L’insulto nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readJan 29, 2016

Nell’ultima settimana abbiamo assistito a un florilegio di interventi e articoli contro il parlare sguaiato dell’ambiente calcistico: il problema non è naturalmente la volgarità di per sé, ma la volgarità socialmente connotata: “frocio”, “finocchio, “zingaro di merda” sono espressioni non accettabili. Sta bene. Ci mancherebbe. In queste locuzioni è depositata la discriminazione razziale e sessuale con cui, solo negli ultimi anni, ci stiamo confrontando in Italia. Ciò che invece non va bene è credere che l’uso di termini in cui è depositata la discriminazione sia automaticamente, in ogni contesto, rivelatore di posizioni discriminanti e retrograde. Sì, voglio difendere Sarri e De Rossi, e voglio difendere loro non perché mi stiano simpatici o mi abbiano pagato (sinceramente: magari), ma perché credo che vada introdotta, in qualsiasi valutazione degli usi linguistici, un’ulteriore dimensione di analisi: altrimenti tali valutazioni risulteranno, in ogni caso, sbagliate, portando, quindi, a compiere battaglie altrettanto sbagliate.

La dimensione da introdurre è quella contestuale: ogni parola o frase usata in qualsiasi momento non ha alcun significato se non inquadrata nel suo contesto di enunciazione (non lo dico io, ma Malinowski).

Il contesto, a cui generalmente si ascrivono tutti le caratteristiche extralinguistiche che concorrono a dare un significato a quanto viene detto, è determinato da una marea di tratti, che vanno dai più rilevanti (quelli generalmente studiati, come destinatario, numero dei destinatari, copresenza spaziale o temporale, mezzo di trasmissione, ecc,) ai meno rilevanti (oggi puzzo e per questo sono nervoso e un po’ cafone: questi tratti per fortuna non sono generalmente studiati, anche perché risiedono nella mente del locutore). Valutare un uso linguistico senza la dimensione contestuale è come masturbarsi guardando l’ombra di Sasha Grey: non ne esce niente (questo Malinowski non l’ha detto, forse Platone in altri termini).

Pur non sapendolo, questa dimensione l’ha introdotta Sarri, quando si è scusato per il “frocio” urlato a Mancini: “Sono cose da campo che dovrebbero finire in campo”. Non è un atteggiamento omertoso, come qualcuno ha detto, ma una notazione sociolinguistica. Se Sarri avesse studiato un po’ di sociolinguistica avrebbe più propriamente detto: “Riportare in un’altra situazione comunicativa un mio enunciato prodotto fuori da quella situazione comunicativa porterà inevitabilmente a deformarne il significato”.

Pubblico e privato

Le due situazioni comunicative a cui si riferisce il nostro Sarri sociolinguista sono quella pubblica (l’episodio riportato di fronte alle telecamere) e quella privata (l’alterco tra Sarri e Mancini). Sul piano prettamente sociale, la partita di calcio è un evento pubblico: migliaia di spettatori copresenti, milioni di telespettatori in tutto il mondo. Sul piano sociolinguistico, perciò, quasi tutti i discorsi prodotti sono rivolti a un folto insieme di destinatari, variegato e non controllabile: la telecronaca, le interviste a fine partita, le discussioni in studio. Naturalmente, la portata della dimensione pubblica può variare a seconda della lega in cui avviene la partita: meno è seguita, meno è pubblica. Pur essendo un evento pubblico conserva però alcune situazioni comunicative private (la cui natura sarà più chiara tra qualche riga), o altre decisamente liminari: lo spogliatoio, ad esempio, ma anche quello che si dicono i giocatori in campo, se si coprono la bocca, o se non vengono ripresi.

La presenza delle telecamere rende l’evento un evento pubblico, ma ciò non basta a caratterizzare ogni discorso prodotto all’interno della partita come discorso pubblico: infatti, se il contesto determina il significato di un’espressione, anche le espressioni determinano la natura del contesto, in quanto sono gli stessi parlanti a rendere rilevanti o irrilevanti alcuni tratti del contesto (non ho trovato buoni link per spiegare questa cosa, potete provare qua, ma sono 36 pagine, oppure fidarvi di me). In altre parole, affinché un discorso possa considerarsi pubblico, non basta che sia pubblico per i destinatari (i quali, grazie alle telecamere, o a Mancini, possono avere accesso a quello che è stato detto) ma lo deve essere anche per i produttori. Affermando che le cose dette in campo devono rimanere in campo, Sarri ha voluto sottolineare che nell’atto dell’enunciazione non stava dando alcuna valenza pubblica a ciò che stava dicendo. Rimane ora da chiarire se possiamo considerare sullo stesso piano “frocio” detto in un contesto pubblico o “frocio” detto in un contesto privato.

Valutatori e valutati

Come già ebbi modo di scrivere in altre occasioni è imprudente e frettoloso assegnare a una brutta parola un brutto pensiero. Da tale connessione deriva generalmente che chi dica “frocio” sia automaticamente omofobo e retrogrado, che chi dica “zingaro di merda” sia automaticamente razzista, che chi dica “David Foster Wallace” sia automaticamente un hipster. Sono brutte parole, sarebbe bene non usarle, ma (aridaje) non possiamo assegnargli sempre e unicamente lo stesso significato in ogni (cazzo di) contesto. Semplicemente perché non hanno lo stesso significato, anche se sono le medesime, identiche, parole.

In questi casi, la visione appiattita del significato linguistico per me risiede nella grande distanza che c’è tra i valutatori e i valutati: i valutatori (giornalisti, intellettuali e sommi pensatori di Facebook) quando pensano al linguaggio pensano alla lingua scritta, o più generalmente, alla lingua usata in una dimensione pubblica. È proprio con la lingua che lavorano: una lingua misurata e razionalmente dosata, ricca di parole sapientemente scelte tra numerose altre parole, e per questo distintive, marcate e rappresentative; non solo, spesso le parole usate possono essere cancellate o sostituite prima della diffusione del testo (e da quando c’è internet, anche dopo la diffusione del testo): se un giornalista scrivesse “zingaro di merda” parlando di Mandzukic potremmo abbastanza ragionevolmente presupporre che sia un razzista (o che sia fortemente ironico, ma questo dipende da altre variabili del contesto): ha scelto “zingaro di merda” tra numerose altre locuzioni, voleva proprio usare quella, vuole dirci che gli slavi per lui sono zingari e che gli zingari gli stanno sul cazzo (vedi il titolo di Libero: “Bastardi islamici”). Questo non vale naturalmente solo per lo scritto, ma in generale per tutti quei discorsi, anche orali, che vengono definiti “asincroni”: ovvero la cui ricezione avviene in un momento o in un luogo diverso dalla produzione. Ovvio, ci sono molti casi di cui si potrebbe discutere (ma ora non ne vale la pena, credetemi): possiamo però dire che la pubblicità e la programmazione di una parola è direttamente proporzionale alla rappresentatività che possiamo assegnare all’uso di quella parola.

Le persone valutate sono in genere colte nel loro uso orale, o più in generale sulla lingua usata in una dimensione privata: una lingua usata spesso in un contesto sincrono, caratterizzato dalla co-presenza spaziale o temporale dell’interlocutore, che può a sua volta rispondere immediatamente. Questo formato conversazionale botta e risposta riduce notevolmente i tempi di intervento e la possibilità di scelta, riducendo di conseguenza anche la rappresentatività dei termini usati. Nella vita di tutti i giorni ci salva, dal punto di vista sociale, dalla natura evanescente del parlato: potessimo accedere su qualche hard disk a tutte le parole che abbiamo usato nella nostra vita, rimarremmo sconvolti da quante parole sbagliate abbiamo usato.

La possibilità di registrare il parlato, e quindi di poterlo riprodurre, e quindi di poterlo rendere pubblico all’infuori del preciso contesto di produzione, sacralizza di fatto le parole usate, le fissa; l’abitudine a vedere in una parola fissata una parola scelta fa il resto e porta a pensare che quella parola sia stata scelta, sia distintiva, e riveli perciò un preciso significato su quale sia il pensiero dell’interlocutore.

Quando Spalletti, nella conferenza stampa dopo la partita tra Juventus e Roma, interpellato sull’elegante appellativo usato da De Rossi nei confronti di Mandzukic, ha detto: “Gli insegnerò a mettere la mano davanti alla bocca quando parla”, non ha perpetuato la solita omertà calcistica. Se anche Spalletti avesse studiato un po’ di pragmatica e analisi della conversazione avrebbe detto più propriamente: “Insegnerò a De Rossi a non permettere che venga confuso l’originario formato conversazionale e che venga così malintesa la rappresentatività dei propri enunciati”.

Garantismo linguistico

Non ho scritto questo pippone per difendere De Rossi o Sarri, anche se per quanto mi riguarda sono assolutamente assolti: magari sono omofobi e razzisti, ma non è certo per due parole buttate là in una conversazione che lo scopriremo; magari sono stati maleducati, ma sarebbe assolutamente ipocrita ritenerci educati in qualsiasi contesto comunicativo. Quello che più mi interessa è ricordare che, per ognuno di noi, continua a esistere una dimensione comunicativa privata, anche in un periodo storico in cui questa viene spesso confusa con la dimensione comunicativa pubblica. Questo non vale solo per le partite di calcio, vale per le intercettazioni, per le conversazioni privati riportate pubblicamente e per qualsiasi altra situazione in cui veniamo colti, non sapendolo, in comportamenti linguistici che non ci permetteremmo mai di avere conoscendo il contesto in cui andranno a finire; comportamenti spesso costituiti da parole imprecise, nervose e sì, magari pure un po’ cafone, ma a cui non assegneremmo mai la funzione di rappresentare il nostro pensiero.

(I credits del titolo vanno a Diego, a cui devo anche il produttivo scambio e borbottio reciproco da cui è scaturito questo articolo)

Altri articoli di questo tipo li trovate su http://corsolinguistica.altervista.org/

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