La punta dell’iceberg

Gabriele Anello
Crampi Sportivi
Published in
10 min readMar 23, 2018

A volte, un uomo, un essere umano può essere il simbolo di tutto ciò che non funziona in un certo ambito. Siamo ormai abituati a trasformare tutto in un meme e quindi a dimenticare qual era il problema iniziale al quale quella teoricamente ironica immagine si riferisse.

La F1 2018 presenta sulla sua griglia 20 piloti. Qualcuno di voi potrà contestare il valore di alcuni, perché ognuno di noi — sempre argomentando, eh — vede le cose in maniera differente. Qualcuno pensa (eccolo) che Kimi Räikkönen stia prolungando troppo la sua permanenza in Formula 1. O che la Mercedes avrebbe dovuto puntare su qualcuno al di fuori di Bottas. O che il duo Williams non abbia nessun senso (anche qui mi confermo nel carro), con Sirotkin tirato fuori dalla naftalina perché su Kubica permagono ancora dei dubbi.

Ma c’è una domanda che forse riecheggerà nella mente dei meno attenti di fronte alla griglia del GP d’Australia: Marcus Ericsson? Ancora?

Già, perché parliamo — ridendo e scherzando — di un classe ’90 che ha 76 GP all’attivo, quattro stagioni di Formula 1 e che a fine anno verosimilmente supererà per gare a cui ha partecipato gente come Kubica, Nannini, il divino Pastor, Montoya e persino James Hunt. Eppure, salvo gli esordienti, Ericsson sarà quello in griglia ad aver raccolto meno punti di tutti nella sua carriera (9).

Gli va detto che è affascinante. Almeno quello glielo concediamo.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Come siamo arrivati ad avere in un’epoca iper-tecnologica un pilota del genere? Prendiamoci un attimo per capirlo.

Bello e (purtroppo) possibile

Partiamo dal fatto che sapere qualcosa su Marcus Ericsson — nonostante viviamo in un’era ricolma di informazioni — è veramente difficile. Anche cercando news su Google e filtrando la ricerca per l’ultimo anno, le notizie sono generiche e sparute. Poco sul personaggio, poco da raccontare in generale: come il decimo a calcetto quando sei in emergenza, chiami chi capita.

In fondo, parliamo sempre di una persona che una pagina Wiki il cui numero di fonti è valutato come poco numeroso. Come se la sua vita e quindi la sua carriera in Formula 1 non presentasse abbastanza testimonianze, nonostante lo svedese si affacci alla quinta stagione nella massima categoria motoristica. Bisogna però capire come ci è arrivato.

Nato a Kumla (piccola città svedese), Ericsson ha iniziato presto a correre: la chiamata giusta è quella di Fredrik Ekblom, suo concittadino e che ha partecipato sia alla 24 Ore di Le Mans che alla Formula 3000 inglese. Il piccolo Marcus fa un giro sul kart e impressiona molti, tanto che Ekblom convince Ericsson senior a comprare un kart al figlio. Eppure, secondo quanto raccontato da Ericsson, i soldi per farlo correre non c’erano.

Il backing finanziario — quello giusto — arriva più tardi, quando a 16 anni Ericsson viene sospinto da Kenny Bräck, che ha vinto la 500 miglia di Indianapolis nel ’99. Bräck lo osserva durante una gara e ci va giù pesante:

«Quando sorpassa, non rimane coinvolto nello scontro: aspetta la giusta opportunità, supera l’avversario e va via […]. Mi è sembrato di vedere Alain Prost».

Al di là della sparata, i primi tempi danno ragione alla visione di Bräck: a 16 anni, Ericsson partecipa alla Formula BMW britannica e la vince con margine, nonostante sia giovanissimo. Anzi, nelle ultime due tappe di Brands Hatch e Knockhill, fa il pieno: pole position, giro veloce e vittoria. Da lì, il passaggio alla Räikkönen-Robertson Racing (sì, un team di Kimi) in Formula 3, prima in Inghilterra e poi in Giappone.

Arrivato in GP2, Ericsson ha deciso inizialmente di rimanere in Asia, correndo nella categoria del continente. Nel 2012, ha anche l’occasione di passare alla versione principale, ma se guardiamo i risultati in GP2, non c’è nulla che balzi all’occhio: 8° nel 2012, 6° nel 2013. Qualche lampo, ma niente di più. Eppure Ericsson è già stato chiamato nel 2009 per fare un test per l’allora Brawn GP: quando la Catheram ha bisogno di rinfrescare la line-up, il suo nome entra nella conversazione. E non ne uscirà più.

aarava ha sintetizzato bene come dev’esser andata.

Dal fondo, per rimanerci

È ovvio che con quello score di risultati Ericsson non possa sperare in chissà cosa. Infatti, la Catheram versa in pessime acque: rinata come Lotus nel 2010, la scuderia malese ha ceduto il titolo nel 2011 alla Renault. E in più non ha fatto punti nei quattro anni precedenti, nonostante tra i piloti siano passati anche Trulli e Kovalainen. Oltretutto, a inizio anno, il proprietario Tony Fernandes avverte tutti: «Il messaggio alle 250 persone qui (alla factory) è che dobbiamo farcela quest’anno. Questa è l’ultima chance: vi abbiamo dato le migliori infrastrutture, i migliori piloti possibili, ma ora tocca a voi. Se dovessimo essere sul fondo (della griglia), non credo che andrei avanti».

Ci pensa subito Kamui Kobayashi a smentirlo, tornato in pista con la Catheram. Dopo i test invernali, il giapponese è franco: «La macchina? Una di GP2 è più veloce… se guardo il tempo sul giro, sono preoccupato». La stagione non presenterà alcuna sorpresa: la Catheram è lenta come un varano sulla costa indonesiana e persino la Marussia — grazie a Jules Bianchi — sfrutta quella roulette che è Montecarlo e va a punti. La Catheram neanche correrà ad Austin e in Brasile, sfruttando il crowd-funding per cercare di correre ad Abu Dhabi (e riuscendoci).

In tutto questo casino — perché di questo si tratta –, Ericsson è invisibile. Gli va dato almeno atto che la macchina è oggettivamente impresentabile e la CT05 ha quattro piloti diversi durante l’anno. Se Kobayashi prova a prenderla con filosofia, Will Stevens debutta ad Abu Dhabi e André Lotterer — tre volte vincitore della 24 Ore di Le Mans, special guest a Spa — si ritira dopo pochi chilometri in Belgio.

Lo svedese, invece, si ritira cinque volte e decide di terminare unilateralmente il suo contratto quando la scuderia va in difficoltà finanziarie. Lui ad Austin ci va, ma per fare il commentatore per la televisione svedese. Grazie all’11° posto di Montecarlo, Ericsson sopravanza Kobayashi in classifica generale, ma in qualifica lo svedese viene tritato nel confronto diretto (5–10).

Ciò nonostante, la Sauber — reduce da un anno senza punti e bisognosa di linfa finanziaria — decide di mollare la coppia Sutil-Gutiérrez e di prendersi quella Nasr-Ericsson. Se il primo è un protégé della Williams, Ericsson arriva nel silenzio più assoluto. Anzi, la gestione fuori di senno della team principal, Monisha Kalterborn, crea un caso a Melbourne, con Giedo van der Garde che si fa forte di un precedente contratto. Il suo caso arriva persino a ottenere un arbitrato internazionale: roba che manco John Grisham.

Infatti, l’ex pilota di riserva della scuderia elvetica si presenta in Australia con la tuta della Sauber. Quella di Ericsson.

Potenzialmente, la carriera di Ericsson poteva finire lì.

La C34 non è una macchina fenomenale, ma il vantaggio è di correre in 20, con quattro piloti sistematicamente tagliati fuori dalla corsa ai punti. Se per la Marussia è normale, la McLaren-Honda è un fallimento stupefacente. E ne approfitta proprio la Sauber, che già in Australia si porta a casa un quinto (a firma Nasr) e un ottavo posto, quest’ultimo collezionato proprio da Ericsson. È il primo pilota svedese a punti dal 1989, quando Stefan Johansson collezionò un terzo posto al GP di Portogallo.

Con queste premesse, la Sauber può togliersi delle soddisfazioni. E lo fa, soprattutto però con Nasr, che colleziona 27 punti contro gli otto di Ericsson. Lo svedese è l’ultimo dei piloti a punti, finendo persino dietro le McLaren (che, nonostante tutto, hanno portato a casa piazzamenti sparsi). In qualifica, lo svedese si difende bene (9–10), mostrando che sul giro secco se la possa giocare più che in gara. La Sauber opta per la continuità e conferma entrambi i piloti per il 2016.

Tuttavia, le preoccupazioni finanziarie tornano a infestare Ericsson e il suo team. Stavolta tocca alla Sauber, che non può neanche sviluppare la macchina in maniera appropriata per la stagione 2016. Con la Marussia diventata Manor e ora motorizzata Mercedes, il rischio è quello di finire ultimi e senza soldi. Un rischio diventato realtà dal GP di Austria, quando Pascal Wehrlein ottiene un punticino d’oro. La Sauber rimane dietro per molto tempo e non dà segnali di speranza. Fino a Interlagos, dove Felipe Nasr — sotto un diluvio infernale — corre una gara magistrale e porta a casa due punti, permettendo alla Sauber di sopravvivere.

E cosa faceva intanto Marcus Ericcson? A fine campionato, tra i piloti che hanno corso almeno il 90% delle gare, è l’unico — assieme, guarda il caso, a Esteban Gutiérrez della Haas — ad aver concluso il campionato senza registrare neanche un punto (si salva solo il 12–9 su Nasr in qualifica). Il miglior risultato è un 11° posto in Messico. E intanto lo svedese fa registrare anche qualche intemperanza, come a Montecarlo, quando si sperona con il suo compagno di squadra.

Neanche alla PlayStation.

Nasr ha fatto un miracolo e ha regalato ossigeno alla Sauber — oltre a un team-radio da lacrime a Interlagos –, ma nonostante tutto questo la scuderia elvetica molla il brasiliano e conferma Ericsson. Questo perché Nasr ha perso la sua sponsorizzazione (Banco do Brasil) e lo svedese è invece spendibile sotto questo punto di vista (il nome “Longbow Finance” dovrebbe aiutarvi), venendo così scelto per affiancare Wehrlein nella stagione successiva. La logica dei soldi sopra quella dei risultati.

Il 2017 è forse l’anno che ha confermato quanto — soldi a parte — Ericsson non centri nulla con questo mondo. Il tedeschino di casa Mercedes — spinto dalla casa madre, ma pieno di talento, seppur discontinuo — ha dimostrato di valere parecchio. Wehrlein ha ripetuto il miracolo visto in Austria con la Manor, tirando fuori un numero da circo per un ottavo posto a Barcellona (con una sosta!) e un decimo a Baku, sfruttando la serie di incidenti e l’andamento irregolare della gara.

Anzi, c’è una precisazione: Wehrlein è arrivato in realtà settimo a Barcellona, ma una penalità l’ha spinto una posizione più giù. E invece, nel frattempo, Ericsson ha concluso ultimo anche lo scorso campionato, non realizzando nemmeno un punto e cullandosi su un altro dato, quello che più lo conforta. Già, perché in qualifica Ericsson ha tenuto botta (7–11 contro il compagno di squadra) e il suo management ha persino tentato di piazzarlo a Force India, Williams e Renault.

Ericsson dice di esser stato motivato dalla rivalità con Wehrlein, ma alla fine il risultato — guarda caso — è stato sempre lo stesso: il tedesco fa punti, ma la Mercedes non gli trova un altro sedile e lui è costretto fuori dalla Formula 1 dopo due ottime stagioni. Lo svedese non va a punti dal settembre 2015 ed è ancora qui, persino con la speranza di battere un talento puro come Leclerc e di vedere la Sauber motorizzata Alfa Romeo nella top ten.

Per dire che nemmeno la Ferrari è riuscita a scavalcare questo muro di sicurezze attorno allo svedese, tanto che Giovinazzi si siederà di nuovo in panchina per il 2018.

Money come first — A new era

Non bisogna fare gli illusi. Questa non è una novità: di piloti paganti è piena la storia della Formula 1. E non è neanche una consuetudine così vecchia. Abbiamo piloti paganti che hanno persino vinto dei GP: basti pensare a Pastor Maldonado, che è entrato in Formula 1 grazie ai petrol-dollari venezuelani. O al passato, quando negli anni ’90 e 2000 i piloti paganti erano una consuetudine ancor più di adesso. I primi nomi che mi vengono in mente: Pedro Diniz è il capostipite, ma anche Ricardo Rosset, Alex Yoong, Sakon Yamamoto, Giovanni Lavaggi o Taki Inoue.

Tuttavia, Marcus Ericsson rappresenta un passo indietro ancora più grande. Per chi vuole vendere l’immagine di uno sport all’avanguardia, tecnologicamente avanzato, che premi veramente i migliori… fa male vedere tutto questo. È vero, parliamo di una piccola scuderia sul fondo della griglia, ma anche di un costruttore che a oggi è alla sua 26° stagione di Formula 1, seppur in mano alla Ferrari per il 2018 (con tanto di re-branding e nuovo colore della livrea).

La proprietà americana si è proposta di pensare una nuova era per la Formula 1. Ed è giusto che lo faccia. Ma cosa centra lo sproloquio su Ericsson in questo contesto?

Centra perché lo svedese è l’esemplificazione di ciò che non va in Formula 1. Una categoria che sta diventando esosa da sostenere, nella quale i più talentuosi che non hanno protezione da case madri (come Ocon, Leclerc o in passato altri) sono costretti a lasciare. Prendete Kamui Kobayashi come esempio. Ve lo ricordate? Ne parlammo anche qui. Il giapponese cercò di mantenere il suo posto in Sauber per la stagione 2013 — dopo un podio a Suzuka e una stagione positiva — tramite una raccolta di fondi. Che andò anche bene (otto milioni di euro raccolti), ma non bastò: al suo posto Esteban Gutiérrez, di cui credo ormai conosciamo la carriera in F1.

Stesso ragionamento per altri — mi viene in mente subito il nome di Vergne, bruciato inopinatamente dalla Red Bull — e questo accade perché questa categoria ha dei costi insostenibili. Proprio quei costi impediscono l’accesso di nuovi team, che devono attendere tempi più economicamente sostenibili. E la Formula 1 costa perché si è avvicinata all’ibrido, ma nel frattempo è nata la Formula E, lasciando qualche dubbio su quanto quest’era debba continuare. Forse il 2020 sarebbe l’anno giusto per tornare all’antico, permettendo di diminuire i costi e consentendo di nuovo ad altri team di entrare in questo sport a costi umani.

E perché no, permettendo anche a piloti dotati, ma senza portafoglio di sopravvivere in questo mondo. Perché a breve — come dimostra il caso Wehrlein e come ha confermato recentemente anche Claire Williams — anche i piloti portati avanti dalle case madri saranno lasciati a piedi per motivi di bilancio e potenziali entrate.

Marcus Ericsson è la punta di un iceberg che andrebbe analizzato a fondo. Perché a forza di vedere le sfide Mondiali tra Mercedes, Red Bull e Ferrari, si sta perdendo il senso di questo sport.

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Gabriele Anello
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Ha il passaporto italiano, ma il cuore giapponese | RB Leipzig, J. League Regista, Calcio da Dietro | fmr. Ganassa, DAZN, MondoFutbol.com, Crampi Sportivi