nella seconda divisione della Bundesrepublik Deutschland (BDR), o Repubblica Federale Tedesca, nome dal quale intuite l’origine di Bundesliga.

Per chi avesse la memoria corta, ai tempi quando si parlava di Germania bisognava specificare se ci si stava riferendo a quella filo-occidentale dell’Ovest, la BDR, o a quella filo-sovietica dell’Est, la DDR. Chiusa parentesi.

Weisweiler, si diceva, è uno che vive per il calcio e vuole puntare in alto: l’obiettivo è costruire una squadra di giovani promesse e plasmarla fino a farla diventare una macchina da gol, vincente e spettacolare.

Il periodo Netzer

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, calcio e tendenze sociali si fondono e si confondono — non che oggi le cose siano troppo diverse da questo punto di vista.

Dalle parti di Manchester in quegli anni spopola un certo George Best, fenomeno nord-irlandese noto per i dribbling in campo e per gli eccessi che lo portano a essere soprannominato “quinto Beatle” al di fuori.

Se Best ha i capelli scuri — particolare sempre molto apprezzato dal gentil sesso in terra inglese — la sua controparte dalle parti della Ruhr, invece, ha i capelli biondi lunghi e lisci: il suo nome è Günter Netzer.

Fisicamente potente, Netzer è dotato di tecnica individuale sopraffina e di un calcio molto preciso a lunga gittata che utilizza o per ribaltare velocemente l’azione o per i tiri da fermo, con i quali risulta spesso letale.

Come nel caso del numero 7 di Manchester, Netzer fa parlare di sé anche per le imprese fuori dal campo: è noto più o meno a tutti il suo amore per le auto veloci e per le belle donne.

Uno stile di vita nel complesso più morigerato di quello di Best lo ha preservato comunque fino ai giorni nostri, tant’è che Netzer, appese le scarpe al chiodo, è diventato dirigente sportivo di successo prima con l’Hamburger SV — una Coppa dei Campioni in bacheca vinta a spese della Juve di Zoff e del Trap — e commentatore televisivo ed editorialista sportivo poi.

Insomma, uno tosto, che si sa anche vendere bene e che già da giocatore ha in testa lo scopo di arrivare là in cima, tanto da affermare: “Al sabato in campo vanno 11 uomini d’affari, ciascuno dei quali rappresenta i propri interessi personali. Insieme, cercano il successo.”

Bravo Günter, magari per te le cose stanno così, ma vallo a dire al tuo compagno Herbert Wimmer, che corre da tutte le parti a mettere pezze quando tu, difensivamente parlando, te la prendi comoda in mezzo al campo.

L’ambizione personale di Netzer, comunque, oltre al suo indiscutibile talento, è una forza trainante in quel gruppo di giovani che sotto Weisweiler, nel giro di 6 anni, diventano campioni di Germania per due anni consecutivi, 1970 e 1971, giocando un sublime football d’attacco e si aggiudicano la DFB Pokal — tale è il nome della Coppa nazionale tedesca — nel 1973 con un gol decisivo indovinate di chi? “Proprio lui”, avrebbe detto Piccinini, per una volta non a sproposito: Netzer.

E’, tra l’altro, la sua ultima vittoria con i Fohlen: spinto dalla sua ambizione personale e diventato nel frattempo star internazionale grazie alle prestazioni maiuscole ai Campionati Europei del 1972, il biondo Günter si accasa al Real Madrid, guarda caso nella stessa stagione, il 1973–74, in cui l’altra stella europea Johan Cruyff si muove in direzione di Barcellona.

Oltre a Netzer e al suo già citato gregario Wimmer — “A centrocampo servono sia gli ingegneri sia gli operai”, insegnava Osvaldo Bagnoli — nelle file del Gladbach figurano altri elementi di grande caratura, quali il nazionale danese Ulrik le Fevre, il roccioso capitano e bandiera del club Vogts e il goleador Heynckes, di cui si è già detto, arrivato nella stagione 1970–71 come Rainer Bonhof, centrocampista classe 1952 in grado di piazzare 5 o 6 gol a stagione.

Ai titoli del 1970 e del 1971, tuttavia, non fanno seguito campagne europee di particolare successo, anche per colpa della famosa “partita della lattina”, giocata nella Coppa dei Campioni del 1971–72 contro l’Inter.

A Mönchengladbach, i nerazzurri ne prendono 7 (a uno), letteralmente surclassati dai giovani tedeschi. Durante l’incontro, tuttavia, l’attaccante interista Roberto Boninsegna viene colpito da una lattina, appunto, lanciata dagli spalti. Su suggerimento di Mazzola — a quanto scrive nientepopodimeno di Gianni Brera — si butta a terra.

Il risultato viene annullato grazie all’abilità forense dell’avvocato Peppino Prisco e la gara viene rigiocata dopo che l’Inter è riuscita a vincere in casa 4–2. Lo 0–0 della ripetizione sancisce quindi l’eliminazione dal torneo dei tedeschi.

Cambiano i leader ma il Gladbach continua a vincere

Il meritato successo in campo europeo arriva nel 1975, anno in cui i Fohlen tornano alla vittoria finale in Bundesliga e vincono, finalmente, anche in Europa, dove si impongono alzando al cielo la Coppa Uefa nell’annata di un double memorabile.

Privatisi di Netzer, i bianco-nero-verdi sono ora trascinati, oltre che dai soliti “vecchi” Vogts, Bonhof e Heynckes, da un nuovo idolo del Bökelberg: Allan Simonsen.

Il numero sette del Gladbach è danese, ma di nordico non ha di certo l’altezza, visto che non arriva nemmeno a 1,70, né il peso, dato che non arriva a 60 kg. Una stranezza, in un calcio fisico come quello tedesco. Eppure, dopo aver stentato inizialmente forse a causa della figura ingombrante di Netzer, Simonsen riesce a farsi strada diventando uno dei leader dei ragazzi di Weisweiler… e di Udo Lattek.

Già, perché a partire dal 1975–76 sulla panchina dei bianco-nero-vedi si siede proprio quest’ultimo, l’allenatore che negli anni precedenti aveva portato al successo in tre Coppe dei Campioni i grandi rivali del Bayern Monaco.

Weisweiler ha infatti deciso di optare per un’avventura diversa e affascinante, quella del Barcellona. Al Camp Nou rimarrà peraltro soltanto un anno, prima di tornare nella città in cui aveva formato tanti allenatori tedeschi, Colonia, per condurre il club locale a vincere la Bundesliga.

Anche Lattek, comunque, allenatore meno votato allo spettacolo e più attento a non prenderle, lascia il segno nella piccola Mönchengladbach: tra il 1975 e il 1980 il Borussia vince altre due Bundesliga e un’altra Coppa Uefa, prima di andare incontro a un declino inesorabile negli anni Ottanta. Non gli riesce, però, di ripetere anche al Bökelberg l’impresa di alzare al cielo la coppa dalle grandi orecchie: tutta colpa di quella squadra vestita di rosso che si chiama Liverpool.

L’avversario invincibile

“Conosci il significato del termine nemesi? La giusta e logica imposizione di un castigo terribile che si manifesta attraverso l’opera di un agente adeguato, personificato nella fattispecie da un terribile figlio di puttana: me.” Parola di Bricktop, uno dei personaggi di The Snatch, film di Guy Ritchie del 2001.

Una finale di Coppa Uefa persa nel 1973 e un’eliminazione in semifinale di Coppa dei Campioni nel 1978. Ma, soprattutto, la sconfitta per 3 a 1 nella finale di Coppa dei Campioni del 1977 allo Stadio Olimpico di Roma, nonostante quella sassata all’incrocio di Simonsen che aveva illuso Lattek e i suoi pareggiando temporaneamente i conti.

Basta questo, credo, per far capire come mai, quando in ambito calcistico si sente la parola Liverpool, alla gente di Mönchengladbach vengano i brividi e come mai sempre da quelle parti nemesi sia il sostantivo più frequentemente associato al nome della squadra inglese.

Sono i Reds, infatti, l’ostacolo insormontabile che impedisce a Vogts, Heynckes & co. di essere ricordati non solo come la squadra tedesca più forte di quegli anni ma anche come una dinastia in ambito europeo.

Attenzione: aver vinto due coppe Uefa in quegli anni non è uno scherzo e il valore a livello internazionale di quel grande Gladbach non potrà e non dovrà mai essere sminuito. Fino all’ampliamento della Champions League, la coppa Uefa vanta infatti un tasso tecnico e un prestigio quasi pari alla massima competizione. C’è, appunto, quel “quasi” di mezzo.

Per carità, i Reds di quegli anni sono la nemesi non solo dei Fohlen ma di tante altre squadre, in Inghilterra e in Europa, e ne sa qualcosa anche la nostra Roma, sconfitta all’Olimpico nella finale della Coppa Campioni del 1984.

Sarà proprio quello uno degli ultimi acuti di una squadra raffinata nelle qualità tecniche, ma sempre operaia — o meglio portuale: siamo a Liverpool — nell’animo.

Borussia Mönchengladbach e Saint-Etienne, invece, sono già da alcuni anni scivolate su un viale del tramonto che si estende ai giorni nostri, per quanto il Gladbach sia entrato tra le migliori 16 dell’Europa League in questa stagione.

I tempi, negli anni Ottanta, cambiano il pallone come avviene a tutto ciò che sia espressione di una società. E’ l’epoca dei parvenu, dei lustrini e delle luci suadenti della televisione commerciale e a colori. L’ex cantante sulle navi da crociera Bernard Tapie e il suo collega italiano Silvio Berlusconi irrompono sulla scena calcistica europea con investimenti faraonici, campagne acquisti con le paillettes e sensazionalismi a go-go.

Il signor calcio si è tolto la tuta blu, ha il viso curato e un bel fisico da bodybuilder costruito con pazienza in palestra, vanta una bella abbronzatura frutto di frequenti visite al solarium e si è sapientemente sistemato i capelli con largo uso di gel. La carriera in miniera è finita, quella da yuppie dei Favolosi anni Ottanta è appena iniziata.

Articolo a cura di Daniele Canepa

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