La prospettiva Kobe

Crampi Sportivi
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15 min readApr 12, 2016

Chissà se anche stanotte hai puntato la sveglia alle 4:30 del mattino. Chissà se indossi ancora mutande portafortuna particolari o se fai dei movimenti ripetuti e meccanici convinto che possano poi aiutarti magicamente in campo o se lo sai che la tua fortuna sei tu stesso, Kobe, e la tua lucida follia che tanto abbiamo amato e odiato al tempo stesso. Chissà se ci penserai un’ultima volta, che è proprio l’ultima, che poi basta, è tutto finito, calate il sipario. Non lo sapremo mai cosa hai pensato nelle tue ultime ore da giocatore di basket, se sei stato malinconico, svuotato, felice o triste.

Però sappiamo quello che pensiamo noi, che ti abbiamo visto, vissuto, quasi toccato, e nelle prossime righe proviamo a raccontarti, ognuno col suo spazietto, col suo ricordo interiore, ognuno col suo Kobe personale. Perché possiamo averti amato, odiato, amato e odiato nella stessa azione; oppure semplicemente rispettato, ma mai abbiamo potuto ignorarti, perché se c’è una cosa in cui sei stato grande grandissimo è stata quella di essere presente, sempre.

E allora grazie Kobe.

(Marco D’Ottavi)

I do what I do

(di Luca Mignola)

Era una di quelle partite in cui Kobe si era preso 30 tiri (o giù di lì), e che come dice Buffa era uno di quei giorni in cui la squadra non era arrivata alla sufficienza. Kobe nella conferenza stampa post-partita era teso, incazzato, innanzitutto con sé stesso — sempre prima con sé stesso, perché gli altri, i compagni di squadra, a volte erano solo un contorno. Poi, poiché il coltello va sempre girato nella piaga, gli fu chiesto se il suo malumore derivasse dalla sconfitta e dal fatto che avesse preso troppi tiri. Ora, quanti sono troppi tiri per il Mamba? 20 o 30 o 40?

Kobe si prese — e questo lo ricordo bene — qualche secondo prima di rispondere, la testa appoggiata sulla mano destra, quasi annoiato. Avendolo imparato a conoscere, avrà pensato che quella gente là dentro lo stava privando di preziosi minuti che avrebbe potuto dedicare ad allenarsi. Allora alza la testa, perché a una domanda su dieci bisogna rispondere con più di un monosillabo, e dice caustico come se fosse stato Eraclito: “I do what I do”.

Ecco il punto, l’acme: Kobe Bryant fuori dal campo o immediatamente dopo una partita. Mezcla di concisione e cazzimma, motteggiatore degno di Napoleone, non ce n’è stato uno più sagace. La conoscenza del gioco, la perizia tecnica e l’ossessione per raggiungere la vetta: caratteristiche che servono ad essere d’esempio, tracciano un percorso, distinguono. “I’d killed him” dice al giornalista di turno che gli chiede che cosa avrebbe fatto se la poca freddezza e lucidità di Vujacic avessero compromesso la partita, ossia la serie, ossia l’accesso alle Finals contro i Celtics dei Big Three. Anche in quel caso ha fatto ciò ha fatto (o che andava fatto): essere sempre presente, non lasciarsi mai andare, pensare continuamente al proprio scopo, alla propria meta.

È questo Kobe che non dimenticherò. La sua franchezza nel dire le cose. Mi sembra che le sue giocate rasentino la perfezione e la bellezza in movimento, ma che le sue parole dimostrino che al di sotto della struttura fisica, dell’allenamento, del tiro e del rumore poetico della rete, c’è una formazione diversa. Non a caso Kobe ha fatto spesso leva sul fatto che fosse cresciuto in Europa cestisticamente — ossia che avesse appreso i fondamentali, in cui molti grandi americani a volte peccano. E che cos’è che è fondamento della parola sagace, del motto di spirito, se non un forma mentis profonda, allenata almeno quanto il corpo a sopportare lo sforzo, la pressione — e anzi a volerne sempre di più, a non saper vivere senza.

La star del nuovo millennio

(di Andrea Centenari)

L’anno, se non ricordo male era il 1998 o il 1999. Nella cassetta erano raccolte le storie delle stelle che avrebbero dovuto marcare l’inizio del nuovo millenio. C’era Allen Iverson, c’era Kevin Garnett, c’era Grant Hill, c’erano Penny Hardaway, Jason Kidd, Stephon Marbury, Juwan Howard, addirittura c’erano anche Damon Stoudamire e Vin Baker. E c’era, soprattuto Kobe Bryant. Ai tempi Kobe, era già considerato un grandissimo talento anche se ancora troppo acerbo (non aveva ancora un tiro affidabile da fuori ed era forse troppo egoista nelle sue giocate), ma decisamente spettacolare. Le sue schiacciate mi facevano impazzire. Le sue giocate anche.

Il mio primo, vero, incontro con Kobe avvenne nel febbraio del 1998, All-Star Game di New York. Bryant con i suoi 19 anni è il più giovane giocatore di sempre a giocare ad un All-Star Game, e lo fa partendo addirittura in quintetto base, assieme a gente del calibro di Karl Malone, Shaquille O’Neal, Kevin Garnett e Gary Payton. Dall’altra parte ci sono Michael Jordan, Penny Hardaway, Grant Hill, Dikembe Mutombo e Shawn Kemp.

Il giovane Kobe contro sua maestà, Michael Jordan, quello che per Bryant è sempre stato un modello, un esempio da emulare, da provare a superare, fino a diventare il giocatore che forse più gli si è avvicinato, a livello di grandezza e di stile di gioco, nel corso dei successivi 18 anni di carriera NBA.

In quell’All-Star Game, Kobe chiuse con 18 punti ed una serie di giocate spettacolari, schiacciate, assist, alleyoops. Le mie preferite: il 360 in campo aperto ma, soprattutto, la finta di passaggio dietro la schiena per poi concludere con un mezzo gancetto quasi uscendo dal campo.

Il giorno dopo quella partita quasi nessuno parlò di Jordan o di Shaq, passarono in secondo piano. A ripensarci gli allenamenti post All-Star Game, sono sempre stati un incubo per ogni allenatore di una qualsiasi squadra giovanile di ragazzini di 12\13 anni. Tutti a cercare di emulare le movenze dei propri idoli, nonostante i rimproveri dell’allenatore. Quell’anno con Kobe si toccarono vette forse mai raggiunte: tentativi di alleyoops e 360° decisamente da codice rosso.

Kobe Bryant, studente erasmus

(di Valerio Coletta)

Oggi, come saprete, ci si può prenotare agli esami universitari attraverso un complesso sistema telematico fatto di password, account, registrazioni online, etc etc. Quando ero giovane no, non funzionava così, chiunque poteva andare sul sito e scrivere il proprio nome. Questo perché il mondo e l’università erano ancora dei posti ingenui e bucolici (non è vero, però vedetela così per un attimo). Allora durante una delle interminabili e futili giornate universitarie, io e i miei amici decidemmo di divertirci un mondo iscrivendo tale “Kobe Bryant” a un esame che si sarebbe svolto di lì a poco. Questo per vedere quanto il nostro mondo di appassionati Nba e il mondo reale fossero sullo stesso asse. Cioè per constatare se quello che per noi era un dio sul parquet, fosse almeno un nome conosciuto per un prof. qualsiasi di Filologia Romanza.

Iscrivemmo Kobe all’esame dal computer della biblioteca di storia dell’arte e corremmo su allo studio del prof. per vedere cosa sarebbe successo. Era tanti anni fa e nessuno disponeva di un cellulare così avanzato per registrare la scena, così decidemmo di fare come gli antichi latini: cioè ricordandoci quel momento con la mente. Un esiguo gruppetto di studenti aspettava di sostenere l’esame. Il professore uscì dal suo studio con la lista degli iscritti. Cominciò a leggere i nomi. Lesse alcuni nomi normali, di gente che rispondeva alzando timidamente la mano. Poi si avvicinò al foglio abbassando leggermente gli occhiali sulla punta del naso, e disse: B R I A N T? C O B E? Io e miei amici eravamo paralizzati da una risata interiore, ma anche da un senso di meraviglia e magia inspiegabile. C O B E B R I A N T? Chi è? E’ uno scherzo? Poi passò ai nomi dopo e cominciò con l’esame.

Finì così. Per il professore di Filologia qualcosa o Glottologia o Linguistica o non so che, Kobe Bryant era solo un nome, il nome di un ragazzo erasmus che aveva fatto uno scherzo o che non aveva avuto il coraggio di presentarsi all’esame. Ce ne andammo un po’ eccitati, ma anche delusi. Dopo tanti anni, oggi, ripensando a quel momento mi viene in mente solo una cosa. Kobe quell’esame l’avrebbe passato con Lode.

Lo Scatolone

(di Simone Vacatello)

A Reggio Calabria, non lontano dall’Oreste Granillo, c’è una palestra multifunzionale con un nome che è tutto un programma: lo Scatolone. In realtà non so se sia quello il vero nome della struttura, so che così lo chiamano tutti da quelle parti. Lo so perché ho un fratello che ha giocato per un breve periodo in una squadra giovanile di Reggio, e dalla lunetta dello Scatolone ha messo qualche tiro. All’epoca lui non lo sapeva, perché le foto non erano ancora venute fuori, ma dalla stessa lunetta una ventina di anni prima aveva preso la mira il figlio di Jellybean, al secolo Joe Bryant. La mia bella terra, la Calabria, non fa versare inchiostro sulle prime pagine dei grandi quotidiani sportivi, né ospita molti kolossal hollywoodiani in trasferta, eppure di sport vive, pulsa, lo ha sempre fatto.

Quando Kobe iniziò a farsi un nome in Nba nella seconda metà degli anni ’90, vincendo la gara delle schiacciate, iniziò anche a comparire nelle pubblicità nostrane, e a parlare in italiano. In quel periodo io finivo spesso faccia a terra in una palestra polverosa a soli 100 km a nord di Reggio. Il fatto che Kobe avesse mosso alcuni dei suoi primi passi cestistici nella nostra terra già lo sapevamo tutti, quello che non avremmo mai immaginato è la grandezza del kolossal che alla nostra terra avrebbe regalato, il figlio di Jellybean, anche solo tirando dalla lunetta dello Scatolone per un periodo così breve. Dal canto mio, non avrei mai praticato nessuno sport a livello agonistico, ma capii che mi sarebbe piaciuto scriverne. Lo capii in quella terra, in una palestra non diversa dallo Scatolone, quando vidi che non riuscivo a volare come lui. Lo capii perché era bello anche solo immaginare di poter ricreare il suo volo mettendo insieme delle parole per raccontarlo, e di questo lo ringrazierò per sempre.

Fare l’amore col movimento del gomito di Kobe

(di Matteo Santi)

Quando avevo 8 anni, mentre tutti gli altri miei coetanei si arrabattavano cercando di imitare Totti e Nesta, io crescevo cullando il sogno di poter indossare un giorno la 23 di Jordan. Alla fine, invece, in squadra avevo scelto la 33 di Pat Ewing, così, senza saper né leggere né scrivere. In squadra non ero il più forte, ero primo solamente nella speciale classifica dei più bassi. Sognavo di poter giocare un giorno al fianco dei più grandi: Bugs Bunny, Duffy Duck e Foghorn Leghorn. Michael Jordan è stata una figura paterna, dai tratti semidivini, a cui ancora oggi mi ispiro. Ma il primo vero amore, quello che non si scorda mai, il primo bacio consapevole, il primo limone durissimo, è stato Kobe Bryant. Lui non lo sa, ma fare l’amore con il suo movimento dal gomito è stata la sensazione più bella mai provata. Non si tratta di essere lover o hater, si tratta di amare qualcuno che ha estremizzato il Gioco oltre i limiti tracciati da Jordan. Kobe, per me sei amore, irrazionalità, scarica elettrica, estetica, io ti amo.

Kobe il guastafeste

(di Francesco Zanza)

Devo ammetterlo Kobe, tu non mi sei mai piaciuto! Sarà perché tifi Milan, sarà perché mi sono avvicinato al basket Nba nel 2000–01 come simpatizzante dei San Antonio Spurs — che tu in quegli anni hai sonoramente sculacciato (l’ammiraglio David Robinson probabilmente è dovuto andare dall’analista a causa tua) — o più probabilmente sarà per il presunto dualismo tra te e il mio idolo assoluto, e tuo grande amico, Tracy McGrady, “la fidanzata sbagliata” di Federico Buffa e di molti altri appassionati di pallacanestro. Tracy era bellissimo da vedere, sapeva fare tutto sul campo da basket ed aveva dentro di se quel fascino misterioso della “splendida incompiuta”, che ha accomunato tutte le mie prime passioni cestistiche.

Tu, invece, avevi tutto questo, ma avevi un elemento in più che ti rendeva odioso: una ferocia, una cattiveria agonistica ed una spietatezza che se l’avesse avuta Tracy avrebbe vinto almeno 5 anelli (quelli che hai vinto tu). Eri il perfetto cattivo dei cartoni animati, come potevo non odiarti! Prendi l’All Star Game del 2003, l’ultimo di Michael Jordan. Come in una sceneggiatura hollywoodiana, sul 136 pari nel primo tempo supplementare, Michael segna quello che sembra l’ennesimo tiro decisivo sullo scadere contro le lunghissime braccia di Shawn Marion, autore di una difesa ai limiti della perfezione, e porta l’Est sul +2 a tre secondi dalla fine. È il miglior finale che si potesse mai immaginare per concludere la carriera del “più grande di tutti”. Ma, come sempre, ci sei Tu a rovinare tutto: fallo assurdo di Jermaine O’Neal su un tuo tiro dai tre punti e Tu beffardamente ne metti due su tre. Quelli necessari per portare al secondo supplementare la partita e spegnere il climax alla serata.

Nel corso degli anni ho iniziato a studiarti per capire i tuoi punti deboli e ho iniziato ad appassionarmi a te, alla tua ossessione di perfezione e ho imparato che il “potenziale”, parola che in ambito cestistico mi aveva sempre affascinato, non è nulla se non è accompagnato dalla voglia di lavorare sempre, altrimenti DeSagana Diop sarebbe diventato la versione senegalese di Shaquille O’Neal.

Grazie di tutto Kobe, mio cattivo preferito.

Non c’è niente al di fuori del gioco

(di Alfredo Zucchi)

Nella primavera del 2004 la buona volontà e la tasca allora florida dei miei genitori materializzarono un abbonamento Sky. Allora, dopo anni, tornai a giocare il basket sui campetti. Questo perché avevo appena visto una cosa, gara 4 delle semifinali della Western Conference, Spurs 2 — Lakers 1. Kobe Bryant arriva allo Staples Center poco prima dell’inizio, direttamente dall’aula di tribunale del Colorado dove si difendeva da un’accusa di stupro. Più avanti avrei avuto modo di vedere il suo volto in lacrime, gli occhi spenti della moglie nella conferenza stampa del Luglio 2003, di leggere l’infamia delle accuse a Shaquille ‘O Neal nella deposizione. Allora vidi solo un uomo contro tutti, solo sull’isola, avrebbe detto Federico Buffa più avanti. La ricerca della difficoltà, della rarità, della perfezione, non il virtuosismo puro, ma la difficoltà coniugata a un agonismo feroce. Capii che Nietzsche non era abbastanza, dovevo studiare il Mamba. Queste, in breve, le conclusioni di un case study condotto dall’Aprile 2004 all’Aprile 2016.

a) “Vorrei essere ricordato come un overachiever”: dedizione, sacrificio, esercizio. Il conflitto è prima di tutto con se stessi. La necessità di superarsi sempre.
b) La dimensione performativa delle cose. All’esercizio ascetico, al tentativo analitico di controllare, prevedere ogni variabile, si aggiunge una dimensione di pura improvvisazione: in campo, Kobe Bryant è una bestia. Liberato dalla tara ascetica, l’istinto è incontenibile.
c) Per misurare l’incontenibilità dell’istinto, si può usare il cosiddetto fintometro, dispositivo di misurazione ponderato su due variabili: la difficoltà del gesto tecnico/atletico e la necessità del gesto stesso nell’economia del gioco al momento della sua esecuzione (le due variabili essendo inversamente proporzionali). Non sempre il fintometro ha rilevato valori positivi — indice della gratuità del gesto. In alcuni casi, invece, è esploso, costringendo gli umili misuratori (io e Luca Mignola, sia detto in fede) a costruirne uno nuovo di zecca.
d) No mercy: il gioco è tutto, non c’è niente al di fuori del gioco.

Kobe l’avversario

(di Marco Juric)

Si può dire? Non so se posso permettermi, soprattutto l’ultimo giorno del “Kobe Bryant’s farewell tour”. Vabbè lo faccio. Kobe Bryant per me è stato…Kobe Bryant. Ecco l’ho detto. Senza sensazionalismi, senza frasi strappalacrime, senza commiati struggenti. La stima per il campione e l’oggettiva ammirazione per quello che ha dato al basket è tanto ovvia quanto giusto sottolinearla. Ma il mio Kobe è stato un avversario, un avversario da ammirare e applaudire, ma è stato il campione assoluto difficile da tifare e sostenere. Perché purtroppo personalmente non riesco a non guardare uno sport senza tifare. Che sia la finale di Champions League della mia squadra o il primo turno del campionato interregionale di Darts. Se non tifo, se non mi immedesimo, se non prendo le parti di qualcuno, anche solo temporaneamente, non trovo gusto nel seguire uno sport. E quando lo faccio, tifo l’underdog. Sempre.

Quando mai Kobe è stato l’underdog? Kobe è stato, è, e sarà Kobe. Uno dei migliori giocatori di basket di sempre, quello che ha una mano piena di anelli, il detentore di non so quanti record individuali. Insomma, una leggenda vivente. E io le leggende le ammiro, ma non riesco a provare per loro alcun sentimento. Arrivano, dominano e finiscono in gloria. Bene, bravi, avrete il vostro posto sui libri di storia. Ma preferisco quelli che non ce l’hanno fatta, quelli senza particolari doti. Gli sfigati e i boriosi, gli umili mestieranti e i fastidiosi egocentrici. Sì, prendo tutto il resto. Perché le leggende sono uniche, superiori, fastidiosamente perfette. Per questo Kobe ti saluto e ti ringrazio, ma torno a piangere sulle ginocchia di Rose e a godere dei fallimenti di Harden.

Via Emilia, n. 19

(di Alessandro Corsaro)

Parma, anno 2001, annata cestistica “propaganda”. In quel periodo vestivo i panni del centro tuttofare della squadra. Avendo una mole ragguardevole rispetto ai miei compagni, mi toccava sempre la maglia più lunga e larga. Se per gli altri undici del roster la vastità di numeri da poter indossare li catapultava nel Paese Dei Balocchi del piccolo cestista, per il sottoscritto la scelta del numero diventava di fatto un aut aut cesariano. Non mi restava che il 19.

Con i polpastrelli sporchi di nero, sfoglio la Gazzetta dello Sport e mi imbatto in una istantanea che sa tanto di segno del destino. Poco dopo capirò che si trattava più semplicemente in una grossa presa in giro. C’è una foto di squadra dell’annata propaganda di Reggio Emilia del 1990. C’è un 19 nell’angolo sinistro, piccolo e gracile, ma con un magnetismo irresistibile. C’è Kobe con il mio numero, nella mia stessa “annata”, in una squadra che giocava a venti chilometri dalla palestra in cui ad ogni allenamento simulavo buzzer beater che quell’altro, dall’altra parte dell’Oceano, faceva con la stessa frequenza con cui sorge il sole. Mi sembrava di poterlo toccare.

Da tifoso Spurs e simpatizzante Celtic, il gialloviola non mi era mai andato giù, e io mi sentivo tradito da quel numero 19 che era diventato una seconda pelle. Più Kobe diventava grande, grandissimo e più io diventavo piccolo, in tutti i sensi. In un lasso di tempo più fulmineo del suo arresto e tiro, sono passato da centro a guardia, ma non segnavo davvero mai. Gli porgevo la guancia per potermi rifilare schiaffi morali a ripetizione. 40, 50, 60, 81 punti.

Era una battaglia già abbondantemente persa in partenza, che però paradossalmente mi ha fatto apprezzare Kobe più di tutti quelli che l’hanno sempre idolatrato. Nessuno potrà essere quello che Kobe è stato per me, nel bene e nel male, a meno che a Reggio Emilia qualcuno torni ad indossare la maglia numero 19.

Il parquet di Cireglio

(di Matteo Moca)

Ho sentito parlare di Kobe Bryant prima ancora che potessi soltanto capire come guardarlo in televisione, ne sentivo parlare ma neanche l’avevo mai visto in faccia. D’altronde lui qui a Pistoia è cresciuto, grazie alla militanza del padre nella squadra locale per due anni. Così la Maltinti Pistoia (poi divenuta la mitica Olimpia) ha visto tra l’87 e l’89, oltre al padre Joe, anche il bambino Kobe muovere i primi passi sul parquet. E per una città provinciale come Pistoia, avere un nome famoso da poter annoverare tra i suoi cittadini “acquisiti”, diventa una specie di ossessione. Che poi a dirla tutta Kobe giocava a Cireglio, dove aveva casa la famiglia, sulle colline pistoiesi, in un campo in cemento che adesso è assurto al ruolo di eco-mostro, e si divideva tra il basket e il calcio (alcuni narrano che fosse un fenomeno anche lì). C’è anche un video di una sua partita da piccolo nella palestra sgangherata Cino da Pistoia, dove lui bambino non passa mai la palla ma già ne infila a ripetizione (c’è pure un bambino con il numero 19 in maglia rossa, che segna in faccia al futuro campione: per la serie video da tramandare ai posteri).

Il mito, si sa, nasce e poi cresce nell’immaginario, così quando scartai NBA Live 99, la mia squadra del cuore divenne subito quella di Los Angeles, perché, a nove anni, mi sembrava fantastico che una persona che aveva vissuto nella mia città, figurasse in un gioco della Playstation (che poi vabbè, oltre che fortissima, era anche una squadra bellissima con quei completini gialli e viola). Provai anche per un anno a seguire le sue orme in una piccola squadra locale ma sarà che al posto del Viola nelle divise c’era il blu, sarà perché la palla a spicchi non la sentivo amica, l’esperienza fini ancora prima di cominciare. Però ancora adesso, se si sale verso Cireglio, nei due bar di paese, si potrà sentire ancora i racconti di quel ragazzino di colore che già allora (il mito è sempre il mito), dominava quel campetto da basket ricavato da una pista di pattinaggio.

Il Kobe umano

(di Sebastiano Bucci)

“Io faccio Iverson”. Abbiamo entrambi Reebok firmate troppo grandi per i nostri piedi di bambini. Fa caldo sotto il telone, la ruota del riscaldamento del minibasket è infinita. Sceglievamo Iverson nel nostro Pantheon di divinità a spicchi perché rispetto a Kobe ci sembrava che fosse più umano nel suo 1.80 e in quelle scelte del tipo io contro il mondo, prima ancora che diventasse una questione di simpatia. Ho iniziato a stimare davvero Bryant solo dopo quel fattaccio brutto dell’albergo in Colorado. Perché ho visto piangere l’uomo, il ragazzo che si era cacciato in un guaio grosso. Forse era davvero la prima volta che dal video vedevo la conferenza di un’espiazione pubblica e la associavo alla Rivincita e alla Rivalsa. Lui le ha prese al volo, come una carriera a cui volevo aspirare e che sto ancora rincorrendo, non solo sul parquet dove ancora mi diletto con gli amici. E ora che è arrivato l’ultima ruota, l’ultimo annuncio, l’ultima treccia e l’ultimo calvario di un corpo martoriato e umano, potremmo dire che davvero sceglieremmo Kobe, le sue Jerseys dalla doppia numerologia e le ore sveglie tra i fusi e imprese titaniche nelle Finals.
Niente, nonostante tu lo dica in uno spot famoso che sta andando molto nelle ultime ore, non ce la faccio veramente ad odiarti.

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