Le 8 sottotrame di quel fantastico telefilm che è l’Nba 2014/15

Crampi Sportivi
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12 min readOct 27, 2014

Ok, sta per cominciare di nuovo, come un’ontologia circolare che ti costringe a stare sveglio le notti riscrivendo il concetto di tempo. Non so se “il tempo è un cerchio piatto” (cit.), ma — di sicuro — l’NBA non lo è: tutto ricomincia da zero, ma non si ha mai, tanto meno quest’anno, l’idea di un qualcosa di posticcio, rielaborato.

Ancora una volta l’NBA 2014/2015 è l’epica dello sport che incontra la narrazione nel suo punto più alto.

Possiamo immaginare la stagione che sta per iniziare come uno di quegli iper-romanzi di Italo Calvino, una roba alla Oulipo, dove dentro ad un romanzo ce ne sono almeno 8. Dove la narrazione LeBron James si incorcia con quella di Derrick Rose, dove il nuovo dei rookies passa per i 38 anni di Tim Duncan. Dove Gregg Popovich. Abbiamo raccolto qui 8 possibili chiavi di lettura — una piccola guida per lettori imperfetti — che vi aiuterà a riprendere confidenza con la lega più bella del mondo.

1. Kobe is back

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“Il 24 è un alieno che prova a sembrare umano senza riuscirci”. Federico Buffa

Queste due frasi sembrano in assoluta contraddizione: nella intervista riportata Bryant risponde con un aplomb smorzato, con un termine che sa di assoluto disprezzo verso i giornalisti di Espn, rei di averlo declassato al quarantesimo posto nella classifica dei migliori giocatori della Lega.
Una reazione rabbiosa, umana, furente nel sorriso che accenna alla telecamera. Ma qui finisce l’ordinario e inizia lo straordinario.
Lo straordinario di un uomo da 1245 partite in carriera e 31700 punti, 5 volte campione Nba, 2 volte Mvp delle Finali e 16 volte All- Star.
E, nonostante le primavere inizino ad essere molte (36) e i fasti dei Lakers lontani, non per questo ha voglia di sentirsi dire che c’è ancora qualcuno più forte di lui. Hic sunt leones. Resta la sua fame, la voglia di non mollare, quella stessa fame e ossessiva ricerca della vittoria che l’ha fatto sembrare la cosa più vicina a Michael Jordan dopo Michael Jordan. E così, in una città che sembra aver scelto i Clippers, per anni i cugini sfigati, qualcuno ancora si commuoverà chiudendo gli occhi sentendo pronunciare il suo nome, con il 24 da Lower Merion High School…

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Ricorda qualcuno?

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My two cents che qualcosa per farci innamorare c’è ancora

2. Phil Jackson alla ricerca di altri anelli da stipare nel suo cassetto degli anelli

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I New York Knicks sono la squadra Nba che maggiormente si presta a paralleli con la serie A di calcio. Il suo brand è paragonabile a quello della Roma: il fascino della “Grande Mela” per motivi differenti, è paragonabile al fascino della capitale e, come per la Roma, questo fascino non si traduce in copiose vittorie. Un altro punto di contatto è il forte legame tra giocatori newyorchesi e New York, intesa come squadra, che ricorda quello che hanno i giocatori romani per Roma e per la Roma; tutti i giocatori provenienti da New York sognano di giocare al Madison Square Garden ma, una volta realizzato il sogno, vengono travolti dall’enorme pressione della piazza (per citarne uno, Stephon Marbury, nato a Coney Island — non la migliore zona di New York — accolto come un messia e poi scaricato e considerato il principale responsabile dei fallimenti dei Knicks targati Isiah Thomas), in una maniera di gran lunga superiore di quanto avvenga per i giocatori romani e romanisti.

Cosa accade, invece, quando a tornare a casa non è un figlio della Grande Mela, ma un ex giocatore non troppo importante che lontano da New York è diventato uno dei più grandi allenatori di sempre? Phil Jackson torna ai Knicks da Team President. Phil intende trasformare uno spogliatoio storicamente difficile da gestire, con personaggi del calibro di Jr Smith (trattasi di costui e questa è la sorella), in un gruppo unito e vincente, come fece da allenatore dei Los Angeles Lakers del “three-peat” 2000–02. Come prima mossa, Jackson ha assunto come allenatore un suo ex giocatore, l’esordiente Derek Fisher, il quale dovrà far capire ai giocatori i meccanismi del Triple Post Offence sistema che Phil Jackson ha sempre adottato come allenatore (per chi volesse capire cosa è questo famoso attacco “Triangolo” guardate questo video in cui Flavio Tranquillo, dal minuto 3:30 al minuto 6:40 circa, ne mostra i principi chiave). Il talento c’è e in abbondanza, anche se, oltre a Carmelo Anthony, altro newyorchese e favoloso realizzatore, le gerarchie non sono ben delineate e i playoff sono alla portata.

Che nessuno si azzardi a chiedere un pronostico sulla stagione di Andrea Bargnani perché è letteralmente impossibile farlo.

3. Cosa accade a Miami (Anno 1 a. LBJ)

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Manca un numero?

Pat Riley, incassata la perdita di Lebron James, ha voluto lanciare al mondo il seguente messaggio: noi non smobilitiamo e non tankiamo (per chi non fosse avvezzo a orribili espressioni anglofone, “tankare” significa perdere tantissime partite durante la stagione regolare per avere un numero più elevato di palline sorteggiabili nel corso della lotteria del draft e prendere giocatori dal futuro più luminoso), anzi puntiamo a dare fastidio nella Eastern Conference a tutti! Pat Riley ha rinnovato il contratto a Chris Bosh, eletto a nuovo uomo franchigia, dandogli la bellezza di 118 milioni di dollari in 5 anni e, per sostituire Lebron James, ha acquisito dal mercato dei free agent (giocatori senza contratto) l’ala inglese Luol Deng ottimo giocatore autore di ottime annate con la canotta dei Chicago Bulls (più sfortunata la sua parentesi con Cleveland).

Qualunque squadra che perda Lebron James, è una squadra notevolmente indebolita, ma Miami ha una squadra interessante e, elemento da non sottovalutare, ha un orgoglio ferito. Il nuovo leader Chris Bosh incarna perfettamente il nuovo spirito miamino ed ha già rilasciato dichiarazioni, ingenerose e probabilmente improvvide, contro il vecchio amico LBJ e un avvertimento a Kevin Love, che non si sa bene quando glielo abbia chiesto , su quanto sia frustrante e difficile giocare a fianco del “RE”. Qualora dovesse esserci una serie playoff Cleveland-Miami, non azzardatevi a non guardarla.

4. Fidarsi di Chicago per sperare che la Eeastern Conference abbia senso

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“Se mi faccio male pure quest’anno ho paura che Noah mangerà la mia faccia”

30 punti in 24 minuti insieme a 5 rimbalzi e tre assist sono le cifre di Derrick Rose il 20 ottobre contro Cleveland e il suo Re.

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Ecco il segnale che tutti attendevamo da Derrick. Ecco il giocatore che può rendere Chicago la principale antagonista ad Est dei nuovi Cleveland Cavaliers e far si che la costa orientale non si trasformi in un’edizione lunga otto mesi del Trofeo Birra Moretti (cit.).
Derrick è tornato in campo durante l’ultimo Mondiale, dominato dagli Usa, ma del giocatore che andava a una velocità tripla rispetto a chiunque altro sul parquet, era rimasta solo la canotta e in molti temevano fosse impossibile rivedere quel giocatore dominante che vinse il titolo di MVP della regular season a soli 22 anni.
Chicago, forte anche dell’arrivo di Pau Gasol (un giocatore di 2 metri e 13 capace di fare queste cose), attende il suo ritorno in pianta stabile da due lunghi anni durante i quali, grazie alla durezza mentale instillata dal suo allenatore Tom Thibodeau, sono riusciti a centrare l’obiettivo dei playoff e a dare filo da torcere a tutti. Ma nel momento decisivo si sentiva sempre la mancanza del fuoriclasse (Derrick Rose per Chicago ha l’importanza che aveva Ibrahimovic nel Milan di Allegri per capirci) capace di questo tipo di giocate contro Wade e Lebron. Dalle sue ginocchia dipende tutta l’annata della squadra dell’Illinois e probabilmente anche il nome del campione Nba 2014–15

5. Ettore Messina — il nuovo nella perfetta macchina dei San Antonio Spurs

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Imparare dal migliore

Allenatore, per definizione. Dentro la definizione. Nello Zingarelli 2015, la voce ‘coach’ è spiegata da Ettore Messina.

Coach Ettore Messina che parla tante lingue, pure quella della musica. Suo padre Filippo era avvocato a Venezia. Uomo raffinato, di grande cultura, che in casa ascoltava l’opera. A Ettore non piace il paragone tra squadra e orchestra. Nessun maestro a dirigere, nessuna partitura. Nella sua definizione, il coach è quello che ricerca l’armonia: i giocatori sono musicisti di una jam session. Fin troppo naturale, per uno così, finire ad allenare a San Antonio. A casa degli Spurs, da vice di Gregg Popovich. Nella squadra di pallacanestro più armoniosa che si sia mai vista, dove il primo comandamento suona come I have a good shot, but you have a better shot. La multinazionale dell’armonia: nove giocatori stranieri, sette nazionalità diverse.
La comunicazione non è mai stata un problema per coach Messina. Papà Filippo non amava lo sport, avrà visto al massimo un paio di partite del figlio in tutto. Ma fece studiare l’inglese ad Ettore quando aveva 16 anni. “Ti servirà, vedrai.” Gli servì. Pochi anni dopo, ventunenne, Ettore ottenne il ruolo di traduttore di Dean Smith, coach di North Carolina in trasferta a Milano per un clinic. Poi imparò altre lingue. Lo spagnolo, il francese, il russo. Diventò uno degli allenatori europei più vincenti di sempre. Due EuroLeague a Bologna, due a Mosca. Sempre lo stesso chiodo fisso: la ricerca dell’armonia in situazioni che si evolvono costantemente. Una ricerca che l’ha portato oggi in Texas. Pochi giorni fa, in una gara di preseason, è stato il primo europeo sulla panchina di una franchigia americana, come capo allenatore. Head coach. Sugli spalti non c’era papà Filippo, ispiratore di inglese e di armonia, che diceva di non amare il basket. Quando è morto, tra le sue cose è stata trovata una scatola con dentro un’enorme collezione di foto e ritagli di giornale. Tutti parlavano delle mille conquiste di Ettore, coach Messina.

6. LeBron James: I’m coming home

NBA: Cleveland Cavaliers-Media Day

I 3 grandi versione Cleveland

«Prima che a chiunque importasse dove avrei giocato a basket, ero un ragazzino del Nord-Est dell’Ohio. È lì che ho imparato a camminare. È lì che ho fatto le prime corse. È lì che ho pianto. È lì che ho sanguinato. Occupa un posto speciale nel mio cuore». Così cominciano le righe che sconvolsero l’NBA. Data: 11 luglio 2014. Oggetto: trasferimento dai Miami Heat ai Cleveland Cavaliers. Autore: LeBron Raymone James.
Se per Guccini appartenete alla categoria dei cinici, state maledicendo la solita retorica americana. Ma se vi svegliate all’aurora, o se spesso è l’aurora che vi sorprende davanti a una partita, allora questo inizio di stagione vi emoziona un po’ di più.
Il ritorno di King James sembra uscito da un film (Hollywood, of course). Cleveland, franchigia di casa, lo scelse al Draft 2003: quattro anni e il Prescelto trascina i Cavs alle prime Finali NBA. Ma nelle tre stagioni che seguono, sono dolori. Si sussurra che LeBron, quando conta, se la fa sotto. Per vincere James deve cambiare aria e nel 2010 — con una sciagurata diretta tv — annuncia il passaggio a Miami. Il resto è storia.
James è già un vincente. Ora vuole di più. Vuole vincere con la squadra del cuore, in un luogo privo di tradizione e mentalità. A man on a mission, ma non da solo. Con lui Kevin Love da Minnesota, 26 punti e 12 rimbalzi di media l’anno scorso: per acquistarlo i Cavs hanno rinunciato al futuro fenomeno Wiggins (vedi rookies). Attratti dal Prescelto sono giunti in Ohio anche veterani di peso come Shawn Marion e Mike Miller. L’unica stella già di casa è Kyrie Irving, playmaker consacrato come MVP nel Mondiale di settembre. Riuscirà il figliol prodigo a far gioire per la prima volta la middle class dell’Ohio? Nove esaltanti mesi per scoprirlo.

7. La carica dei rookie

rookies

Joel Embiid si candida al premio di giocatore più simpatico (l’MFP)

I Draft NBA sono il maggiore esempio dei “se” che non fanno la storia. Per esempio, cosa sarebbe successo “se” nel 1984 tale Michael Jeffrey Jordan fosse stato chiamato da Houston o Portland, che sceglievano prima di Chicago? Anche il Draft 2014 darà vita a molti “se”. Perché la merce in vetrina era strepitosa. Cleveland ha beccato la prima scelta (terza volta in quattro anni) e ha chiamato Andrew Wiggins, ma poi lo ha ceduto a Minnesota (insieme ad Anthony Bennett, deludentissima prima scelta 2013) per arrivare a Kevin Love. Wiggins, per capirci, ha un’esplosività che gli permette di fare questo genere di numeri. Occhio allora ai T’Wolves: sono giovani, freschi e faranno divertire. Alla due, i tragici Milwaukee Bucks hanno ottenuto Jabari Parker, uno dotato di un certo atletismo sui due lati del campo. Con lui e il cognome più impronunciabile della Lega, Giannis Antetokounmpo, anche i Bucks si candidano a dominare il futuro. Alla tre è andato Joel Embiid, camerunese scelto da Philadelphia: trova il rookie dell’anno 2014, Michael Carter-Williams, e l’altra potenziale stella Nerlens Noel. Anche Phila dunque straborda di potenziale, mentre Embiid ha già vinto sui social: appena draftato ci ha provato con Kim Kardashian e poi con Rihanna. Purtroppo però, con gli stessi effetti di una bomba di Shaq: palo ma grasse risate.

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Tutti da Giorgios!

Finita? Ma no. Orlando ha preso alla 4 un altro atleta totale, Aaron Gordon; Utah alla 5 una guardia matura come Exum. I Celtics continuano la ricostruzione con il play Smart, per molti un doppione di Rondo. E occhio pure a Randle (Lakers), Stauskas (Sacramento), McDermott (Bulls). Una vagonata di talento nella Lega più bella del mondo: la tavola è apparecchiata per un altro decennio.
8. Gli italiani

“Allora Andrea, ci sei per l’inizio di stagione?” La domanda riecheggia in una afosa notte di agosto, nel regno romano della movida. La risposta di Andrea Bargnani, ex Benetton Treviso e prima scelta assoluta al Draft 2006, rimane sospesa fino ad oggi, visto che il suo (neo)allenatore Derek Fisher non ha risposto alla domanda se fosse pronto per il “tip off” del 29 ottobre. L’infortunio vagamente goffo è l’immagine chiara e nitida del vorrei ma non posso che da sempre accompagna il giocatore formatosi alla Stella Azzurra. I dubbi rimangono, anche perché il giocatore ha usufruito della player options contrattuale e rifirmato a 12 milioni di euro per questa stagione. Numeri e cifre importanti da integrare nel nuovo sistema della “Triple Offense’ voluto dal neo gm Phil Jackson.

Chi sicuramente sarà della partita è Danilo Gallinari, e fatemi dire, bentornato. Dopo un calvario di più di 500 giorni, fatto di partite guardate in televisione e di un recupero dal infortunio al legamento del crociato durato molto più del previsto, ha tutte le carte in regola per elevarsi a uomo franchigia in una Denver in cui non si è certi di un posto ai playoff nell’ultra competitiva Western Conference, ma grazie all’atletismo di Lawson e Faried, lo spettacolo non dovrebbe di certo mancare.

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Classic Gallo strickes back

Chi invece parte con poco da confermare ed essendosi ampiamente preso le sue rivincite é Marco Belinelli. Dopo anni di peregrinare infruttuoso ( Golden State, Toronto, New Orleans) è diventato stabilmente uomo di rotazione nel sistema Spurs dove ha portato il suo contributo importante nella vittoria delle Finals nella scorsa stagione. Rifiutando la chiamata della Nazionale per riporsarsi ( linkare foto Belinelli a Miss Italia) e per continuare ad allenarsi ( linkare foto Belinelli che trascina uno pneumatico), ritroverà come assistente allenatore Ettore Messina, facendo scendere una lacrima nostalgica a tutti gli amanti italiani di Bologna come Basketcity. Puntano al bis, a dir poco.
Chi invece non ha saltato nessuna delle partite che hanno portato l’Italia agli Europei del prossimo anno è Gigi Datome. Un sistema come quello americano ha sempre esaltato i valori di “Pursuit of Happiness” e meritocrazia. Ma nella Motown dei Detroit Pistons la recessione economica si accompagna a quella morale e questo splendido giocatore di basket e meraviglioso lavoratore è destinato a minuti di “garbage Time” e a marcire sul fondo della panchina.
Mi unisco anche io all’appello della rete italiana (piccola ma attivissima): #freegigi!, torna in Europa e facci sognare.

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L’arresto e tiro in allontanamento più fluido d’Italia

Sebastiano Bucci (gli italiani, Kobe), Gioele Anni (i rookie, Cleveland), Francesco Zanza (Phil Jackson, Chicago, Miami), Leonardo Piccione (Ettore Messina), Marco D’Ottavi (introduzione)

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