L’odio è fragile come l’amore

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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4 min readSep 12, 2016

Di cosa parliamo quando parliamo di calcio israeliano?
La squadra che abbiamo visto giocare contro gli azzurri nella prima partita delle qualificazioni per i mondiali di calcio 2018 è sembrata poca cosa sul rettangolo verde, e sembra difficile pensare che possa aspirare alla conquista di un posto nelle fasi finali del prossimo mondiale. Gli stadi israeliani potrebbero apparire un po’ naif per i tifosi europei, il pubblico non è molto numeroso e il confronto con il formidabile campionato di pallacanestro addirittura impietoso. E tuttavia. Il legame tra tifosi e valori costitutivi della società sportiva pare molto più forte che altrove; dirigenza, squadra e tifoseria tendono ad essere omogenee e a condividere un legame sportivo-culturale fortissimo.

In Israele lo sport nasce prima del Paese stesso: le prime organizzazioni sportive sono realtà europee che accolgono atleti di religione ebraica, visto che molti club non permettono l’iscrizione di ebrei. Una volta costituito e stabilizzato il Mandato Britannico sulla Palestina si manifestano chiaramente le filosofie e i modelli organizzativi con cui le associazioni sportive ebraiche si sono coagulate in Europa, prime tra tutte le Maccabi (riferimento al singolo appartenente ai Maccabei, storicamente simbolo ebraico di coraggio, successo e vittoria), che affondano le proprie radici nella tradizione liberale ebraica e sono dunque legate — in origine — agli strati più popolari. Questa sorta di base comune rimane esclusivamente ideale: esiste un organo centrale che organizza competizioni tra i vari Maccabi sparsi per il mondo, ma le squadre rimangono indipendenti l’una dall’altra e la connotazione liberale dei Maccabi israeliani si è andata via via assottigliando, lasciando il posto a una cultura sportiva meno rigida.

Un esempio calzante è la distanza politica che c’è tra il Maccabi Tel Aviv e il Maccabi Haifa: il primo fa il verso alle più becere curve europee con tanto di polemica per un tristemente noto “Refugees not welcome”; il secondo è uno dei club dove i supporter di religione musulmana sono maggiormente integrati.

Quando nacquero gli Hapoel c’erano ancora gli Inglesi. Il simbolo comune a tutte le squadre è un uomo che indica a sinistra una falce e martello, il colore sociale è il rosso Armata Rossa. Il nome Hapoel si traduce come “l’operaio”. Fedeli alle loro origini, i tifosi dell’Hapoel Gerusalemme, in polemica con la gestione societaria, nel 2007 hanno costituito l’Hapoel Katamon Gerusalemme F.C., una squadra genuinamente Hapoel, la prima ad azionariato popolare nel Paese, famosa per essere sostenuta in uguale misura da arabi musulmani e da israeliani.

Mentre Hapoel e Maccabi sono due modelli organizzativi, il movimento Beitar è una vera ideologia politica. Si tratta del movimento giovanile di estrema destra che sostenne il partito Herut e le sue tesi di nazionalismo e totale separazione (se non esclusione) dalla minoranza musulmana.
La squadra che conserva questi valori è l’omonima Beitar Gerusalemme, di cui è tifoso il presidente Netanyau. Mentre il calcio israeliano dimostra grande apertura verso l’integrazione con i palestinesi, il Beitar rimane il fiero baluardo della destra più xenofoba. Per intenderci: tutte le squadre israeliane hanno tesserato almeno una volta un giocatore musulmano, la squadra di Gerusalemme ha sempre rifiutato questa ipotesi. Non mancarono, da parte della dirigenza, alcuni tentativi: Ndala Ibrahim, Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev sono i tre calciatori che avrebbero potuto segnare una svolta. Nel primo caso, il giocatore nigeriano dovette scappare dal club di sua “spontanea volontà”; i due calciatori ceceni invece, furono accolti dagli ultras gialloneri (chiamati laconicamente “la Familia”) con uno striscione che recitava “Il Beitar rimarrà puro”. Per convincere la dirigenza a lasciare andare i due russi, la Familia incendiò parte delle strutture di allenamento.

Naturale, dunque, che avversari diretti del club di Gerusalemme siano l’Hapoel Tel-Aviv e il Bnei Sakhnin. La prima è considerata una delle tifoserie più politicamente a sinistra del panorama calcistico europeo: i suoi tifosi sono in stretto contatto con quelli del San Pauli (mitica squadra antifascista di Amburgo) e la dirigenza promuove l’integrazione con gli arabi sia nel campo che sugli spalti, rendendo il club molto popolare nella comunità musulmana cittadina.

Il Bnei Sakhnin (Figli di Sakhnin Uniti), rappresenta invece un caso unico nel panorama sportivo: dirigenti e presidente sono di religione ebraica; i tesserati sono tanto israeliani quanto palestinesi (anche se con una netta prevalenza di questi ultimi); il pubblico è in maggioranza musulmano.

E non è tutto: esistono rapporti di amicizia che legano i sostenitori del Bnei Sakhnin alle tifoserie israeliane più aperte culturalmente, e le frange più dure del tifo convivono in totale armonia con una proprietà e una dirigenza genuinamente israeliane, quella stessa dirigenza che si è fatta finanziare, tuttavia, il nuovo stadio dall’araba Doha Foundation. Tra contraddizione e compromesso si disegna dunque il futuro di un territorio in grande trasformazione. E lo sport fa, come sempre, da esperimento sociale.

[1] Il territorio che inglobava tutta l’attuale Israele e Palestina, controllato dai britannici tra il 1920 e il 1948.

Articolo a cura di William Valentini

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