Le plus fort

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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12 min readJun 5, 2016

Oggi proprio non c’è verso: ho male al culo, non ce la faccio. Ad essere onesti non è un dolore vero e proprio: sembra più un fastidio — leggero ma persistente — che potrebbe essere dovuto a una piega della mia tutina da pro sponsorizzata Banesto. Vorrà dire, come ha appena suggerito mio padre, che accorceremo il nostro giretto del lunedì sera. Così, dall’iniziale progetto di infrangere il nostro piccolo record di 30 chilometri totali, ce ne torniamo mestamente verso casa. Mio padre, che non per caso ha trentaquattro anni e molte chiavi di lettura più di me, non mi risparmia qualche presa in giro. Sostiene, sornione, che non avrei né dolorini né fastidi. Semplicemente, avrei empatizzato con le sorti del mio prediletto, che questo pomeriggio, sul Sestriere, è crollato. Il fatto è che oggi è l’otto luglio del 1996 e la pedalata di Indurain Miguel, ingombrante fratello-leggenda del meno quotato Prudencio, si è fatta scomposta e affaticata. Ha vinto un anziano danese senza capelli che si chiama Bjarne Riis, che l’anno prima era finito sul podio senza clamori e dal quale nessuno poteva aspettarsi l’exploit odierno. De Zan non ha mancato occasione di farcire il dramma con la consueta scarica di urla e commenti scomposti, glossando senza pudore la milionesima maglia a pois di Virenque e — more solito — l’arrivo in blocco dei vari italiani che si sono attardati lungo il tragitto.

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La mia sensibilità, alla soglia degli undici anni, subisce quel giorno un colpo durissimo: a livello estetico, visivo ed emotivo, la scena cui ho appena assistito corrisponde alla distruzione di un immaginario eroico. Mentre Berzin, vincitore della crono del giorno prima e improbabile detentore di una maglia gialla più che mai ad interim, vede sfumare il proprio, brevissimo sogno, Miguel Indurain, che mio padre chiama alternativamente “Indu” o “il navarro”, perde vagonate di minuti, abbandonando, già alla nona tappa, la possibilità di vincere sei Tour in fila. Io lo vedo, per la prima volta, grosso, stanco e pesante: benché serri la mascella per cercare di chiudere con onore, ne sto osservando la resa.

Devo accontentarmi, dice mio padre, del fatto che sia stato il primo a vincerne cinque consecutivi, come mai prima di lui era successo. Gli altri “pentastellati”, Anquetil, Merckx e Hinault, non ci erano riusciti, inanellando al massimo — nel caso dei primi due — un 4+1. Devo pensare che ha ormai un’età, e che a trentadue suonati può capitare che un atleta di quel tipo molli il colpo. Quanto a Riis, continua mio padre, mi sia d’aiuto la saga di Joop Zoetmelk, che dopo cinque secondi posti al Tour vinse il primo a trentaquattro anni e a trentanove conquistò il Mondiale su strada.
Quei contentini, in ogni caso, riescono a consolarmi solo a stento, né mi rallegro con l’aneddotica del glorioso quinquennio precedente o ripensando al dato, inumano, dei ventinove battiti al minuto.
Parlare è facile per lui, penso. Io boccheggio cavalcando una pesante mountain bike con tubolari da carro armato, lui si gode il vento tra i capelli maneggiando una leggerissima Vicini arancione: avrà pure qualche decennio, ma va che è uno spettacolo.

Tipo strano, mio padre. Segue il calcio a malapena, ma ama il ciclismo, l’atletica e la boxe. Non ha idoli perché è eticamente sbagliato e non crediamo nei miracoli, ma nutre grandi passioni. Si dice “moderatamente juventino” e fan di Platini, per quanto io gli obietti che se è stato a un passo dall’andare all’Heysel qualcosa vorrà pur dire, in termini di coinvolgimento. Non ha difficoltà ad ammettere il peso leggendario di Alì, ma invita i più a considerare l’imbattibilità di Marciano o la completezza di Marvin Hagler, benché, naturalmente, sia lecito solo in parte valutare il passato con il metro del presente o mettere a confronto categorie diverse. Più che di Paavo Nurmi, mi parla degli ori di Al Oerter, discobolo statunitense che dal 1956 al 1968 ha vinto quattro Olimpiadi su quattro partecipazioni. Dà il suo meglio su Lasse Virén, leggenda finlandese di 5.000 e 10.000, che una volta vinse una gara dopo essere caduto.
Da qualche anno seguiamo insieme Giro e Tour in modalità seminariale: 60 cfu annuali di aneddotica sportiva. Anno dopo anno, dai vari cicli di lezioni, ho tratto alcuni insegnamenti fondamentali:

1) il nazionalismo, se pregiudiziale, è sbagliato e ci rende solo poveri italioti: già a suo tempo, con il Chiappucci “spaccamontagne”, abbiamo avuto prove sufficienti a capire come stampa + italianità costituiscano un binomio spesso letale per le carriere. Passi per chi è stato leggendario davvero: passi per il rachitico Fausto e il filomonarchico Bartali, che senza la ben nota rivalità e la pausa dovuta alla guerra avrebbero certamente potuto vantare un carnet ben più sostanzioso. Passi per gli eroi di altri tempi, da Girardengo a Learco Guerra. Passi pure per quel Binda, che in epoche in cui i grandi giri avevano la metà delle tappe, ma lunghe il doppio, era pagato per non gareggiare, ché se no avrebbe continuato a vincere. Passi per Moser, in virtù della sua nobile indole da cronoman (guarda caso, coetaneo di mio padre). Passi, in fin dei conti, anche per Bugno, corridore di grande stile che stava raccogliendo meno di quanto avrebbe meritato. Per questo Pantani vedremo: è ancora presto. Tutti gli altri, robetta;

2) la completezza è data da tanti fattori. Non bastano le salite, se no sei un Virenque. Non bastano le crono, se no sei un Boardman. Non bastano le vittorie di tappa, se no sei un Cipollini, o chi per lui (Zabel?);

3) la gogna mediatica è, in ogni caso, sbagliata. Non solo “il doping c’è sempre stato”, ma l’antidoping resterà sempre di un decennio indietro in termini di scoperte e innovazioni. Per questa ragione, senza la retorica della pulizia e dell’onestà, si può continuare a considerare il ciclismo come uno sport, per giunta interpretato ad armi pari. Purché, come è ovvio, la gente non si accasci in salita per troppa anfetamina o non muoia d’infarto a metà della tappa;

4) date queste premesse, mio padre simpatizza per Tony Rominger, ineguagliato vincitore di tre Vuelte consecutive e recente vincitore del Giro, nonché recordman dell’ora: questi fatti, uniti a un’evidente modestia nelle interviste, a un viso simpatico e a una tragicomica caduta cui mio padre assistette di persona, in una tappa che si svolse nella nostra città, fanno dello svizzero il prototipo del perfetto atleta che il suddetto genitore è obbligato a supportare, almeno sulla carta.

Prima che il mio percorso di studi si concluda, emerge, in modo del tutto inatteso, anche un punto 5). Ripassando diligentemente le nozioni di cui sopra, avevo rilevato quella che a me sembrava un’evidente incoerenza: dopo tutte queste pugnette, come puoi — mi permetto di domandare — includere Bugno tra i salvati? Come puoi, se appena tre anni fa lo deridemmo, quando prese quella decina di minuti da Indurain? Eravamo insieme, dico, mi ricordo. Mio padre sul momento esita, e io incalzo con tutta la pedanteria che solo un decenne può avere. Devo aver intuito qualcosa.
- Ma quindi tu non tifi almeno un po’ per Indurain?
- …
- Dai, rispondi. Per chi tifi?
- …
- Dai, non hai mai tifato per nessuno? Non ci credo, che palle.
Pausa. Respiro profondo. I suoi occhi nei miei. Sorriso da ammissione sincera, ma la sua è una controdomanda.
- Lo conosci il normanno?

L’altro collezionista di secondi posti, oltre a Zoetmelk, era Pou Pou, Raymond Poulidor. Altro che Jalabert, diceva mio padre: Poulidor era proprio una bestia, quando ci si metteva. In Francia le avevano provate tutte, per farlo vincere, ma non ce la faceva. Il problema, contro Anquetil, fu forse anche psicologico e non c’era — nella maniera più assoluta — niente da fare. Per quanto i francesi continuassero a preferire Pou Pou e la sua bontà d’animo, a vincere era regolarmente quell’altro, lo sbruffone-fedifrago-bevitore. Anquetil, Jacquot, il normanno. Uno che si era rifiutato di pisciare. Uno che aveva contro le commissioni disciplinari. Uno sulla cui vita sessual-sentimentale è meglio tacere, ché manco Woody Allen. Il primo vero erede di Coppi, con meno problemi allo sterno e senza essere passato — per un pelo — tra le mani di Cavanna. Il primo, non per caso, a fare l’accoppiata dopo il Fausto nazionale. Il primo, nella storia, a vincere in carriera Giro, Vuelta e Tour.
L’elenco di prodezze potrebbe continuare, ma l’enciclopedismo non ha scampo contro la tradizione orale. Si dirà, incidentalmente, che questa passione di mio padre per Anquetil era nata negli anni Cinquanta e si era mantenuta viva, prima dell’avvento dei televisori, tra radio e giornali. Di pari passo, oltre all’antipatia per Poulidor (“una moderata antipatia”, sic), mio padre aveva maturato un odio viscerale per Felice Gimondi: si trattava, anche in questo caso, di un atleta per il quale “costruivano i giri su misura, a tavolino” e per il quale mio zio, il fratello maggiore, aveva incomprensibilmente un debole (“robe da matti, robe da matti”). Deve essere stata dura, realizzo col tempo, assistere al declino di un pupillo mentre dall’altra parte arrivano i Merckx.

Due cose, del mio corso di studi in Jacques Anquetil, sono indelebili da allora. Entrambe contribuiscono a delineare i tratti di un eroe: biondo come Achille, astuto come Odisseo, nobile come Aiace. Non è questione di palmarès, ma di virtù:
a) la prima è la storia di una sconfitta, datata 1966. È il Giro che sarà vinto da Gianni Motta, a mani basse, a spese di Zilioli. Tra i delusi, senza dubbio, Julio Jiménez, maglia rosa fino alla dodicesima tappa e poi quarto alla fine, staccato di quasi sei minuti, nonostante la vittoria alla quindicesima (Arona-Brescia). Non è felicissimo Gimondi, che arriva quinto e vince la Moena-Belluno, ma avrà tempo per rifarsi. Non è felicissimo Vittorio Adorni, che dopo aver vinto la crono di Parma, aver conquistato la rosa e averla difesa nei 270 km del giorno successivo (Parma-Arona, vince Bitossi), un pochino ci aveva creduto, prima di crollare. Era, del resto, il campione uscente.
Tra gli altri, a spartirsi le — ovvie — vittorie di tappa ci pensano Vendramino Bariviera e Rudy Altig. Il Giro di Anquetil, terzo a 4’ 40”, è pura strategia. Sempre lì, non riesce però a regalarsi l’acuto che gli permetta di sopravanzare. Sarà il suo penultimo Giro, competizione in cui può vantare sei podi su sei partecipazioni. La sola occasione che Jacquot ha per dire la sua è la cronometro di Parma, in cui è, per manifesta superiorità e carriera complessiva, il grande atteso e lo strafavorito. Il normanno va, ma non abbastanza, perché il 1966, fatta eccezione per la “Liegi” che mancava, è un’annata magra per l’accoppiata Anquetil-Geminiani: è l’anno del ritiro al Tour alla penultima tappa. Per Jacquot, che ha trentadue anni (!), sembra prossimo il tramonto.
Dunque, a Parma vince Adorni e la stampa è un po’ stranita. Vanno da Jacques, in gruppo, per chiedergli che cosa non sia andato. Jacques, benché sfoggi un ghigno da gattone, forse non ha molta voglia di perdersi in considerazioni à la Lapalice. Il commento che lascia, apparentemente laconico, è ben più del semplice fair play. È un “così va il mondo” di puro nichilismo. Di Adorni, e di quella giornata, Jacques sintetizza: “aujourd’hui c’était il le plus fort”.

b) la seconda è la storia di uno degli ultimi successi di Anquetil, nel 1968. Perché, ai tempi, il ciclismo è un’arte tanto nobile ed illuminata da avere creato il Trofeo Baracchi, divenuto nientemeno che una cronometro a coppie. L’anno prima, Anquetil e Guyot nulla possono contro la potenza di Merckx-Bracke, che bissano il trionfo del 1966. Siccome, però, il “lume” consiste proprio nel fatto che le squadre possono contare anche su atleti di nazionalità diverse, Anquetil quell’anno trova il proprio sodale nell’ormai affermato Gimondi, altro ottimo specialista di settore. Jacques, che dal canto suo ha già conquistato due Baracchi (nel 1962, con Altig, e nel 1965, con Stablinski), vede in quell’occasione la sola possibilità di arrivare al tris. A dispetto del pregiudiziale fastidio di mio padre, Anquetil-Gimondi si dimostra coppia irraggiungibile. Si assiste al canto del cigno di un campione, al felice (hahaha) epilogo di una carriera per i tempi impareggiabile. Con buona pace del belga Van Springel e del danese Ole Ritter, che per tre volte di fila sarà secondo a prescindere dal compagno che gli verrà assegnato.

Atlanta, 1996. Indurain ha fatto capire che dopo l’Olimpiade e la Vuelta si ritirerà. Stava per non partecipare, ma alla fine si è deciso. Proverà ad onorare la stagione, andando a dare il tutto per tutto nella kermesse americana e cercando di ben figurare nella grande corsa a tappe del suo paese, che non ha mai vinto e che ha solo sfiorato nel 1991. Una piccola anticipazione: alla Vuelta Miguel si ritirerà, condizionato da un accumulo di stanchezza e per dissapori con la Banesto. Usa il ventolin da qualche anno, Miguel, e per poco non mettono in mezzo anche lui per uso di sostanza illecite.
Io e mio padre passiamo gran parte dell’estate di Michael Johnson sul divano, lo stesso dal quale abbiamo visto piangere di gioia Bjarne Riis qualche tempo prima. La crono è avvincente, nel senso che non mancano gli specialisti e ci sarà certamente battaglia. Oltre a Boardman, Indurain avrà un avversario che più di ogni altro rappresenta la sua nemesi. È il suo sosia, a dire il vero. È Abraham Olano, che se non si sapesse dell’esistenza di Prudencio sembrerebbe il vero fratello di sangue di Miguel. Se non che, nonostante tra i due sembri correre buon sangue nonostante la bagarre al mondiale del 1995, che ha visto prevalere Olano di un soffio (e che in Italia ha dato vita alla discutibile pubblicazione del pantaniano romanzo Miguel y Marco), quella del 1996 è un’ultima chiamata. Così, almeno, si può dire per il navarro.
Boardman è allucinante. Umilia i predecessori ed è in testa ad-ogni-singolo-intertempo. Si mette dietro Fondriest, che nel podio ci crede ancora. Lo stesso vale per Tony Rominger, che ha dato il massimo e vuole strappare almeno un bronzo. Il giovane Armstrong e lo svizzero Zülle, pure, sono lì. Ma Boardman è primo, staccando di molto tutti gli altri.
Parte Olano, che è impressionante. Perde qualcosina nei vari intertempi, ma nelle ultime due frazioni è un bolide, mantenendo qualcosa come i sessantacinque di media per un periodo di tempo che dal divano mi sembra infinito. Increduli noi, come pure i commentatori. Olano, il penultimo a partire, batte di 19” il tempo di Boardman.
Indurain, nel frattempo, è partito. Sembra Pegasus, Oliver Hutton, Robin Hood, Rutger Hauer in Lady Hawke, D’Artagnan il guascone. Penso che sia davvero difficile, per Miguel, ora che Olano ha spinto tutto il suo quasi metro e novanta oltre il limite. Anzi, penso che Olano sia in definitiva la sua bestia nera, quello che gli avrà rubato oro mondiale e oro olimpico. Quando sto iniziando a rassegnarmi al fatto che anche un bronzo potrebbe andare bene per chiudere la carriera, il cronista (vuoto: De Zan o non De Zan?) inizia ad emettere una serie di spasmodici acuti. Indurain sta andando a velocità siderali. Ha un’andatura da Phantom Malaguti, guarda solo ed esclusivamente davanti a sé attraverso occhiali che gli fasciano il viso. Non ha addosso una divisa, ma la bandiera spagnola; non un casco, ma un elmetto da extra-terrestre.
Mio padre, navigato follower di rimonte a cronometro, ha già capito. Io no, e non capirò per qualche minuto ancora. Indurain li divora uno a uno. Macina chilometri, chiudendo la pratica a un’ora, quattro minuti e cinque secondi. Fondriest fuori dal podio. Riis quattordicesimo, per non farsi mancare niente.
Quel pomeriggio, andremo a fare un lungo giro in bicicletta. Lui, il più grande, ha una Vicini d’annata ma che ancora viaggia parecchio. Io, il nuovo che avanza, ho una mountain bike un po’ pesante, ma una tuta Banesto che mette le ali. E anche un aiutino, che non si sa mai: uno strato di cotone, adagiato dove non batte il sole, a rendere più dolce il tragitto del mio record. I chilometri totali sono quaranta, e l’Energade del rientro mi fa pensare a quale potrebbe essere il sapore dello champagne sugli Champs-Elysees.

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Dallo stesso divano io e mio padre seguiremo, tra mille riserve, la squallida serie di trionfi di un texano che annullerà i record francesi dei nostri beniamini (“meglio quando era solo l’amico di Casartelli”, dirà il mio genitore). Commenteremo lo squallore — lui ne riderà — delle prodezze dei nuovi bad boys, definizione applicata a ragazzetti con la cresta che non sapranno nemmeno che è esistito un Indurain. Osserveremo Simoni comportarsi da bambino viziato con Damiano Cunego. Guarderemo Appuntamento a Belleville.

Mio padre nel frattempo si sarà tolto uno sfizio. Sarà stato in Normandia, a Rouen, non per mero turismo, ma per compiere un pellegrinaggio che è a tutt’oggi — agli occhi degli addetti ai lavori — un’esperienza religiosa. Non vedrà solo la cattedrale, ma visiterà anche e soprattutto il palazzo-reggia di un certo ex-ciclista, venuto a mancare anni prima per colpa dei molti eccessi. Ne conoscerà l’ultima moglie, detentrice ufficiale della memoria di Jacques. Ne conoscerà l’ultimo figlio, Christopher, mio coetaneo dal volto angelico che, dai racconti, non potrà che starmi sui coglioni, per effetto di una gelosia tanto cieca quanto infantile.
Ora, a cinquant’anni dall’aujourd’hui e a venti dalla crono di Atlanta, io e mio padre abbiamo raggiunto un accordo, negoziando la sostanziale equiparazione del mio Miguel al suo Jacques. Il tutto per sancire una tregua che, almeno a tavola, ha la funzione di salvaguardare per quanto possibile ultimi brandelli di sopportazione di cui mia madre può ancora disporre.

Solo, di norma tra il secondo e il dolce, mio padre non manca occasione di osservare che Indurain, la Vuelta, non l’ha mai vinta, mentre Anquetil invece sì. Che Indurain ha vinto solo delle Parigi-Nizza, ma nemmeno una Liegi. Io posso ribattere citando l’Olimpiade, per cui Anquetil ha rimediato solo il misero bronzo a squadre di Helsinki, nel 1952. Il pareggio si ottiene convenendo sul Mondiale in linea, sfuggito a entrambi per un soffio. Io avrei la tentazione di dire che però, quello a cronometro, Miguel l’ha conquistato, ma so che non reggerebbe, perché è stato introdotto solo nel 1994. E poi, conoscendo chi ho di fronte, dovrei aspettarmi una controreplica: quel Baracchi, nel 1969, Indurain se lo sarebbe sognato.

Mia madre, a quel punto, sa come comportarsi. Alza gli occhi al cielo, e inizia a piegare il tovagliolo.

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