L’inutilità dell’All-Star Game

Crampi Sportivi
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4 min readFeb 11, 2016

Non è necessaria la mia persona per confermare quanto negli americani sia insito il senso dello spettacolo, né tanto meno per affermare che all’americano medio fa molto piacere seguire lo sport. Nel punto in cui queste due ineccepibili verità si incrociano nascono degli eventi riconosciuti, forse anche passivamente, in tutto il mondo. Uno di questi è avvenuto negli ultimi giorni ed è stato il Super Bowl, giunto alla sua 50° edizione e vinto dai Denver Broncos sui Carolina Panthers.

È futile sottolineare come tale gara sia diventata anche il pretesto per celebrare la sagra dell’esagerazione, i cui numeri ed avvenimenti sfiorano il paradossale: uno spot di 30“ durante le interruzioni della partita è stato venduto per più di 4,5 milioni di dollari (cifra in crescendo anno per anno), protagonista di uno dei promo di quest’anno è stata lei, si può trovare una Top Ten degli spot commerciali del Super Bowl 2016, fattore che lascia presagire quanto possa essere illimitato il numero di spot appositamente realizzati.

Senza tener conto dell’intervallo del match che è diventato praticamente un festival che quest’anno sul palco ha visto artisti di una fama sconsiderata come i Coldplay, Bruno Mars e Beyoncé.

Il discorso, ovviamente, non può arrestarsi al solo Super Bowl. Wrestlemania, PPV della WWE giunto alla sua 32° edizione — che si svolgerà il 6 aprile dell’anno corrente presso l’AT&T Stadium, casa dei Dallas Cowboys che vanta circa 80mila posti a sedere — ha visto negli anni alternarsi numeri altrettanto sconcertanti e partecipazioni di caratura mondiale, come l’esibizione, nel 2001, dei Motorhead, autori della theme song di Triple H. Per suffragare la considerazione che la WWE sia un’altra macchina da soldi di caratura colossale è sufficiente aggiungere che una buona fetta dei suoi entertainmenter può vantare partecipazioni, seppur oltremodo discutibili, all’interno di pellicole hollywoodiane.

Ovviamente, la National Basket Association, non poteva esimersi da tale “competizione”, ed è così che dal 1951 a cavallo tra febbraio e marzo viene disputato l’All-Star Weekend; ovvero la più grande parruccata mai creata che possa riguardare la pallacanestro. L’All Star Weekend, sebbene sia il più famoso in questa speciale categoria di eventi, non è un’esclusiva della NBA, in quanto viene disputato anche nella NHL o nella stessa NFL.

Che differenza corre tra eventi come il Super Bowl o Wrestlemania e l’NBA All-Star Weekend? Il primo è la finale del campionato NFL, il secondo il massimo evento annuale della propria federazione. L’NBA All-Star Weekend non è una finale, non è una serie di Playoffs. Non è nemmeno una partita, perché non ha lo stesso valore di una qualsiasi partita di regular season. Eppure ha maggiore ascendente, se non delle finali NBA, di una qualunque gara-1 di prima serie di Playoffs o di una partita di regular season. La motivazione è oscura all’umanità. Sì vabbè, i soldi. Tuttavia non entrando questi nelle mie tasche, mi interessa relativamente il discorso economico.

Si può iniziare col dire che non risulta difficilissimo minare la credibilità della sfida tra East Coast e West Coast, massimo evento del weekend in questione. Secondariamente bisogna evidenziare come la sfida tra le due conference sia sostanzialmente la morte del basket, almeno del basket che molti di noi hanno imparato a conoscere e apprezzare.

Durante la visione di una qualsiasi partita NBA molto spesso mi chiedo se i tifosi presenti all’arena, oltre che salutare in modo spropositato l’errore di un tiro libero della squadra ospite, siano consapevoli di quanto dietro buona parte delle azioni di gioco ci sia un lavoro inenarrabile. Ci sia la lettura dell’istante perfetto per eseguire un determinato movimento, ci sia il lavoro di un team infinito costituito dai mai-considerati “addetti ai lavori” e che il risultato, teso strettamente nella dialettica che vede opposte molto semplicemente la palla che entra o la palla che esce, non sia nient’altro che un accidente, destinato però ad entrare in un ciclo che vedrà il proprio termine talvolta nel giro di anni e non nel momento in cui si può capire se è il caso o meno di sventolare la bandierina.

D’altro canto però, la realtà dei fatti è che l’All-Star Game uccide la tattica, di conseguenza uccide “la difesa” e non si risparmia dal lanciare dure sferzate anche alla competitività. Michael Jordan o Kobe Bryant, tra gli altri fattori, sono universalmente conosciuti e apprezzati per la loro eccessiva competitività. È inesplicabile come possa assumere così tanta importanza un evento nel quale ciò che ha permesso a Kobe Bryant di diventare Kobe Bryant sia, se non inesistente, quanto meno molto carente.

Ci si può facilmente opporre affermando come l’All-Star Weekend sia anche e soprattutto campo fertile per giocatori come Russell Westbrook o Blake Griffin, improntati più allo spettacolo che all’utilità… americani, insomma. Tuttavia, intanto è palese come Blake Griffin, principalmente per atteggiamento ma anche per modo di giocare, sia uno dei giocatori più odiati dell’intera NBA. Inoltre, la bellezza orgasmica del rilascio di Stephen Curry o delle scorribande di Westbrook seppur ovviamente residenti nel loro talento, si rivela anche essere la risultante di un grandissimo lavoro oscuro che a sua volta ci ricondurrà a quell’accidente, il quale nel suo insieme determinerà la natura di un giocatore e la natura di una squadra, ma non certo nell’arco di una partita.

All’interno dell’All-Star Game viene esaltato il singolo e può anche essere compreso quel lavoro oscuro accennato sopra, ma non sarà certo messo a disposizione di un reale collettivo, divenendo, in quel caso specifico, fine a se stesso.

Bellissimo, ma fine a sé stesso.

Un esempio: Kevin Hart MVP della partita delle celebrità nell’ASG del 2015.

Articolo a cura di Michele Garribba

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