Logopedia 2 — Stemmi calcistici ancora più cool

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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8 min readOct 8, 2015

Ricordate il canguro in Boemia? Roba superata. Dopo che — in una sequenza che sarebbe risultata ardita persino in un pezzo del primissimo Battiato — abbiamo visto con i nostri occhi alcuni ippopotami passeggiare per le strade di Tbilisi, sul ponte di questa rubrica potrebbe tranquillamente sventolare bandiera bianca. La realtà ha stravinto, e a noi estimatori di accostamenti bizzarri e apparentemente nonsense forse resta ben poco da aggiungere.

Ma quel poco può comunque rinfrancar lo spirito, quantomeno più delle vignette delle ultime due pagine della Settimana Enigmistica. Allora abbiamo deciso di farlo di nuovo: siamo tornati a selezionare per voi loghi pazzi e disegni improbabili, opere di grafici incompresi e piccoli capolavori d’arte moderna. Insomma, stemmi calcistici molto cool. Rieccoli.

La fattoria degli animali

Bestie, si diceva. Leoni e grifi sono protagonisti imprescindibili dell’araldica da sempre, si sa. Meno ovvia è la scelta di identificarsi, chessò, in un gallo. A Bari, nel 1928 (molto prima che fosse concepito l’attuale restyling) fu lanciato un sondaggio tra i tifosi per decretare un degno soprannome per i calciatori biancorossi: galletti ebbe la meglio su aquilotti, scoiattoli, gazzelle, pettirossi e passerotti (i passerotti pugliesi, ma ci pensate?).

A Kashima, invece, poche storie: il nome della città si traduce come “isola del cervo”, e quindi nel logo della squadra più vincente del Giappone compare un bel paio di palchi. Aggiungeteci la scritta Antlers con un bel font anni ’80, ed ecco fatto.

Il Xoloitzcuintle è un cane dolce ed allegro, divertente e paziente. Nella mitologia tolteca era il cane del dio Xolotl, quello che accompagna i morti nel mondo sotterraneo. A Tijuana, tra un omicidio e l’altro, nel 2007 è stata fondata una squadra che ha un cane nudo messicano nel nome e nello stemma. Due anni fa gli Xolos hanno vinto il campionato (e oggi tra le loro fila milita nientemeno che il grandissimo Juan Arango).

Si fa un po’ più di fatica a figurarsi un branco di tigri selvagge nella Zelanda del Nord, Danimarca. Ma il Nordsjælland è nato dalla fusione di due squadre, una gialla e una rossa, e i nuovi proprietari volevano segnalare il netto contrasto rispetto al vecchio presidente, finito in carcere per corruzione. “Ci rappresenterà una tigre che brama un pallone, e ci faremo chiamare Wild Tigers.” Ok, allora.

Lo scudetto che fa sbroccare Batman

Il pipistrello del Valencia è talmente cool da meritarsi una piccola divagazione storica. Giacomo I d’Aragona era un tipo sveglio, ma così sveglio che a dieci anni fu proclamato maggiorenne. Rimasto presto orfano, i cavalieri templari si occuparono di forgiare il carattere del condottiero che — senza troppa fantasia — sarebbe stato ricordato come el Conquistador. Dopo aver strappato le Isole Baleari ai Mori, il 2 ottobre del 1238 entrò trionfante anche a Valencia: quel giorno, un pipistrello — proprio lui — decise di atterrare su uno dei vessilli aragonesi. Il sovrano lo prese come un buon segno, e stabilì che il mammifero sarebbe diventato simbolo ufficiale della città.

Ecco allora che un murciélago sovrasta pure lo scudo giallorosso del Valencia Club de Fútbol. Bello. Elegante. Unico. Non troppo originale, però, almeno secondo i simpaticoni della DC Comics. L’anno scorso gli editori americani hanno citato in giudizio la squadra valenciana che, a loro dire, userebbe indebitamente un simbolo che richiama troppo da vicino quello del loro eroe di maggior successo, Batman. Come già accaduto a Victoria Beckham, che nel 2002 aveva cercato di impedire al Peterborough di registrare il proprio nickname (‘The Posh’, proprio come il suo nome da Spice Girl), la giustizia si è fatta beffe delle loro pretese. D’altra parte il glorioso pipistrello sorveglia Valencia ormai da diversi secoli, mentre il buon Bruce Wayne ha cominciato a farsi vivo solo nel 1939.

Lo scudetto che mettiamoci un pandoro sopra

Le amichevoli Brigate Gialloblù dell’Hellas Verona non hanno adito nessuna via legale. Nel 2011 hanno però diffuso un eloquente volantino con cui invitavano il presidente Luca Campedelli a lasciar perdere i riferimenti a Cangrande della Scala nel logo del suo Chievo. L’hanno fatto in modo gentile. Beh, più o meno. “Lascia stare ciò che mai potrà appartenere né a te né a chi ha scelto il tuo gioiello per vedersi in comodità i campioni del gioco del calcio”; “Non azzardarti! Non azzardarti a fare soltanto un altro passo in avanti! Noi siamo un popolo mai domo”; “Molla la Scala, mollala prima che cominci a scottarti tra le mani.” E lui: “Verona è anche la città del Chievo. Ci sono alcune foto di cinquant’anni fa in cui già si vede la Scala sulle nostre maglie.” Preciso e puntuale, come un lancio in profondità di Eugenio Corini.

Lo scudetto che prende vita

Ufficialmente i due colori sono pino giallo e muschio. Verde, in ogni caso. Al centro, un’ascia gigante esalta perfettamente la tradizione boscaiola di Portland e dintorni (timber vuol dire legno): a ovest della Catena delle Cascate, l’80% del territorio dell’Oregon è ricoperto da foreste.

Siccome siamo in America, i simboli non sono buoni solo per essere stampati su maglie XL e thermos da caffè. I simboli qui devono avere la terza dimensione. A bordo campo, in ogni partita casalinga dei Timbers, è appostato Timber Joey, che è un uomo in carne ed ossa ed è armato di motosega. Erede del leggendario Timber Jim, ad ogni gol segnato dai padroni di casa Joey taglia via un pezzo di legno da un tronco preparato per l’occasione. Il round così ottenuto viene consegnato al termine del match a ciascun marcatore. Anche grazie a Timber Joey, Providence Park è lo stadio più caldo della MLS. Registra sold out da oltre 70 partite consecutive. In pratica, sempre.

Lo scudetto che ci si sputa su

Sul Royal Mile di Edimburgo, nei pressi della cattedrale di St. Giles, qualcuno sputa su un mosaico a forma di cuore. Porta bene, dicono oggi. Un tempo però lo sputo era solo un gesto di disprezzo: il mosaico sorge nel punto esatto in cui avvenivano le esecuzioni pubbliche all’interno dell’Old Tolbooth, palazzo di giustizia e carcere cinquecentesco. L’edificio era anche noto come Heart of Midlothian (era il centro geografico dell’antica contea di Midlothian) e proprio con questo nome fu eternato da Walter Scott in una delle sue Waverley Novels.

Nel 1817 l’edificio fu abbattuto, ma poco tempo dopo un club di danza cominciò a farsi chiamare con il nome del sinistro palazzo medievale, nel tentativo di richiamarne le leggende e gli echi letterari. Quando — nel dicembre del 1873 — alcuni membri dell’Heart of Midlothian Dancing Club decisero di comprare un pallone, iniziò la storia della squadra protestante di Edimburgo, quella col cuore come logo.

Lo scudetto che lo espongono nei musei

Francisco Rebolo Gonsales, più noto come Rebolo, era uno dei maggiori esponenti dell’Art Nouveau brasiliana: oltre tremila dipinti tra ritratti, nature morte e paesaggi. Un giorno gli fu chiesto di ridisegnare il logo del Corinthians, la squadra di cui aveva fatto parte in gioventù, come riserva. Conservò al centro la gloriosa bandiera paulista — che aveva resistito agli anni del centralismo dittatoriale di Getulio Vergas — e decorò lo scudo con due remi e un’ancora, riferimenti ai successi della polisportiva negli sport nautici.

Oggi, le opere di Rebolo sono esposte nei più importanti musei brasiliani, e fanno parte di cataloghi di prestigiose associazioni culturali e di ricche collezioni private sparse nel Sud America. Il più famoso dei suoi capolavori è ricamato sulle divise del primo clube popolar di San Paolo, che nel frattempo è diventato una delle squadre più vincenti di tutto il Brasile.

Lo scudetto che fatalisti è bello

Quando le cose non vanno benissimo in campo, i tifosi di Doetinchem non si incazzano più di tanto. Cominciano a cantare attamottamotta, che significa qualcosa tipo “se deve andare così, che vada così”. Si fanno chiamare Superboeren (i super-contadini), e supportano una delle squadre con più tradizione d’Olanda.

Il De Graafschap (alla lettera, “la contea”) è stato fondato nel 1954 e a quasi sempre militato in Eredivisie, ma non ha mai vinto niente di niente. Guus Hiddink, che ha iniziato ad allenare lì, assicura comunque che fare calcio a Doetinchem “è eccitante”. Non a caso, la mascotte del club — una zebra — è stata rinominata Guus, in suo onore. Il logo, poi, è un capolavoro. Il font della G e la scelta cromatica riescono a trasmettere in pieno la leggerezza e la serenità connaturate al club, e siamo certi che funzionerebbe benissimo anche come insegna di un placido coffee shop del centro.

Lo scudetto che… Britpop!

Lo soprannominarono Chincha Guluva, che con un po’ di fantasia si può tradurre con “uno capace di fare movimenti improvvisi e inattesi”. Kaizer Motaung, attaccante di Johannesburg, ubriacava i difensori avversari senza mai lasciare che il pallone si staccasse dal suo magico sinistro. Verso la metà degli anni Sessanta andò a giocare negli Stati Uniti, prima a Orlando e poi ad Atlanta, dove i locali si facevano chiamare Chiefs. Tornato in patria, il Chincha decise di mettersi in proprio fondando un team in cui si riconoscessero due identità: la propria e quella dell’amato club americano. Nacque il Kaizer Chiefs Football Club, con l’iconico indiano d’America al centro del logo.

I Chiefs divennero presto punto di riferimento del calcio sudafricano, riuscendo a far crescere, negli anni Novanta, una manciata di talenti assoluti. Il più famoso di tutti è senza dubbio Lucas Radebe. Di lui, Nelson Mandela disse un giorno “È il mio idolo.” Radebe divenne un’icona anche leggermente più a nord di Johannesburg, precisamente a Leeds, dove una giovane band britannica si fece ispirare da lui nella scelta del proprio nome d’arte. Pochi anni dopo, i Kaiser Chiefs nel loro brano più famoso cantavano un verso sinteticamente perfetto: “Let it never be said that the romance is dead.”

Lo scudetto che melius abundare

Un’intera costellazione. Una piccola galassia. Un arcipelago luminoso. Il logo del Club Deportivo Oriente Petrolero di Santa Cruz, in Bolivia, è abbellito da ben sedici (!) astri. A occhio e croce, è una specie di record. Cinque stelle sono interne, e rappresentano gli altrettanti campionati vinti; per le undici stelle esterne non esiste una spiegazione ufficiale. Potrebbero essere un banale riferimento al numero dei componenti della squadra, o piuttosto una più originale esaltazione delle undici volte in cui la squadra è arrivata seconda.

È chiaro che in un logo così tutto il resto passi in secondo piano, a partire dai riferimenti all’origine del club, fondato nel 1955 da un gruppo di operai della compagnia petrolifera nazionale boliviana. In tema di oro nero, va detto che il grafico dell’Oriente avrebbe potuto combinare qualcosa di molto, molto peggiore: guardate cos’ha fatto il suo collega del Club Petrolero di Yacuiba, sempre in Bolivia. Ecco, noi ricordiamo Clip Art decisamente più accattivanti.

Lo scudetto che gli scrivi una letterina

Vabbè, alla fine tutto quello che avete letto finora non era altro che un panegirico, pensato esclusivamente per intrattenervi nell’attesa di rivelarvi questa bellezza che arriva da Rovaniemi, Finlandia. Dove l’FC Santa Claus, con tanto di attivissimo Babbo Natale in primo piano, è stato appena promosso in Seconda Divisione.

Ho Ho Ho.

(La prima seduta di Logopedia è recuperabile qui.)

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