L’anarchia funzionale di Earvin Ngapeth

Crampi Sportivi
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5 min readJan 5, 2018

Nei giorni di Natale, dopo un diverbio con l’allenatore Rado Stoytchev, Earvin Ngapeth ha chiesto al Modena Volley di essere ceduto, facendo piovere una scarica di “io l’avevo detto che non potevano coesistere” nell’ambiente.

Non sono rilevanti i motivi del diverbio — nonostante pare riguardassero anche la gestione del fratello di Earvin — , né ha un senso cercare chi ha ragione: gestire una squadra, tanto più campioni di un certo livello, non è mai una scienza esatta o con un’unica soluzione. Non rilevano nemmeno i risultati, annotati per dovere di cronaca: con Ngapeth fuori squadra, la settimana successiva una sontuosa vittoria in casa della capolista Perugia, Modena ha subito un’inaspettata sconfitta in casa con Padova.

La società si è schierata con l’allenatore, ma è poi riuscita nel duro compito di trovare una pace tra i due, suggellata dal ritorno alla vittoria nella prima giornata di ritorno. Ma hanno ragione i dietrologi dell’incompatibilità? Tralasciando i precedenti attriti da avversari — che spesso nel mondo dello sport durano il tempo dell’ingresso nello stesso spogliatoio — , è effettivamente difficile immaginare due personalità più distanti.

Bianco e nero. Quadrato e tondo. Bulgaro e franco-camerunense. Condottiero e Recluta ribelle. Esasperazione tattica contro esasperazione tecnica.

Stoytchev è il più mourinhiano degli allenatori di pallavolo. Le sue squadre a Trento, fornite sì di interpreti eccezionali, trasmettevano un senso di solidità difficilmente scalfibile, evidente in primis nel sistema di muro e contrattacco, dallo sfruttamento delle qualità individuali — ogni volta che andavano al servizio Juantorena e Kaziyski, gli avversari dovevano recitare delle buone preghiere — e da uno studio e una preparazione maniacale di ogni singola gara.

Le capacità di allenatore sono corredate da una fisicità imponente e una glacialità tipicamente est-europea, che rendono più agevole la pretesa del bulgaro di controllare e condurre a suo piacimento le gare. Al proposito, basti ricordare il modo in cui (si disse volontariamente, lui non negò) innalzò la tensione nel terzo set della finale scudetto 2013, fomentando una lite, facendosi espellere e indirettamente rovesciando un’inerzia favorevole a Piacenza, in cui sembravano essere caduti i suoi tagliagole e il pubblico del palazzetto.

L’episodio incriminato a 0.52.

Anche per fugare i dubbi che in questo fight club modenese si sia dalla parte di uno più che all’altro, concludiamo menzionando l’ultimo scudetto trentino (proprio ai danni di Modena) nell’anno in cui — pur con il fedele Kaziyski, ma senza più Juantorena e innescando/gestendo l’esplosione di Simone Giannelli — hanno definitivamente fugato i detrattori del “con quella squadra non si può non vincere”.

Se al bordo laterale del campo si muove un simile killer instinct, con il suo controllo e la sua quadratura, all’interno del campo si muove lui, Earvin Ngapeth.

Earvin nasce in un periodo in cui il gioco della pallavolo intraprendeva la strada ben precisa della ricerca maniacale dell’altezza, sia umana che di gioco. Era più importante trovare giovani giganti a cui insegnare a maneggiare un pallone e possibilmente a colpirlo più alto e più forte che non fare avanzare chi fin da giovane conosceva il gioco, nel senso più profondo di esplorare nuove traiettorie, nuovi modi di colpire la palla, di mandare fuori tempo un avversario che però diventava sempre più alto e più forte. Possiamo definire un momento in cui lo spazio (l’altezza) e la sua occupazione sono il mainstream, mentre l’esplorazione del tempo, in cui corpo e palla accelerano/rallentano a piacimento dell’esploratore-giocatore, diventa indie.

Ngapeth porta all’estremo questi due concetti, rinnovando una ricerca del tempo quasi demodé (il colpo del bilanciere era spesso praticato sui campionati di provincia da qualche nostalgico degli anni ’80) con una ricerca dello spazio diversa, fatta di angoli e traiettorie impossibili.

Oltre a questo, Ngapeth aggiunge una volontaria fuoriuscita da due codifiche classiche del gioco: a) quella per cui ogni giocatore ha un suo ruolo e una sua posizione; b) quella della “normale” successione di gesti tecnici, che inquadra la pallavolo in una successione di battuta-ricezione-attacco e un eventuale aggiunta di muro/difesa e contrattacco. Non si può non avvertire un senso anarchico in questa sovversione, la volontà di mostrare al mondo una conoscenza così profonda del gioco da poterne cambiare anche gli aspetti più standardizzati. E così troviamo improvvisazioni di attacco da centrale e il contrattacco dopo difesa, laddove la vulgata vuole debba esserci un’alzata (qui all’azione 12).

L’esplorazione raggiunge la sua vetta nella doppia rottura: laddove l’attacco dopo difesa diventa il suo new normal, allora si ritorna a una sequenza difesa-alzata, ma con una finta “manipolatoria”.

Quest’anarchia ha una doppia caratteristica: deve essere funzionale, finalizzata alla vittoria del punto e mai un fronzolo fine a sé stesso, perché solo la vittoria del punto può certificare la superiorità; ma deve essere anche estetica, per la gratificazione di chi assiste a uno sport fatto di gesti spesso ripetitivi e per renderne evidente l’estremo livello di difficoltà. Summa del punto che vale la vittoria dell’Europeo 2015 per la Francia: no look con giravolta sul match point, il momento per definizione più funzionale alla vittoria.

Un lob di Messi o un blocco di LBJ hanno occupato le news sportive per diverse settimane. Qui che dovremmo dire?

Non da ultimo, nella svolta buonista della pallavolo, il francese riporta un campionario di sguardi, ironia al limite dell’irrisione, eccessi agonistici che prima di essere tacciati di anti-sportività erano il folklore che distingueva chi davvero sapeva giocare sotto pressione. E se in questo scorgete della nostalgia, non sbagliate.

Come possono convivere l’Anarchia Estetica e la Codifica del Sistema, essendo per definizione antitetiche?

Come può una filosofia di vita dissidente — ritiri e guida senza patente, diverbi con controllori del treno e altri episodi — trovare il suo posto sotto una leadership autorevole, ma anche autoritaria. In fondo, c’è un precedente sotto la guida allo stesso modo autorevole, ma più empatica di Lorenzetti.

Forse non esistono due essenze più diverse, in effetti. Ma c’è un punto di possibile unione: la già citata funzionalità. Lo sport ci racconta che c’è un bene superiore, adatto a mettere insieme storie e persone completamente differenti e che di questa funzionalità è genitore: la Vittoria. Un bene superiore che guida tutte le componenti coinvolte in questa vicenda (allenatore, capitano, giocatori e società) e che può riuscire in quello che sarebbe un affascinante miracolo sociologico, ancor prima che sportivo.

Articolo a cura di Massimiliano De Marco

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