Lisbona-Atene, dieci anni dal miracolo
È passato un decennio dalla notte nella quale la Grecia venne incoronata campione d’Europa. Questo è il racconto di quel cammino leggendario, condensato in un mese di una calda estate del 2004. Un’impresa senza precedenti e (forse) senza futuro, tra un catenaccio ellenico, le lacrime di Cassano e la disperazione di un giovane Cristiano Ronaldo.
In latino, la parola miraculum significa “cosa meravigliosa”. Cosa c’è di più meraviglioso degli underdogs, di coloro che affrontano le difficoltà nonostante il fato li pronostichi sfavoriti? Spesso avremmo voluto che certe formazioni scalassero vette inimmaginabili, anche se il più delle volte l’esito è risultato negativo. Perché la regola evoluzionista del pallone è semplice: 99 volte su 100, il più forte vince. Ma è proprio in quella volta in cui non succede che ti innamori di questo sport.
Quella volta accade dieci anni fa, in una serata di luglio al “Da Luz” di Libsona. Un teatro che l’Italia non vede, visto che gli Europei di calcio son già finiti per i nostri: è stata una rassegna deludente, siamo usciti nei gironi per il famoso “biscotto” scandinavo. O forse perché non siamo stati in grado di battere né la Svezia, né la Danimarca, nonostante la nazionale con il potenziale tecnico più devastante degli ultimi anni. C’è un’immagine — quella di un Cassano sconsolato dopo aver segnato il 2–1 alla Bulgaria — che rappresenta bene il nostro Europeo di quel 2004. Dopo due pareggi contro le scandinave, l’Italia rimonta contro la Bulgaria e vince l’ultima partita del girone. Ma i gol di Perrotta e di Cassano non bastano: quando il barese va verso la panchina per abbracciare i compagni, gli dicono che Svezia e Danimarca hanno pareggiato. Il sorriso del fantasista sparisce e non resta che spazio per le lacrime: passano Svezia e Danimarca, per la miglior differenza reti.
Quella manifestazione è deludente per molte squadre. La Spagna e la Germania escono ai gironi, come noi. Le Furie Rosse sono forti, ma come al solito si perdono e vengono eliminate dai padroni di casa. I tedeschi, vice-campioni del Mondo appena due anni prima, non riescono a vincere nemmeno una gara: il 2–1 subito da una Repubblica Ceca già qualificata rappresenta il punto più basso del calcio tedesco negli ultimi anni. Anche l’Inghilterra è vittima del Portogallo padrone di casa: la nazionale dei Tre Leoni maledice ancora i rigori per l’ennesima beffa, dopo aver vivacchiato come al solito. Ricardo, portiere dei portoghesi, prima segna un rigore, poi ne para un altro senza guanti: era destino. La Turchia, terza all’ultimo Mondiale, manco ci arriva all’Europeo, eliminata dalla Lettonia agli spareggi. Sembra la volta buona per i padroni di casa del Portogallo, guidati da quel vecchio volpone di Felipe Scolari.
Invece, all’orizzonte, spunta la Grecia. Gli ellenici tornano a un grande torneo a dieci anni dal fallimentare Mondiale americano, dove la Grecia perde tutte le gare e non racimola neanche un punto. In quel torneo, l’unica cosa per cui ti viene in mente la Grecia è il gol di Maradona e la conseguente esultanza da pazzo. Stavolta, invece, la nazionale ellenica può contare su una difesa solida (la terza meno battuta delle qualificazioni). La Grecia è riuscita anche a vincere il proprio girone di qualificazione, costringendo la Spagna agli spareggi. Ai sorteggi dei gironi è in quarta fascia e una sua vittoria è data in quote tra gli 80 e i 150 a uno. Insomma, ci vuole un miracolo.
E quale miglior uomo per un miracolo se non Otto Rehhagel? Il tecnico tedesco è stato colui che ha trasformato il Werder in una superpotenza negli anni ’80 e ’90, l’uomo della vittoria in Bundesliga con il neo-promosso Kaiserslautern. È alla guida della Grecia dal 2001, ma il suo stile di gioco — da sempre offensivo e veloce — non sembra essere adatto alla squadra ellenica. Che problema c’è? Lui si adatta. A chi lo critica per il gioco noioso e difensivo, lui risponde che un allenatore deve prima di tutto adattare la tattica alle caratteristiche dei giocatori disponibili.
Rehhagel non si smentisce: baricentro basso, squadra corta e una ragnatela a centrocampo grazie al lavoro oscuro di Katsouranis (mediano, ma gioca da ala destra) e del capitano Zagorakis. Basinas disegna traiettorie straordinarie con il suo piede, con tre centrocampisti puri dietro l’unica punta: questa varia tra l’operoso Vryzas e il promettente Charisteas. Insomma, l’elogio della difesa, che vede una linea a quattro, con spesso Dellas che arretra il baricentro di un dieci metri e si stacca come libero. Inoltre, parlano le statistiche delle partite che la Grecia disputa in quell’Europeo. Alla voce “tiri totali” e “possesso palla”, la squadra di Rehhagel è sotto in tutte e sei i match che gioca in quella rassegna. Inoltre, in media, la Grecia sarà 15° nelle graduatorie di tiri per gara e possesso palla (solo la Lettonia dietro).
Se l’organizzazione è il mantra di quel manipolo di giocatori, la fortuna gli dà anche una mano. Alla prima, vincono per 2–1 contro il Portogallo padrone di casa. Karagounis, che in Italia fa la panca all’Inter, è l’eroe-copertina: dopo pochi minuti prende palla, corre sicuro e sgancia un bel destro dal limite per il vantaggio greco. Nulla da fare per Ricardo. Poi nella ripresa Basinas arrotonda il risultato su rigore, prima che CR7 si faccia conoscere con il suo primo gol in un torneo internazionale. Nella gara successiva, la Grecia pareggia con la Spagna in rimonta per 1–1: al gol di Nando Morientes, risponde — un po’ a sorpresa — Angelos Charisteas, che uccella Casillas in uscita. A questo punto, basterebbe un punto nell’ultima gara, ma la Grecia va sotto per 2–0 contro la già eliminata Russia. Con i gol di Kirichenko e Bulykin sembra finita, ma la rete di Vryzas riaccende la speranza. Nel finale, i greci rischiano: una palla-gol per Kirichenko fa tremare Zagorakis e compagni, ma l’attaccante del CSKA Mosca sbaglia clamorosamente. Una migliore differenza reti rispetto agli iberici regala alla Grecia il passaggio del turno da seconda.
Ai quarti di finale, c’è la Francia. Che ha appena strapazzato nel suo gruppo l’Inghilterra e vede un Zidane in formissima. La delegazione greca è così sicura di uscire che ha già disdetto l’albergo e prenotato l’aereo di ritorno per Atene. Malfidati. La capocciata di bomber Charisteas nella ripresa, invece, regala la semifinale alla Grecia, che diventa la prima formazione ad aver battuto in un Europeo sia i padroni di casa che i campioni uscenti. Il sogno sembra finito lì, anche perché in semifinale c’è la Repubblica Ceca. Lasciatemelo dire: quella nazionale di Brückner — l’unica ad aver vinto tutte le partite fino a quel punto del torneo — forse meritava qualcosa di più dalla storia. Ma come abbiamo già detto, la fede e i miracoli non si possono battere. E così una traversa e i salvataggi di Nikopolidis portano la gara ai supplementari.
Poi un altro miracolo del calcio irrompe in quella gara: il silver goal. Il golden goal — o sudden death — è stata la tortura di molte nazionali nei supplementari, ma ha lasciato spazio alla sua formula più light. Funziona così: il gioco non si ferma quando segna una delle due squadre, bensì si termina almeno il tempo supplementare che si sta giocando. Ma Traianos Dellas segna su corner il vantaggio della Grecia. Tutti festeggiano come se fosse finita. Eh già, perché era l’ultima azione del primo tempo supplementare: un silver goal che vale oro.
Nessuno avrebbe puntato un euro sul fatto che Portogallo e Grecia si sarebbero re-incrociate nel corso dell’Europeo. È la prima volta che il match di apertura di una rassegna coincide con quello di chiusura. Non solo: chiunque vinca, sarà per la prima volta campione d’Europa. In Portogallo c’è fibrillazione: la nazionale ha giocato bene, Scolari è un vincente. Non ci sono dubbi sulla vittoria. Eppure, in quel 4 luglio, succede un’altra volta l’incredibile. La solita gara da parte della squadra di Rehhagel: la Grecia abbozza, soffre, ma resiste. Quando arriva il momento giusto, colpisce con Charisteas al 57’: un’incornata su calcio d’angolo che mette fuori gioco l’intero Portogallo. Scolari si gioca le carte Rui Costa e Nuno Gomes, ma la sua squadra non sfonda. CR7 ha diverse occasioni, ma deve scontrarsi con l’imprecisione da gioventù sfrenata. E un Nikopolidis in serata di grazia. Al fischio finale, le lacrime della generazione d’oro del calcio portoghese fanno da contraltare alla sfrenata gioia della Grecia di Rehhagel, campione d’Europa dopo aver effettuato, in finale, un unico tiro in porta.
Theodoros Zagorakis, capitano di quella squadra, viene eletto MVP del torneo. Nella top-11 di quell’Europeo ci entrano anche Dellas e Seitaridis. C’è anche chi chiude in bellezza: Demis Nikolaidis, uno dei migliori bomber della storia greca, decide di ritirarsi dal calcio a 31 anni da campione d’Europa. Dopo la vittoria, Rehhagel diventa il primo coach straniero ad aver vinto un Europeo. La Germania, reduce da un torneo disastroso, lo vuole per allenare la nazionale in vista del Mondiale casalingo del 2006. Il tecnico, da personaggio romantico del calcio qual è, rifiuta l’offerta e rimane sulla panchina greca fino al 2010. Si dimette nel 2010, ma rimane uno dei personaggi più amati nella storia dello sport greco. Una vittoria talmente importante da far passare in secondo piano — nell’estate 2004 — le Olimpiadi, che si svolsero proprio ad Atene.
Un miracolo che ha forse origini difficili da spiegare. Non si può spiegare unicamente con le tattiche, le statistiche, i numeri o la razionalità. Ci vuole un po’ di fede, fortuna, “culo”: insomma, puro esoterismo. Come disse una volta Ludovic Feuerbach:,“il miracolo scaturisce dal sentimento e finisce nel sentimento. Il modo stesso in cui è narrato rivela questa sua origine. La narrazione che gli si conviene è soltanto la narrazione sentimentale”. E forse, a distanza di dieci anni da quella notte di Lisbona, ci sentiamo tutti un po’ più romantici.
Gabriele Anello è un presunto giornalista. La Roma ha Gervinho, l’Inter ha Jonathan, a noi è toccato lui @nellosplendor