La Quinta del Buitre
Real Madrid = Coppa dei Campioni. Se c’è un club per cui l’equazione è vera al 100% è quello delle merengues. Dodici (!) coppe alzate dal 1956 a oggi e unica squadra da quando è stata introdotta la Champions League ad aver vinto due edizioni consecutive, back to back come dicono gli americani.
L’andamento della fase a gironi dell’attuale edizione della Champions sembra confermare questo trend, con i Blancos che hanno già ottenuto in scioltezza la qualificazione agli ottavi di finale (con due turni d’anticipo, dopo un 6–0 sul campo dell’Apoel Nicosia). Eppure, ci sono stati nella storia del Real Madrid anche dei periodi di scarso feeling con il massimo torneo europeo.
Tra Zidane vincitore come giocatore con i Galacticos nel 2002 e Zidane vincitore come vice-allenatore e head coach, per esempio, sono passati circa 15 anni. Ancora di più, però, le merengues hanno dovuto aspettare prima di vincere la sospirata setima, arrivata nel ‘98 dopo oltre trent’anni di attesa.
Tuttavia, poco dopo la metà di quell’interminabile digiuno, c’è stato un Real Madrid, anzi un sontuoso Real Madrid, la cui mancata vittoria della Coppa dei Campioni grida vendetta. La squadra a cui mi riferisco è il Real degli anni ‘80.
Intendiamoci bene: le merengues di quel periodo non passeranno di certo alla storia come una squadra perdente. Tutt’altro.
Nel periodo tra il 1985 e il 1990 il Madrid vince cinque Liga consecutive, una Copa del Rey, due Supercoppe di Spagna e due Coppa UEFA, che ai tempi era una signora competizione e non la coppetta di oggi. Un palmarès sufficiente a supportare la tesi che quel Real sia stato il team più forte degli anni ’80 e uno dei più forti della storia a non vincere la Coppa dei Campioni.
La spina dorsale del Real di allora è la Quinta del Buitre e quella della Quinta del Buitre è forse la squadra che più di tutte ha incarnato lo spirito del madridismo.
Che cos’è la Quinta del Buitre? Forse è opportuno partire dalla spiegazione dell’espressione, che in realtà è frutto di un doppio gioco di parole. Con Quinta ci si riferisce sia all’aggettivo numerale ordinale corrispondente al numerale cardinale “cinque” che all’accezione militare del termine, che ha qui il significato di “leva”. Il Buitre, invece, è un volatile accompagnato da una fama poco simpatica, ovvero l’avvoltoio.
In questo caso, però, Buitre è anche il soprannome e abbreviazione allo stesso tempo del cognome Butragueño, il giocatore più letale sotto rete di un gruppo di cinque giovani promettenti madridisti: Manolo Sanchís, Rafael Martín Vázquez, Michel Gonzalez, Miguel Pardeza, Emilio Butragueño. Una lista che, a leggerla, dà ancora i brividi a chi da bambino ha iniziato a seguire il calcio in quegli anni — e io sono tra quelli.
Siamo a metà anni ‘80: calcisticamente, parliamo di ere geologiche fa. Il Milan non era ancora diventato il Milan di Sacchi — riprenderò il discorso in seguito — e in quel tempo notizie e immagini del calcio internazionale scarseggiavano, il che rendeva ancora più preziosi i pochi frammenti video accessibili o i rari articoli di approfondimento su quanto avveniva all’estero e in particolare sulle remontadas casalinghe nelle coppe europee in cui era specializzato quel Real. Alla mancanza di immagini si sopperiva con la fantasia, la quale, forse, rendeva ancora più leggendarie quelle imprese.
Quel Real Madrid è ben noto alle squadre italiane, in particolare all’Inter. Due volte, infatti, dopo una sconfitta pesante a San Siro le merengues riescono a ribaltare il risultato nella bolgia del Bernabeu. 3–0 per il Real dopo il 2–0 per i nerazzurri dell’andata nella semifinale del 1985 della Coppa UEFA; 5–1 per i blancos dopo il 3–1 di San Siro per l’Inter nella semifinale della Coppa UEFA del 1986.
“Novanta minuti al Bernabeu sono molto lunghi.”
La frase è di Juanito, stella madridista dei primi anni ’80 e chioccia dei giovani della Quinta del Buitre insieme a Santillana, fenomenale centravanti, basso di statura ma specializzato nel colpo di testa, che trova con facilità il gol davanti a Walter Zenga, ai tempi numero uno dell’Inter.
L’unità e la capacità di reagire di un gruppo di persone si misurano nelle difficoltà: non è un caso dunque che quel Madrid si esalti in tali momenti. Perdi 3–0 a Bruxelles contro l’Anderlecht? Nessun problema. Al ritorno al Bernabeu gliene fai sei. Il Borussia Mönchengladbach ti rifila un 5–1 in Germania? Perfetto, gli rifili un 4–0 in Spagna. Il Colonia ti manda a casa con un 2–0 nella finale 1985–86? Bene, al ritorno a Madrid gliene segni 5.
Una squadra costellata di grandi giocatori — Gallego, Gordillo, Camacho solo per citarne alcuni — quel Real, ma non è esagerato dire che è la Quinta del Buitre a esserne l’anima, seppure con peso specifico diverso.
Prendete Pardeza, per esempio. El Ratoncito — come suggerisce il soprannome, non un gigante — è un prodotto delle giovanili come gli altri quattro, ma nel Real non arriva a totalizzare nemmeno 30 presenze. Dopo una discreta carriera da calciatore, è oggi intellettuale e scrittore. Ben diverso l’apporto alla causa degli altri quattro, non a caso tutti originari di Madrid — Pardeza è invece nato a Huelva.
Dotato di classe cristallina che avrebbe messo in mostra anche con la casacca del Torino, Rafa Martìn Vàzquez ha a tratti incantato, senza tuttavia mettere in mostra la continuità dei restanti tre.
Uno per reparto, Sanchís colonna centrale in difesa, Michel come centrocampista offensivo e Butragueño come attaccante hanno fatto la storia del club.
Dopo aver iniziato insieme nella cantera, passano al Castilla (la squadra B del Real) e arrivano alla soglia dei vent’anni all’esordio in prima squadra, lanciati da un certo Alfredo Di Stefano che, forse, aveva scorto in loro i possibili eredi del suo invincibile Real degli anni ’50 e ‘60.
La nuova linfa portata dai giovani fuoriclasse a una squadra in cui Santillana e Juanito avevano iniziato a dare qualche segnale di cedimento dovuta all’età. Anzi, si rivela decisiva ed entusiasma un pubblico in visibilio per il ritmo tambureggiante, la tecnica, la rapidità e il calcio offensivo giocato dai Blancos guidati da questa banda di ragazzini, autentici prototipi della tipologia di giocatore amato dal Bernabeu e che il Bernabeu si aspetta, o meglio pretende, di vedere.
In Spagna, la decade degli anni ’80 è la prima nata libera dalla dittatura franchista, seppur con un tentato golpe militare nel 1981 (poi sventato): è quindi normale che siano quattro giovani a spingere la squadra, carichi dell’entusiasmo di chi, dopo un periodo buio, vuole costruire un’epoca nuova.
Eppure, quella tanto desiderata setima non arriverà mai, nonostante innesti di spicco, uno tra tutti Hugo Sánchez, strappato ai cugini dell’Atletico Madrid e diventato celebre per i gol di testa e in rovesciata — in spagnolo si dice chilena — e nonostante l’assunzione di un nuovo condottiero, l’olandese Leo Beenhakker chiamato nel 1986 a guidare la squadra come allenatore.
Sembra sempre la volta buona, sia nel 1987 quando il Real compie l’ennesima impresa al Bernabeu rimontando il 2–4 subìto a Belgrado dalla temibile Stella Rossa, lontana parente della squadra di scarsa qualità che è oggi, ma poi viene fermato dal Bayern Monaco in semifinale, sia nel 1988 quando è Guus Hiddink con il PSV Eindhoven a stoppare la corsa del Madrid verso la finale.
Se nel primo caso, per una volta, le merengues non sono capaci di completare la remontada al Bernabeu dopo aver perso 4–1 a Monaco, nel secondo la Quinta del Buitre viene fermata da due pareggi da una squadra tecnicamente inferiore. Risluterà decisivo l’erroraccio del portiere Paco Buyo all’andata, al Bernabeu, il quale causa un 1–1 che Michel e i suoi compagni non saranno in grado di ribaltare in Olanda, pareggiando 0–0 un incontro molto nervoso, anche perché probabilmente il Madrid della Quinta capisce che quella è un’occasione irripetibile.
Anche l’anno dopo, infatti, il Real arriva fino alla semifinale, ma stavolta a differenza del passato l’avversario è superiore. Talmente superiore che dopo un pari per 1–1 al Bernabeu, fuori casa i Blancos perdono 5–0. L’avete capito, si sta parlando del Milan di Arrigo Sacchi e degli olandesi.
Quella partita, forse ancora più della successiva finale vincente contro lo Steaua Bucarest, sancisce il dominio rossonero e l’inizio del Milan di Sacchi: è il principio di una nuova era nel gioco del calcio, fatta di pressing, squadre corte e applicazione ossessiva della trappola del fuorigioco.
Quel Real, invece, fa ancora parte dell’epoca precedente. Tant’è che alcune spie madridiste mandate a osservare l’allenamento del Milan prima della partita restituiscono a Beenhakker una relazione sbigottita, che racconta di 11 milanisti che si sono mossi per un’ora per il campo senza usare la palla e senza avversari…
Gli indigeni di Hispaniola non potevano vedere le caravelle di Colombo perché ne ignoravano l’esistenza. Allo stesso modo, gli osservatori di Madrid non possono comprendere l’allenamento del nuovo calcio che sta ancora nascendo. Quello che hanno visto non è stato né uno scherzo, né pretattica, ma un preciso esercizio di creazione sacchiana per perfezionare l’armonia di movimenti in campo come squadra.
L’anno successivo, stavolta agli ottavi di finale, il Milan avrà ancora la meglio sul Real e completerà il back to back vincente — ultima squadra a riuscirci prima del Madrid di Cristiano Ronaldo.
L’impermanenza è alla base di tutti i fenomeni di questa terra e il Buitre e i suoi compagni non possono certo sfuggire a questa legge universale: è la fine di un’epoca. Dopo cinque Liga consecutive vinte dalle merengues, sia in Spagna sia in campo internazionale i tempi sono maturi per l’affermarsi di un nuovo dominio, quello del Dream Team, il Barcellona di Johann Cruyff.
La Quinta è arrivata al capolinea: Martin Vazquez si è trasferito in Italia, le finte di Michel sono diventate più prevedibili, mentre Butragueño non riesce più a essere letale come prima.
Inizia una fase incerta per il Real Madrid anche a livello societario. Nel ‘95 Ramòn Mendoza, il presidentissimo durante il periodo della Quinta del Buitre, dovrà far spazio a causa dei debiti accumulati dal club al nuovo presidente Lorenzo Sanz, il quale, portando a Madrid Fabio Capello, poserà la prima pietra per una ricostruzione — senza Michel, né il Buitre — che in tre anni, nel ‘98, condurrà alla sospirata setima.
I volti sono cambiati e tra gli eroi di quel trionfo ci sono ora il nuovo enfant prodige Raùl, Fernando Hierro e Predrag Mijatovic, autore dell’unico gol in finale contro la Juventus.
Ad alzare la coppa, però, è il vecchio capitano Sanchís, l’unico superstite della Quinta del Buitre e l’unico di quei cinque compagni di tante battaglie a coronare il sogno di riportare al Bernabeu il trofeo a lungo tempo inseguito e solo sfiorato.
E la prima dichiarazione di Sanchís dopo la finale vinta sarà proprio dedicata a quegli amici, con i quali per anni aveva condiviso gioie e dolori in un decennio comunque passato alla storia come uno dei momenti più alti e appassionanti della storia del madridismo.
Articolo a cura di Daniele Canepa