L’antipasto della storia

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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12 min readJan 15, 2018

Venti di guerra, minacciosi leader politici, doping di Stato e promesse di boicottaggi. L’atmosfera attorno alla 23° edizione dei Giochi olimpici invernali, che si svolgeranno dal 9 al 25 febbraio a Pyeongchang in Corea del Sud, sotto certi aspetti ricorda quella controversa e ostile che aleggiò in Germania nel 1936 prima, durante e dopo le Olimpiadi di Garmisch-Partenkirchen.

Le Olimpiadi invernali dei nazisti

Alla fine di giugno del 1933, durante un’assemblea svoltasi a Vienna, il Comitato Olimpico Internazionale assegnò alla Germania la quarta edizione delle Olimpiadi invernali. Congiuntamente, secondo la procedura allora in vigore, alla nazione in cui da pochi mesi aveva cominciato a governare Adolf Hitler, fu consegnata anche la successiva organizzazione dei Giochi estivi.

In quegli anni era opinione diffusa in tutta Europa che i tempi per il pieno reinserimento della Germania nella comunità sportiva internazionale fossero maturi, specialmente in seguito al Trattato di Locarno (1925) e all’ingresso dei tedeschi nella Società delle Nazioni (1926). Del resto, la Repubblica di Weimar aveva dimostrato di rappresentare un baluardo della democrazia europea anche attraverso i molti traguardi raggiunti in campo scientifico e culturale.

Tuttavia, durante l’assemblea di Vienna, erano sorte alcune preoccupazioni relative alle parole di condanna che Hitler aveva pronunciato alla fine degli anni ’20 nei riguardi delle Olimpiadi, dipinte come «una congiura di massoni e di ebrei».

C’era da aspettarselo, il nuovo cancelliere avversava lo sport: non sapeva nuotare, non riusciva a fare più di due palleggi con un pallone e non era in grado di saltare in sella a un cavallo. Era invece più favorevole al fatto che soprattutto i suoi giovani seguaci praticassero attività sportive per curare la loro forma fisica. La boxe, su tutto, perché accresceva gli istinti aggressivi e di resistenza fisica, ma anche tutte le altre discipline «in modo da coprire ogni tipo di sport e di esercizio ginnico».

Ciò nonostante, la soddisfazione di aver applaudito per 13 volte degli atleti tedeschi sullo scalino più alto del podio, nelle ultime due edizioni dei Giochi estivi (Amsterdam 1928, Los Angeles 1932) fece cambiare idea al Führer, unitamente all’allettante possibilità di sfruttare il sicuro ed enorme ritorno d’immagine che giornalisti e sportivi di ogni dove avrebbero certamente garantito. «Seguire l’esempio dell’Italia di Mussolini» (secondo posto nel medagliere ai Giochi del ’32 e campione nel mondo ai Mondiali del ‘34) fu il suggerimento che Joseph Goebbels e Theodor Lewald, membro del Comitato Olimpico tedesco, diedero a Hitler.

«Nessun altro avvenimento può nemmeno remotamente concorrere con le Olimpiadi in termini di ritorno propagandistico».

Il Führer se ne convinse e diede la sua benedizione.

La questione ebraica

L’imminente manifestazione invernale in quel momento si rivelò paradossalmente più importante di quella estiva a Berlino perché avrebbe fornito agli osservatori internazionali la possibilità di rendersi effettivamente conto non solo delle capacità organizzative dei nazisti, ma anche — se non soprattutto — dei loro atteggiamenti antisemiti.

Il villaggio alpino di Garmisch-Partenkirchen, sede dei Giochi invernali, era tristemente noto per essere un focolaio di nazisti dove, tra l’altro, Hitler aveva ottenuto i risultati migliori alle elezioni. Fino a qualche settimana prima dell’inizio delle gare, per le strade era possibile imbattersi in cartelli che dicevano: «Gli ebrei qui non sono graditi» oppure «vietato entrare agli ebrei», fino alle più perfide segnalazioni stradali realizzate con macabro umorismo su cui erano indicati due diversi limiti di velocità, uno più basso per i tedeschi e uno più alto per gli ebrei, con un evidente incoraggiamento al suicidio in auto.

Il presidente del CIO, il belga Baillet-Latour, pressato dalle minacce americane di boicottaggio, in visita a Garmisch nel novembre del 1935, aveva denunciato questo tipo di discriminazioni e se ne era lamentato direttamente con Hitler in persona. Spettacoli del genere, gli disse, avrebbero potuto danneggiare l’immagine delle Olimpiadi e i suoi stessi princìpi.

Il Führer rispose con una domanda: «Signor presidente, quando siete invitato a casa di un amico non gli dite come deve comportarsi, non vi pare?». Il presidente del CIO rifletté per un istante, poi rispose: «Scusatemi, signor cancelliere, quando la bandiera dei cinque anelli è alzata sopra lo stadio, non è più Germania, ma è Olimpia e siamo noi i padroni».

Fu così che dalla fine di gennaio del 1936 ogni azione o simbolo di repressione nei confronti degli ebrei era quasi del tutto sparito. La Germania aveva allentato solo temporaneamente il programma antisemita, e nonostante la promessa «di non voler torcere un capello su una testa ebraica», in quei giorni le SA si divertivano a intonare un’odiosa canzoncina che diceva: «Quando le Olimpiadi saranno finite, degli ebrei faremo polpette».

Le competizioni

Nonostante la stampa tedesca avesse salutato la fastosa giornata d’inaugurazione come «una fiaba sulle Alpi», grazie anche alla sfilata delle rappresentative di 688 atleti (mai così tanti fino al quel momento), alcune gare fornirono dei momenti drammatici e controversi.

Durante la sfida di hockey sul ghiaccio del 7 febbraio tra Francia e Ungheria, in campo scoppiò una rissa furibonda. I numerosi colpi proibiti, che gli avversari si erano vicendevolmente scambiati durante tutta la partita, degenerarono nel finale in una clamorosa zuffa senza esclusione di colpi. Un giocatore francese, addirittura, morse un ungherese sul braccio staccandone un bel pezzo di carne.

Molto accesa fu anche la sfida tra Italia e Svizzera. La sconfitta per la squadra azzurra — composta dal portiere Gerosa e poi da Rossi, Trovati, Mussi, Scotti, Dionisi, Zucchini I, Zucchini II e Maiocchi — significava la matematica eliminazione dal girone e così un giornalista italiano, in preda all’ira per la mancata assegnazione di una rete a suo avviso valida, fu sul punto di lanciare la propria macchina da scrivere contro l’arbitro. Per fortuna alcuni colleghi della tribuna stampa lo fermarono in tempo.

Ma il motivo di maggiore interesse fu offerto dalla sfida Italia-Germania, durante la quale il protagonista assoluto fu Rudi Ball, il campione tedesco per metà ebreo che i tedeschi avevano deciso di aggiungere in squadra all’ultimo minuto per avere più possibilità di vincere il torneo. Il berlinese trascinò letteralmente la squadra tedesca, vittoria dopo vittoria, fino a quando dovette arrendersi anche lui alla manifesta superiorità di inglesi e canadesi, in due match contraddistinti da così tanti scontri che un giornalista arrivò a scrivere che gli aveva ricordato la Prima Guerra mondiale.

Anche lo sci alpino fu investito da un’ondata di polemiche, e ben prima che cominciassero le gare. Il CIO aveva deciso di non permettere la partecipazione agli istruttori professionisti di sci, per il fatto che essendo pagati per insegnare a sciare non potevano essere considerati dilettanti in senso stretto. La nuova norma penalizzava, però, alcuni degli sciatori più forti al mondo, su tutti quelli svizzeri e austriaci. Fu così che le due squadre, per protesta, decisero di boicottare in massa i Giochi. Tra le assenze più eccellenti figurava in tal modo anche l’austriaco Heinrich Harrer, un fanatico nazista e membro delle SS, la cui fuga in Tibet da un campo di prigionia britannico in India nel 1944 sarebbe diventata il soggetto di un film con Brad Pitt nella parte di Harrer: Sette anni in Tibet.

Il cinema avrebbe accompagnato la carriera anche di altri atleti. Il primo fu lo sciatore tedesco Gustav Adolf Lantschner, detto «Guzzi», che dopo la medaglia d’argento ottenuta ai Giochi sarebbe diventato il cameraman di Leni Riefenstahl. È lui, infatti, ad aver immortalato in una famosa fotografia la regista mentre si dilettava sugli sci su una collina di Garmisch vestita solamente di un bikini.

Un’altra carriera cinematografia l’avrebbe intrapresa anche la pattinatrice norvegese Sonja Henie. Già campionessa giovanissima nelle precedenti edizioni, la sua fama era talmente grande che Hitler volle a tutti i costi farsi fotografare con lei. Il Führer sembrava così invaghito della bionda bellezza norvegese dal nasino all’insù che i fotografi locali non poterono fare a meno di chiedersi, quando la notavano per le strade di Garmisch, se i mazzolini di fiori bianchi che abitualmente portava appuntati «non venissero per caso da lui». Quella in Germania fu la sua ultima Olimpiade. Al cinema si esibì sui pattini in molti film che le fecero guadagnare qualcosa come 47 milioni di dollari. Emigrò negli Stati Uniti nel 1937 e divenne cittadina americana nel 1941. Nel corso della guerra si rifiuterà di rispondere alle preghiere dei suoi ex connazionali, che le avevano chiesto di sostenere economicamente la resistenza norvegese contro l’occupazione tedesca. Un «atto di tradimento» per il quale molti norvegesi non la perdonarono mai.

La seconda donna a dominare i Giochi invernali tedeschi fu Christl Cranz, che gareggiò nella prima competizione di sci alpino femminile. La gara, che consisteva solo in una prova di slalom — altra novità di quell’edizione (era una specialità norvegese, derivante dalla parola sla «piegato, non diritto», lam «traccia dello sci») — vide emergere il suo indiscusso talento. La campionessa, che nella sua lunga carriera aveva vinto già quindici medaglie ai campionati del mondo, a differenza della collega Henie, durante la Seconda Guerra mondiale avrebbe donato i propri sci alle truppe tedesche impegnate sul fronte russo. Finirà internata in un campo di lavoro per collaborazionismo, insieme al marito.

Un destino simile, ma per motivazioni nettamente opposte, toccò al norvegese Birger Ruud. Dopo aver vinto la medaglia d’oro nella competizione del salto con gli sci, durante la guerra si rifiutò di gareggiare ad alcune manifestazioni sportive che i tedeschi avevano organizzato durante l’occupazione del suo paese. Per questo motivo, lo manderanno in un campo di concentramento nei pressi di Oslo. Rilasciato nel 1944, entrò a far parte della resistenza norvegese contro i nazisti, diventando in tal modo una vera e propria celebrità per i suoi connazionali.

La competizione forse più significativa dal punto di vista politico a Garmisch fu l’evento dimostrativo dello sci della pattuglia militare (oggi biathlon). Prima delle gare, il ministro della Difesa norvegese aveva declinato l’invito tedesco a partecipare, adducendo che in Norvegia gare simili non erano praticate. Una bugia motivata dal fatto che il governo socialista di Oslo si rifiutava di partecipare a una manifestazione di mero sfoggio militarista, necessaria più che altro ai tedeschi per far bella mostra della crescente potenza militare di Hitler. Fu questo un piccolo ma considerevole atto di boicottaggio che aveva motivazioni politiche.

La politica si manifestò anche durante la premiazione del pattinatore artistico Karl Schäfer. L’unica vittoria di una medaglia d’oro per l’Austria fu rovinata dalla volontà dell’organizzazione olimpica di suonare l’inno nazionale tedesco anziché quello austriaco. La beffa consisteva nel fatto che la Germania nazista si fosse impadronita dell’«inno dell’imperatore» austriaco basato su una vecchia canzone popolare, poi in parte trasformata e adattata in «Deutschland über Alles». Ma fu solo l’inizio, perché due anni dopo la Germania si sarebbe impadronita dell’intera Austria attraverso l’Anschluss.

L’Italia assente dal medagliere finale

La scelta di Garmisch-Partenkirchen come sede dei Giochi piacque molto ai dirigenti italiani e la rappresentativa azzurra fu accompagnata da numerose autorità: il conte Alberto Bonacossa, stimato membro del CIO, il generale Giorgio Vaccaro, segretario generale del CONI, l’ingegnere Gianni Albertini, commissario tecnico degli sciatori, e Renato Ricci, presidente dell’Opera Balilla e della Federazione italiana sport invernali.

Le speranze agonistiche degli italiani erano ora appuntate soprattutto sugli sciatori delle prove alpine, che erano allenati dall’austriaco Leo Gasperl. In particolare si puntava su alcuni campioni che l’inverno precedente si erano battuti da leoni ai concorsi della Federazione internazionale di sci: Vincenzo Demetz, terzo nella 15 km di fondo, Giacomo Scalet sesto nella 50 km chiamata ancora Gran fondo e Giacinto Sertorelli, terzo in discesa e secondo in combinata discesa-slalom.

Nella competizione del salto con gli sci gli italiani Chierroni e Guarnieri si piazzarono dodicesimi, con lo stesso tempo, e la loro prova venne giudicata «buona», ma soprattutto si parlò molto della stupenda e sfortunata prova di Giacinto Sertorelli, arrivato nono. Sertorelli a inizio gara si era lanciato con veemenza sulla pista innevata e dopo metà percorso raggiunse addirittura l’avversario partito un minuto prima di lui, ma mentre stava per superarlo questi gli cadde davanti facendolo cadere a sua volta nella neve profonda, dalla quale faticò alquanto a rialzarsi.

Nello sci nordico erano favoriti gli scandinavi, ma gli azzurri si comportarono bene, guadagnando in ambedue le gare il tredicesimo posto, che a quei tempi significava essere «vincitore fra i non nordici», con il gardenese Vincenzo Demetz nella prima e il longilineo altoatesino Giovanni Kasebacher nella seconda.

Serrata battaglia anche nella prima staffetta olimpica, incerta fino al traguardo e sorprendentemente ottima per il quartetto italiano, che si classificò quarto grazie a una stupenda prima frazione del piemontese Gerardi (nato e cresciuto nella Valle Stura), posizione poi tenacemente ed egregiamente difesa da Menardi, Demetz e Kasebacher.

Nella combinata nordica i concorrenti erano quarantotto, gli italiani due, Bruno Da Col di Cibiana in Cadore e Mario Bonomo di Asiago. Il primo, in giornata non felice, si classificò trentasettesimo, mentre Bonomo terrorizzò i 100.000 spettatori quando lo videro, a metà volo, ruotarsi in avanti e precipitare sulla neve a testa in giù. Fortunatamente il danno maggiore lo patirono gli sci, ambedue andati in frantumi.

L’Italia fu ancora assente nel pattinaggio di velocità e nell’artistico individuale mentre nella gara a coppie debuttarono onorevolmente i milanesi Anna ed Ercole Cattaneo, moglie e marito, noni fra diciotto concorrenti.

Nel bob gli italiani avevano tre equipaggi e si piazzarono a metà classifica, nel “due” all’undicesimo posto con Edgardo Vaghi e Dario Poggi, al dodicesimo con Antonio Brivio e Carlo Solveni; nel “quattro” al decimo posto con Brivio, Solveni, Dell’Oro, Menardi; l’altro equipaggio italiano, pilotato dal cortinese De Zanna volò letteralmente fuori pista, fortunatamente senza gravi conseguenze per gli atleti.

Pur non prevedendo medaglie di onore olimpico, la prova dimostrativa di fondo e tiro era molto sentita dalle nove nazioni partecipanti, fra le quali l’Italia. Gli azzurri si presentarono con quattro alpini, il capitano Enrico Silvestri, dal viso scavato e dagli occhi appassionati, il sergente Luigi Perenni, i soldati Sisto Scilligo e Stefano Sertorelli, fratello del discesista Giacinto. La sfida fu una grande soddisfazione per l’Italia. Sulla neve furono leggermente più veloci i finlandesi, ma gli alpini ressero ottimamente il confronto. Fu tripudio tricolore sul campo ed esaltazione in patria, anche perché nello stesso tempo le truppe italiane combattevano e avanzavano in Abissinia per la conquista di un impero.

La prova degli alpini fu comunicata a Mussolini da Renato Ricci con un telegramma poi riportato da tutti i giornali, in cui si esaltava «il temperamento combattivo, al coraggio, alla tenacia, all’ardimento e lo stile dell’atletismo italiano».

Per questo motivo, fu deciso di far rientrare in patria i vincitori in treno e farli proseguire fino a Roma fermando il convoglio in ogni capoluogo di provincia in modo che i campioni potessero essere acclamati.

Cerimonia finale

La quarta edizione delle Olimpiadi invernali terminò con una cerimonia di chiusura notturna che fu, se possibile, ancora più elaborata dello sfarzoso spettacolo d’apertura. E anche più minacciosamente militaresco. Hitler mise la parola fine ai Giochi mentre i soldati della Wehrmacht — il suo nuovo esercito in procinto di marciare verso la Renania — si disposero intorno allo stadio dello sci portando fiaccole accese. Salve di artiglieria echeggiarono in cima ai monti da una parte all’altra della valle. Potenti riflettori puntavano dritti in alto producendo il maestoso effetto “cattedrale di luce” che l’architetto Albert Speer aveva sperimentato la prima volta al raduno del partito nazista di Norimberga nel 1934.

Solo in pochi colsero l’amara ironia del momento in cui gli atleti sfilavano sotto le gioiose bandiere mentre gli orribili cannoni rimbombavano in cielo, come poi avrebbero fatto tre anni più tardi sulle teste di quegli stessi giovani, presto destinati a combattersi su opposti fronti.

Tuttavia, il generale successo dei Giochi invernali rappresentò un’ulteriore possibilità per Hitler di dimostrare al mondo intero la propria mendace volontà di pace e tolleranza. I funzionari del Reich nei giorni delle gare avevano fatto tutto quanto in loro potere, tranne dettare i testi, per garantire ai giornalisti un trattamento da principi. Dotati delle più moderne attrezzature per le comunicazioni, di segretarie poliglotte, di libero accesso a cibi e bevande, e forniti di guide per le visite ai luoghi più suggestivi della regione, la maggior parte della stampa internazionale convenne nel giudizio che la Germania sembrava «il paese europeo più amante della pace, antimilitarista e ospitale del mondo».

Nessuno di loro in quei giorni si sforzò di guardare cosa ci fosse sotto lo spesso strato di neve, ovverosia sotto la superficie dell’efficiente propaganda nazista. Nessuno volle mettere in rilievo le discrepanze tra la realtà e la sua esibizione.

La cecità di quel momento, aggravata dalla volontà di non boicottare neanche i Giochi di Berlino, avrebbe avuto profonde conseguenze non solo per il consolidamento della forza interna del regime di Hitler, ma anche per il futuro politico di tutto il mondo. Probabilmente il vero errore che i diversi capi di stato europei commisero nel sottovalutare le vere intenzioni del Führer non fu compiuto durante la Conferenza di Monaco del 1938, come tutti pensano, bensì proprio quando gli concessero la possibilità di ospitare le due Olimpiadi. In questo modo si aggiudicò la prima battaglia di una guerra combattuta con altre armi. Senza questo vantaggio di tempo, mezzi e fiducia, Hitler probabilmente non avrebbe avuto l’occasione di poter sferrare tre anni più tardi il proprio attacco mortale all’Europa.

Articolo a cura di Francesco Gallo

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