L’eco del Camp Nou nel Cantèr di Zingonia

Crampi Sportivi
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9 min readSep 20, 2016

Modificare anche una sola pietra di Piazza Vecchia a Bergamo avrebbe significato commettere un delitto, sosteneva Le Corbusier. Non aveva tutti i torti, le strade della Bergamo più antica sono piene di storia e di intrighi, di palazzi e di luci che nelle sere più chiare creano panorami di magico stupore lungo le mura. Bergamo è anche la città di Angelo Roncalli a.k.a Papa Giovanni XXIII, di Antonio Locatelli eroe dell’aviazione militare e “leone di guardia” di d’Annunzio, del compositore Gaetano Donizetti e dell’artista Giacomo Carrara.

Nel suo personalissimo roster di personaggi illustri Bergamo può però vantare (per quanto naturalizzato) pure un mago. Un mago che negli ultimi 25 anni si è aggirato vicino ai campi di calcio della sua provincia, appoggiato alle reti che separano il manto erboso dalle tribune. C’è un punto nel colonnato che chiude Piazza Vecchia dove non è difficile scorgere la Cappella Colleoni. Il mago sa che è sufficiente dare le spalle a questo abbraccio storico e percorrere via Gombito per raggiungere il parco della rocca viscontea di Città Alta a Bergamo. Quante volte dall’alto avrà osservato le sembianze dell’Atleti Azzurri d’Italia, fortino calcistico dell’Atalanta e teatro finale in cui ha lasciato scorrere negli ultimi anni le trame del suo mirabolante e strategico lavoro.

Presto o tardi, durante i cigolii e gli alti e bassi del nostro campionato, arriva sempre quel momento in cui la nostra squadra del cuore va a sbattere in trasferta contro i nerboruti pettorali della Dea. Nelle 57 partite giocate in casa nelle ultime tre stagioni l’Atalanta ha ottenuto almeno un punto in 39 partite (ciò significa che quasi il 70% dei risultati utili sono arrivati tra le mura amiche e il dato è ancora più significativo se si considera il peso della difficile stagione 2013–14 con la doppia gestione Colantuono -Reja). Probabilmente al mago questi numeri non interessano più di tanto, è il sistema che conta e Atalanta è sinonimo da anni di un meccanismo che convince e trasuda una solidità di grandissimo spessore.

Proprio l’ultima stagione ha visto il manifestarsi in tutto il suo splendore della doppia lama del sistema atalantino. Gianpaolo Bellini, record-man assoluto (a pari merito con Stefano Angeleri) per presenze nella storia dell’Atalanta e nerazzurro fin dai pulcini, ha salutato l’Atleti Azzurri segnando un rigore contro l’Udinese mentre, qualche mese prima durante il mercato di gennaio, il più giovane Alberto Grassi (classe ’95) veniva ceduto al Napoli per 10 milioni (salvo poi tornare a Bergamo in estate).

Dietro al sipario calato su una carriera storica e i riflettori accesi su un futuro potenzialmente brillante si cela lo zampino di quel mago, riflesso in una delle sue massime preferite:

Il nostro successo è portare un ragazzo in prima squadra.

Il mago è Fermo “Mino” Favini (Meda, 1936), 25 anni trascorsi nel quartiere generale di Zingonia come direttore responsabile del settore giovanile dell’Atalanta e ora tornato a tenere (part-time) le redini del Como, società in cui ha militato come attaccante e dove ha lanciato Borgonovo e Zambrotta prima di ricevere la chiamata di Percassi a Bergamo. Uno dei, se non il, miglior talent-scout del calcio italiano.

Ma non parlategli di cantera, perché a Bergamo c’è solo el cantèr.

Dati alla mano

Cosa ha creato Favini negli anni ce lo raccontano i dati, soprattutto quelli sviluppati e raccolti dal CIES Football Observatory. Nel 2013 uno studio che ha conteggiato i giocatori che hanno trascorso almeno tre stagioni nelle giovanili dai 15 ai 21 anni, colloca l’Atalanta all’ottavo posto nel mondo (e prima in Italia) per numero di calciatori cresciuti nel settore giovanile e impiegati in prima squadra o nelle prime divisioni dei cinque principali campionati europei.

Forse non una novità per chi mastica l’ambiente, ma un risultato clamoroso frutto di quella stessa filosofia che sembra legare le strategie degli orobici alle menti catalane del Barcellona, esempio assoluto e quasi spirituale con quel trittico di primi piatti composto da Xavi, Iniesta e Messi coltivato nell’orticello dietro casa. Nel 2014 l’Atalanta scende di uno scalino e si sistema al nono posto, ma resta sempre la prima squadra italiana, al pari di Arsenal e sopra top club europei come Bayern Monaco, Atletico Madrid, Chelsea e Manchester City.

Nel 2015 la situazione cambia: considerando i 5 principali campionati europei secondo il CIES nello studio Youth training in European football: a comparative Analysis (2015) è il Barcellona ad aver allenato il maggior numero di calciatori (44, tra prima squadra e prestiti) mentre è l’Athletic Bilbao ad aver allenato il maggior numero giocatori tra le file della propria prima squadra (18). L’Atalanta è al 18° posto, ma è la seconda società italiana alle spalle dell’Inter.

Il confronto è però particolarmente sbilanciato: l’Atalanta ha infatti in prima squadra il triplo dei giocatori cresciuti nella propria rosa rispetto ai milanesi, una differenza ancora più forte considerata la sproporzionata tendenza al prestito dell’Inter (dove attualizzando la questione agli ultimi eventi, il Dimarco visto — non solo — agli Europei U-19 sembrerebbe poter garantire un estro più brillante rispetto ai dubbi che la fugace apparizione di Erkin si era portato a Milano, ma qui entreremmo in un’altro dibattito).

A prescindere dalle classifiche e dalle valutazioni la scuola atalantina in Italia è tradizione, sicurezza, crescita e costanza. Basta fare qualche passo indietro e nemmeno troppo lontano per pescare dal pentolone di Zingonia i lanci di Montolivo, le reti Pazzini, l’istinto di Baselli o ancora la favola tecnica di Mimmo Morfeo. Tutti, o quasi, trattati dall’istinto e dalle mani di Favini secondo la logica di un altro dei suoi dogma portanti:

Non creiamo fenomeni, creiamo buoni giocatori.

El Cantèr 1990–2015

La lista dei calciatori lanciati e/o scoperti da Favini è lunghissima e al tempo stesso completa in ogni ruolo. Procedendo in ordine cronologico sparso: Alberto Grassi (CEN), Marco Sportiello (POR), Daniele Baselli (CEN), Davide Zappacosta (DIF — inserito però nel mondo atalantino solo a partire dalla primavera), Manolo Gabbiadini (ATT — cresciuto nelle giovanili dell’Atalanta, prima di passare in compartecipazione alla Juventus e poi alla Sampdoria), Simone Zaza (ATT — maturato nel Valdera, società pisana gemellata ai bergamaschi), Giacomo Bonaventura (CEN) e Tiberio Guarente (CEN) tesserati entrambi a 9 anni nella Margine coperta, succursale satellite atalantina prima di aggregarsi alla DEA nel 1999, Marino Defendi (CEN), Andrea Consigli (POR — atalantino dall’età di 11 anni, prima che il suo passaggio al Sassuolo spalancasse la strada a Sportiello), Daniele Capelli (DIF) per gli amici il “Muro di Grumello” (che vanta oltre 15 stagioni in nerazzurro tra vivaio e prima squadra), la coppia Gianpaolo Pazzini (ATT) e Riccardo Montolivo (CEN), Andrea Lazzari (CEN), Simone Padoin (CEN), Cristian Raimondi (DIF) che con le 100 presenze superate nel 2010 porta fierissimo il suo soprannome CR77.

Ci sono poi Rolando Bianchi (ATT), Inacio Pià (ATT), Gianpaolo Bellini (DIF) che non ha mai lasciato l’Atalanta, i gemelli Damiano e Cristian Zenoni laterali che maturarono le stesse tappe da Zingonia alla prima squadra fino alla Nazionale, Lucianone Zauri (arrivato nel vivaio atalantino nel 1993 e per 6 anni aggregato alla prima squadra) fino a Domenico Mimmo Morfeo (CEN), il fantasista di Pescina che ha vestito i colori atalantini fino al 1997, prima di tuffarsi nelle alte sfere del grande calcio italiano.

Se analizziamo gli ultimi 20–25 anni e ci basiamo sulla costanza e sulla qualità prodotta sui campi da gioco, è possibile creare una squadra di tutto rispetto: un 4–2–3–1 dove la classe di Sportiello tra i pali è sicurezza pura, la coppia di centrali Raimondi e Capelli è affidabilissima mentre Zauri e Bellini, pur senza un talento cristallino, garantiscono polmoni d’acciaio e supporto alla manovra con lunghe sgroppate lungo le fasce. Padoin aggiusta, Montolivo imposta (con la grinta dei primi anni eh).

Baselli, Morfeo e Bonaventura sono invece liberi di fare il cazzo che vogliono, tanto il tempismo e l’istinto rapace di Pazzini può trasformare anche un pallone spedito in rabona all’improvviso in area piccola in un gol sporchissimo, ma sempre utile. A disposizione: Davide Brivio, Marco Motta, Michele Canini, Michael Agazzi, Massimo Donati, Ivan Pellizzoli, Cesare Natali, Samuele Dalla Bona (che tra le altre cose, ha vestito pure la maglia del Chelsea).

Metro indiscutibile per giudicare la qualità di questi giocatori è la presenza di una compilation dedicata su Youtube, rigorosamente accompagnata da colonne sonore dance anni ’90, Nickelback o Santana. Se non hai una compilation, non sei nessuno. Un esempio è la bellissima #themimmoismagic dedicata a Morfeo, anche se forse un po’ troppo Parma-centrica.

Il successo del sistema

Il segreto risiede tutto nell’adottare la crescita come principio ordinatore del sistema. E allora ecco schede di valutazione dedicate ad ogni giocatore per comprenderne miglioramenti e debolezze, inserimento immediato del ragazzo con un tesseramento rapidissimo in giovane età e che spesso e volentieri pesca dalle zone limitrofe della provincia. Un fattore, quest’ultimo, da non sottovalutare nella logica dell’accompagnamento totale e della maturazione, dato che la lontananza dalla famiglia può causare traumi nostalgici e incidere sulle prestazioni.

Un sistema di network di osservatori permette all’Atalanta di prendere calciatori giovanissimi scovandoli in città o sulle Orobie, in Val Seriana e in Val Brembana con l’obiettivo di portarli in prima squadra. Un metodo difficile che negli anni ha però portato risultati eccellenti (ultimi esempi? Melegoni e Bastoni). Una modalità genuina e cristallina di gestire i calciatori, fatta di step successivi che se seguiti senza bruciare le tappe creano ottimi giocatori. Una squadra in Spagna lo fa da tempo, e tralasciando il vantaggio di essersi trovata tra le mani una generazione di fenomeni, qualche trofeo negli ultimi anni l’ha anche vinto.

I Giovanissimi campioni d’Italia 2015–16.

Favini si è affermato come uno dei migliori talent-scout italiani, come tutti ha preso qualche granchio, ma con i suoi collaboratori ha di fatto creato un cristallino modello di gestione del settore giovanile che poggia sulla disciplina e sulla genuinità rendendo il cantèr atalantino uno dei più floridi d’Europa. Serietà, cultura del lavoro e preparazione rendono impossibile sentirsi già arrivati in primavera. Chiedere conferma a Balotelli, non tesserato proprio da Favini per i bergamaschi a causa di quel temperamento svogliato e scontroso che ben conosciamo.

Il calcio italiano spesso preferisce spendere all’estero per il “talento giovane che sembra già pronto” alimentando il fenomeno (non sempre negativo, ci mancherebbe) della globalizzazione calcistica, ma che di fatto va a tappare l’output dei vivai nostrani e nel lungo termine con un effetto domino si riflette sulle possibilità della nazionale.

L’eredità odierna

Il Mago ha creato qualcosa che può e deve essere emulato, la cui eco più recente è arrivata dalle prestazioni di allievi e giovanissimi proprio dell’Atalanta, vincitori entrambi del campionato 2015–16. Ciliegina la vittoria del giovanissimi proprio sulla Roma, altra società che negli ultimi anni ha iniziato un discreto flusso di ricambio di giovani verso la prima squadra (Daniele Verde, trasformato da Montella nei giovanissimi da terzino ad attaccante esterno è l’esempio più recente). Un ricambio che proprio all’Atalanta risulta più difficile ultimamente. Il talento di Cortinovis, il motore di Gyabuaa e l’istinto diretto all’incrocio di Traore fanno però ben sperare, ancora una volta.

L’eredità di Favini si sentirà ancora moltissimo nel nostro campionato. Baselli e Sportiello si stanno consacrando, Grassi non ha esordito con Sarri, ma può esprimersi a pieno regime nel prestito a Bergamo e Bonaventura è stato uno dei pochi punti saldi dell’ultimo Milan sconclusionato. Le trame di Mino si sono fatte sentire anche all’inizio del 2016–17, con l’esplosione mediatica di Franck Kessié, quattro gol e tanta personalità in campo.

Il mago ora è tornato al Como, dove osserva il gioco e dispensa consigli ancora appoggiato alle reti che dividono il campo dalle tribune. Difficile immaginarlo in un posto diverso, sui gradoni di cemento degli stadi di provincia il profumo dell’erba non si sente mica.

Articolo a cura di Mattia Polimeni

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