Lettera aperta ai tifosi di provincia
Dall’accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell’asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero.
Se accettiamo l’iperbole di un mondo di Golia, o presunti tali, ognuno di noi dovrà ammettere di aver vestito la parte dei Davide di turno almeno una volta nella vita. C’è chi quelle vesti non riesce proprio a toglierle e anzi le indossa fieramente ogni domenica.
Questa lettera è rivolta soprattutto a loro, cioè a noi, i tifosi di provincia, di periferia, quelli delle cosiddette “piccole”, alle fiere guarnizioni di quello che è il carrozzone del calcio.
Tifosi di squadre di serie A o di campionati di Eccellenza il concetto non cambia, siamo accomunati dal sapere cosa si prova a giocare nel ruolo di Davide.
Non che vada tutto così male, in fondo il tifoso di provincia ha le sue beatitudini: vive la giornata (di campionato) senza pensare troppo alla classifica, con un occhio a un’avversaria e un orecchio alle prime della classe. Paradossalmente ha la capacità di stancarsi più delle vittorie che delle sconfitte, è un fatto più statistico che umorale, tanto ha l’indole di eterno e romantico sofferente.
In più non sono tanti i tifosi mainstream a poter vantare il fatto di imbattersi settimanalmente, al supermercato o al negozio di videogiochi, in uno dei propri idoli. Stiamo parlando di top player che non girano per la città con la Pagani Zonda parcheggiata in sosta vietata, e che per via del contatto quotidiano col pubblico non sentono chiedersi così spesso foto o autografi.
Il bello del calcio di provincia è che appena uscito dalla doccia e dal campo di gioco, il calciatore diventa una persona qualunque senza stress e pressioni esterne. Le macchine vengono piuttosto usate per chiamare la gente allo stadio, con tanto di striscione e megafono, come un qualsiasi donne è arrivato l’arrotino.
Il fatto che i grandi quotidiani nazionali non parlino quasi mai della tua squadra ti fa risparmiare due euro al giorno, gli acquisti delle sessioni di mercato risultano sempre giocatori per lo più sconosciuti e ti liberano dall’ansia del Pallone d’Oro. Anzi, ogni tifoso nel suo piccolo può diventare facilmente un agente di mercato di categoria, informandosi su giornali locali, analizzando video girati con il Nokia e vivendo la metà della giornata su Transfermarket, imparando all’occorrenza lingue nuove ed esotiche. Tipo l’italiano regionale della Campania, della Toscana o del Veneto.
Se per i fortunati che bazzicano la Serie A lo scudetto potrebbe essere la colonna sinistra della classifica, nelle serie minori il tricolore si conquista in quel minuto e mezzo di servizio del telegiornale locale in cui viene segnalata la promozione della squadra.
Considerando tutto questo, ma chi te lo fa fare di lasciare il tuo stadio da cinquemila posti per andare a al terzo anello di San Siro? Tanto valeva farsi un binocolo. Ma poi perché pagare quaranta euro per una curva all’Olimpico, ché c’è anche la pista di mezzo? Allora, scusa, affitta un elicottero privato.
Non è roba per te, non sei uno da Moma: davanti a te hai un’inusuale opera d’arte di nicchia, e non ci riferiamo strettamente alle gesta tecnico tattiche che avvengono tra i ventidue in campo.
D’altronde è anche una questione di responsabilità, quando sei il padrone di casa. Quando arrivano le super potenze del calcio a casa nostra, non vogliamo sfigurare e ci sentiamo come Brian Clough la prima volta che affrontò il Leeds di Don Revie con il suo Derby County. Nel tragitto casa-stadio il desiderio è sempre lo stesso: rintontirlo con il tuo calore e magari fargli lo scherzetto.
Scherzetto che in alcune circostanze è diventato uno scherzone.
Ricordando solo gli ultimi trent’anni: Verona, Genova, San Sebastián, La Coruña, Montpellier, Calais, Blackburn, le cui popolazione sommate non raggiungono e nemmeno si avvicinano a quella di Milano o Roma.
Province, città medio piccole, che hanno messo a soqquadro l’ordine natural calcistico delle cose, forti di un’assoluta identità territoriale, un’appartenenza a qualcosa che va oltre il rettangolo di gioco, l’orgoglio di essere quasi sempre i deboli di turno.
Se la favola moderna del Leicester City di Claudio Ranieri sta diventando un fenomeno globale non è per moda né per tenerezza, ma perché c’è un esercito mondiale di tifosi di provincia che si rivede in quella squadra, fatta di scarti e giocatori che fino a sei mesi fa erano semisconosciuti, o sconosciuti ai più. Capovolgere il mondo del calcio è l’essenza del calcio stesso, della teoria della competizione vs. le teorie di Darwin, che alla fine aveva anche ragione ma era magrolino, emaciato e non faceva sport. Il vantaggio di essere Davide contro Golia invece è che tra i due sarà sempre il più bassetto a non soffrire di vertigini.
Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo. Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s’infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada. Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa.
O, detto in maniera meno cruenta, gol.