L’arte dell’autogol

Crampi Sportivi
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7 min readNov 7, 2016

«Zoccola! Ma io ti ammazzo senza pietà». Di fronte all’uomo armato e minaccioso che fa irruzione nell’albergo la sera del 5 ottobre 1929, Biagio quasi sviene. È l’ultimo acquisto del Napoli, alessandrino rientrato dopo un anno dal Bari, e con quel cognome “da venduto” con cui è difficile trovar moglie non passa certo una vigilia tranquilla prima dell’esordio nel campionato 1929–30. Gioca half, come si diceva allora, si diletta con la caccia e le carte, e forse ripenserà a quell’uomo armato, che ce l’aveva con la moglie scoperta a letto con l’amante, come a un segno del destino. Perché Zoccola, davanti all’elegante e numeroso pubblico del Campo Juventus di Corso Marsiglia entra nella storia. Dalla parte sbagliata. La Juve affonda, cscrive Renato Tavella nei “101 gol che hanno fatto grande la Juventus”, “con Cevenini III, detto ‘Zizi’ per la lingua pungente. Un tipo bizzarro che in campo disegna arabeschi a dispetto del gioco duro del tempo. E Zizi in maniera sublime dribbla secco e se ne va, involandosi al tiro. Il povero Zoccola, generoso ma nella circostanza pasticcione, nel vano tentativo di intercettare il pallone lo sfiora appena, ma quel tanto che basta per ingannare il proprio portiere”. Dopo 10 minuti, il primo campionato di serie A a girone unico ha già il suo primo autogol.

Oggi, una deviazione così non verrebbe considerata un’autorete. Giudicato con gli attuali criteri, verrebbe meno anche il record di Riccardo Ferri, quelle otto autoreti diventate anche un pezzo di cultura pop e citato nel pezzo di Ligabue A che ora è la fine del mondo (cover di It’s the end of the world as we know it dei R.E.M.). L’ultima inguaia l’Inter di Marini, alla sesta sconfitta consecutiva, il 2 aprile del 1994. “Quella che i più definiscono fortuna”, scrive Marco Ansaldo il giorno dopo sulla Stampa, “è solo un corollario al teorema della pochezza nerazzurra”. A 5' dalla fine, quando nemmeno Juve credeva più nella vittoria, “su una punizione di Baggio il bravo battilastra (che fu uno degli stopper più valutati d’Italia) ha cercato di allontanare con forza, in mezzo a due compagni: paff, la palla colpita con stile si è infilata nell’angolo alla sinistra di Zenga, come meglio non avrebbe fatto un attaccante. Sfortuna o incapacità? Infortunio o confusione dei sensi?”.

“Ogni volta che ingannavo il mio amico Zenga, mi sentivo solo in mezzo all’ area” ha confessato alla Gazzetta dello Sport Ferri, che già in un’altra occasione aveva regalato un gol ai rivali bianconeri, il 26 ottobre 1986, la prima del Trap da avversario a Torino (e infatti per un attimo sbaglia panchina). È il suo pallonetto di testa, nella porta sbagliata, ad aprire l’1–1 sul lancio di Platini. “A volte ero un po’ ingenuo e impulsivo, arrivavo sulla palla scoordinato, guidato dalla frenesia o dalla velocità dell’ attaccante” ammette. Ma un autogol gli pesa ancora più degli altri, “quella nel derby ‘87- 88, in cui giocai molto bene. E’ chiaro: le gare contro il Milan erano sempre importanti. Ricordo benissimo: cross di Evani da sinistra con la palla che finisce tra Gullit e un altro giocatore, l’ appoggio morbido a Zenga che esce dai pali senza “chiamare palla” e che tenta il recupero quando la sfera ha ormai oltrepassato la linea di porta”.

Un autogol nel derby può segnare una carriera. Chiedere, per credere a Paolo Negro, colpito dalla rovesciata di Nesta, che decide Roma-Lazio del 17 dicembre 2000. «Peccato che Negro abbia eguagliato il mio record» commenta Janich, che non ha mai segnato in A se non nella porta sbagliata: il 6 marzo 1960 devia il tiro di Da Costa e decide il derby. I due del romanista Santarini, in due sfide diverse, e quelle di De Sisti e Cordova, nella stessa partita, restano nella storia ma sbiadiscono di fronte alla contro-impresa di Aldo Ballarin, terzino del Torino e della Nazionale morto nella sciagura di Superga, che ne firma due in due derby di fila. Segna il 28 marzo del 48 (1–1) e all’andata della stagione successiva, sempre dopo il vantaggio di Ossola. “La prossima volta non segno più, tanto è inutile”, dirà. Nell’ultima visita al Comunale, il Grande Torino vincerà 2–1 grazie al gol di Mazzola in una domenica di doppia festa. Nell’intervallo, infatti, arriva la notizia della vittoria al Giro di Lombardia di Fausto Coppi, che portava il nome di Torino nel mondo e non nascondeva simpatie granata, anche per amicizia con quei calciatori da leggenda: Mirella, la figlia di Ezio Loik, vantava con orgoglio la sua bicicletta e il manubrio ricurvo che il Campionissimo le aveva regalato.

Si può segnare nella propria porta per sfortuna, una zolla ha tradito il capitano dell’Udinese Bertotto contro l’Atalanta nel 1996 e una bottiglietta ha beffato Sebastiano Rossi e Baresi (7 autogol in A), nell’amichevole contro l’Athletic Bilbao nel 1993. Si può anche segnare scientemente, però, per scaramanzia. Sergio Manente, il primo terzino moderno, compagno di camera di Boniperti, quando la sua Juventus era largamente in vantaggio, alzava la mano aperta verso il portiere Viola a cinque minuti dalla fine e realizzava sistematicamente l’autogol antisfortuna.

Oltre ai numeri, però, c’è di più. Anche l’autogol può diventare parte dello show. È un capolavoro balistico, un treno dei desideri che all’incontrario va, il retropassaggio da centrocampo di Materazzi a Empoli che il 30 aprile 2006 scavalca Julio Cesar, troppo fuori dai pali. Una contro-impresa, presto dimenticata nell’euforia mondiale, che ricorda il lob perfetto da 25 metri del terzino dell’Arsenal Lee Dixon contro il Coventry nel 1991: peccato solo che la porta fosse quella dei Gunners.

In quello che sarà anche il Mondiale di Materazzi, Buffon incassa un solo gol su azione… da Zaccardo, che a Palermo aveva segnato il gol qualificazione per Berlino. Ma c’è anche chi la nazionale l’ha persa per un autogol, o meglio due. La carriera in azzurro di Sandro Salvadore, che in azzurro ha vissuto la disfatta mondiale in Cile e il trionfo europeo, anche se Valcareggi non lo considera titolare fisso, che ha giocato 17 partite da capitano in azzurro, finisce al Bernabeu, nello stadio che sarà il teatro dei sogni e della gloria per gli abatini di Bearzot, il 21 febbraio 1970. L’Italia è avanti 2–0 contro la Spagna, in amichevole, dopo 20'. In due minuti cambia tutto. Al 23' “su un facile tiro in diagonale del capitano spagnolo Amando il ginocchio sinistro di Salvadore deviava nettamente il tiro dalla parte opposta dove era piazzato Zoff” ricorda il Libro azzurro del Calcio Italiano; “al 25′ su un breve traversone dell’interno sinistro Anela, spostatosi momentaneamente a destra, Salvadore toccava, forse con l’intento di deviare in calcio d’angolo, infilando la propria rete, non accorgendosi che dietro di lui Zoff si era già proteso nel tentativo dì parata sul tiro dello spagnolo”. Sipario su un decennio in azzurro.

L’autorete, però, in Italia ha un solo vero padre nobile, Comunardo Niccolai, con quel nome che il papà antifascista volle in nome dei proletari della Comune di Parigi che ressero il governo della Francia nella primavera rivoluzionaria del 1871, destinato a giocare in coppia con Greatti, di nome Ricciotti, come il quarto figlio di Garibaldi. Non per quantità, ma per qualità. Le sue sono pezzi di bravura. La più bella, ricorda con ironia in un’intervista sulla Gazzetta dello Sport, contro il Bologna: “evitai anche il portiere, Albertosi, e feci un gol da attaccante puro”. Ne segna uno “a Catanzaro nella 300ª gara arbitrata da Concetto Lo Bello, uno a Perugia, uno contro la Roma e uno a Firenze, ma quella volta non avevo davvero nessuna colpa perché il portiere, al posto di parare, abbasso’ il braccio e la palla mi rimbalzò addosso. D’ altra parte, i miei interventi erano spesso un po’ spericolati e capitava che arrivassi sulla palla scoordinato”. Il più bel sogno fu il sogno non sognato, canta De Gregori, e il suo autogol più clamoroso fu quello non segnato. “Successe a Catanzaro nel 1972, arbitro Lo Bello. Al 90' sentii un fischio e pensai: “E’ un fallo oppure la gara è finita”. Calciai forte con l’intenzione di scaraventare il pallone in curva. Ne venne fuori un tiro, ‘parato’ da Brugnera. Lo Bello decretò il rigore e noi subimmo il 2–2". Fa storia, però, per la deviazione di testa nella sfida scudetto contro la Juventus. “L’istantanea del fotografo è storica” si legge in un articolo del Giornale, “si vede Niccolai che si allunga, in volo, tirando i nervi, tutti, compreso il collo e il mento e il petto, toccando per disperazione, con l’ultimo pelo che aveva in capa, il pallone, nel tentativo di liberare, si diceva così. A un metro da lui, Ricky Albertosi tiene le braccia come a cullare un neonato, il pupo non c’è, era, la sua, la postura pronta a ricevere docilmente e facilmente quel pallone che finì, invece, in rete. Il terzo uomo, nella fotografia, è Zigoni il quale assiste inebetito all’evento favorevole”. «Davvero un bel gol» commenta Scopigno, squalificato.

«Tutto mi sarei aspettato dalla vita tranne che di vedere Niccolai, via satellite e a colori» dirà l’allenatore, dopo il debutto mondiale contro la Svezia (trasmesso a colori dalla tv della Svizzera italiana, ma non dalla Rai che non aveva ancora scelto se affidarsi al sistema Pal).

Il 2–2 finale di Torino non cambierà le sorti dello scudetto che per Brera “rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia”. L’autorete di Ferrario, in un Napoli-Perugia del 26 aprile 1981, invece sì. Gli azzurri, in testa alla classifica con Roma e Juve, si aspettano una vittoria comoda contro gli umbri, già retrocessi. Dopo un minuto Di Gennaro crossa, Ferrario pressato da De Rosa interviene in spaccata, Castellini incarna l’immagine del portiere di Saba, “caduto alla difesa ultima vana, contro terra cela la faccia, a non veder l’amara luce”. Per un giorno, dirà sua moglie, “Gianluigi è uscito dall’anonimato”.

Come Franco Giavara, difensore del Catania, che prima devia fortuitamente in porta un tiro dal limite di Mordello, poi mette dentro un cross di Maciste Bolchi. L’Inter, già in vantaggio 1–0 con gol di Mordello, vincerà 5–0 con altri due autogol, di Mario Corti e Elio Grani. La vendetta sarà fredda, ma altrettanto leggendaria, al ritorno: da quel 4 giugno 1961, non si smetterà più di gridare “clamoroso al Cibali”.

L’impresa di segnare quattro gol nella stessa partita sembra impossibile, ma proprio il Catania replicherà 26 anni dopo, in Serie B, con la collaborazione del Lecce: finisce 2–2, ma nessuno segna nella porta giusta. Ma forse, come diceva Niccolai, le autoreti andrebbero rivalutate, ricalcolate. “Valgono solo se capolavori, come le mie”.

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