Los hombres del día

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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47 min readJan 10, 2017

Copertina di Fabio Imperiale

Gli invasori ci guardarono sempre meno minacciosi, ormai il gioco divertiva loro quanto noi, tanto più che tutti i calciatori nominati fino ad allora, così come quelli che avremmo nominato da lì innanzi, sarebbero stati prelevati dalla loro linea temporale di massimo splendore e portati su Proxima Centauri. Voglio dire, con quello che gli stavamo regalando ci sarebbe voluto del malanimo a continuare con la linea dura, con l’asprezza e la misantropia.

Ci chiesero se ci fosse un Paese piccolo che in rapporto alle sue dimensioni ridotte avesse donato al Gioco un altissimo numero di atleti, significativi per la storia del pallone.

A noi venne subito in mente l’Uruguay, ma specificammo che quella terra poteva essere velluto così come poteva essere roccia, e ancora leggiadria, e ancora sangue.

I ragazzi di Proxima Centauri ci guardarono con l’aria di chi sta rimestando dell’acquolina in quella che impropriamente avremmo potuto definire la loro bocca. E riprendemmo il nostro racconto, per non fargli perdere la pazienza. In fondo erano loro quelli col Nullificatore in mano.

***

Episodio 8 — Gli uruguagi

Juan Alberto Schiaffino

Il Sudamerica “ha la genialità di uno Schiaffino” cantava Paolo Conte. Pepe, il soprannome che gli ha dato sua madre per un carattere fin troppo vivace e gli resta attaccato come un ritratto per tutta la vita, nasconde geni liguri. Figlio di una casalinga e di un impiegato dell’ippodromo di Montevideo, risparmia ogni centesimo e passa in Svizzera i lunedì di riposo quando gioca in Italia per speculazioni finanziarie. “Se fosse presidente, dipingerebbe la pelle dei giocatori di rosso e nero per risparmiare sulle magliette” ironizzerà Rizzoli. Quando è arrivato al Milan per 52 milioni di lire, alla vigilia della Copa Rimet del 1954, un giornale di Montevideo titola: “Il Dio del pallone ci ha lasciato”. Un dio che quattro anni prima feriva un’intera nazione nella notte del Maracanazo, gol e assist a Ghiggia per un trionfo annunciato trasformato nella tragedia del portiere Barbosa e del Brasile intero. Un dio che nell’era dell’innamoramento per gli oriundi illuminerà il campionato in rossonero. “Forse non è mai esistito regista di tanto valore”scriveva Gianni Brera. “Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d’istinto”. C’è anche lui in campo, in azzurro, a Belfast contro l’Irlanda del Nord. Con il Milan, Schiaffino vince tre scudetti e una Coppa Italia, poi si trasferisce alla Roma, attirato da un ingaggio d’oro. Impone la presenza della moglie Angelica, si reinventa “libero scientifico” poi torna a vivere a Rio della Plata. Col genio del Sudamerica dentro al cuore.

Alcides Ghiggia

Per quello che ho potuto vedere Ghiggia era un giocatore grigetto, con pantaloncini bianchi, maglia grigia con bordi bianchi e baffetti grigi come i capelli. Dentone, con questi due incisivi sporgenti bianchi, si muoveva con movimenti rapidi ma ridicoli, a scatti: almeno questa è l’impressione che ho avuto in tutti i video che ho visto. Del resto era un’epoca in cui tutti i giocatori si muovevano così, correndo come se stessero scappando dai poliziotti col manganello, cadendo in terra come scivolati sulle bucce di banana, colpendo di testa come con le torte in faccia. Con quella faccia da sparviero del cinematografo, Ghiggia era proprio un emblema di quel tempo. Poi vabbè fu pure incarcerato per aver messo incinta una 14enne, ma si sa che nel passato l’età media era bassa tipo Alessandro Magno a 30 anni era già vecchissimo e aveva fatto un sacco di cose.

Daniel Fonseca

Anche Daniel Fonseca, come tutti i migliori calciatori della Celeste, era un dentone. È strana questa cosa che gli uruguagi alla fine sono mezzi brasiliani, mezzi argentini, mezzi italiani, e per superare il senso di inferiorità rispetto a quelli l’unica variazione genetica che sono riusciti a ottenere sono i dentoni. Voi ci chiederete: perché? Beh, ma è facile: sentendosi inferiori di bellezza rispetto agli argentini, di altezza rispetto ai brasiliani, di eleganza rispetto agli italiani, hanno passato migliaia di anni a rosicare. A forza di rosicare, la natura ha selezionato gli individui migliori per questa attività, cioè gli incisivi belli grossi. Questa cosa vale ancor più per Fonseca, che nonostante il passaggio alla Juventus nel momento dove alla Juventus era di moda trasformare geneticamente i calciatori, tutto si riuscì a fare a Fonseca (collo due volte più grande, cosce anabolizzate, bicipiti che gli impedivano la chiusura delle braccia, addominali scolpiti), tutto tranne ridurgli quei dentoni che alla fine lo facevano diventare pure simpatico.

José Nasazzi

El Mariscal José Nasazzi conservava già nei tratti somatici i crismi del caudillo: ogni sua foto — il volto austero segnato dalle rughe dell’uomo rude ma, in fondo, dal cuore d’oro, con lo sguardo fiero e agguerrito di chi si sarebbe arreso per ultimo, rendendo cara la pelle — era perfetta per il passaporto del leader conclamato. La sublimazione del concetto di garra immortalato in un dagherrotipo.

È il primo in piedi da sinistra: col fisico da brigadiere riprende un compagno reo di non salutare la telecamera.

Con la fascia da capitano della Celeste, ha guidato l’Uruguay più vincente di tutti i tempi al trionfo plebiscitario di due Olimpiadi consecutive e del primo Mundial, una catena ininterrotta di successi che hanno glorificato, per tutti gli anni ’20 del secolo scorso, il predominio uruguagio sul mondo calcistico. Prima di partire per Parigi, sede dei Giochi Olimpici del ’24, gettò lontana la mazza con cui scolpiva lastre di marmo per guadagnarsi da vivere: “Non tornerò mai più a imbracciarti”, disse con sdegno, puntando tutte le fiches della sua realizzazione personale sul rettangolo verde di un campo da calcio.

Laterale basso (come si diceva al tempo, zaguero atrasado) sorprendentemente moderno per i nostri canoni interpretativi, Nasazzi aveva un senso della posizione innato: dove c’era la palla si trovava Nasazzi, e viceversa. Ma non si limitava a difendere, imponente come un picco della Sierra Carapé: affondava sulla fascia con l’irruenza inarrestabile del Rio de la Plata che si getta nell’Atlantico.

Un anticipo che intristisce l’avversario argentino durante la finale delle Olimpiadi di Amsterdam.

Nel ’34, come raccontano Faccio e Porta in un’intervista sul Littoriale, è stato squalificato per un anno dalla Federazione Uruguayana: nel corso di un Clásico tra Nacional (che Nasazzi capitanava) e Peñarol ha afferrato per la giacca e scosso un arbitro reo di aver convalidato una rete per gli aurinegros sugli sviluppi di un’azione in cui la palla era stata trattenuta in campo da una valigetta dei medicinali lasciata distrattamente sulla linea di fondo campo. Al Mariscal, a volte, l’anima s’incupiva: in quei frangenti lo chiamavano pure El Terrible, o El Tigre.

Nasazzi ha disputato, in totale, nel corso di una carriera dopotutto neppure così longeva, durata appena tre lustri, otto competizioni internazionali: non è riuscito a vincerne soltanto una.

Ha fatto all-in, e gli ha detto molto bene. “A otra cosa, mariposa”, come si dice da quelle parti. Dopo i fasti calcistici, il Casino di Montevideo lo assunse come capo dei croupiers.

Roque Maspoli

È stato un tipo particolare. Intanto, anche se ancora lo considerano come italo-uruguagio — ma essere italo-uruguagi non è affatto particolare, men che meno al Peñarol — in realtà lui era svizzero-uruguaiano, essendo di famiglia ticinese; cambia, direte voi? Un po’ sì. Diciamo comunque che, per comodità, si comportò anche lui da italiano: come tale, sebbene avesse iniziato a giocare nel Nacional, non poté che tifare per i gialloneri, e soprattutto non poté che diventarne un simbolo e una bandiera. Maspoli, nella sua finzione di italianità, si spinse perfino a nascere il 12 ottobre, ossia il giorno in cui Colombo scoprì l’America; e pare ci tenesse a rimarcarlo, con doppiezza lombardo-lacustre. Come uomo, Maspoli era massiccio, altissimo: sfiorava il metro e novanta in un’epoca in cui un metro e novanta era roba da titani, soprattutto per un italiano, sia pure fittizio. Forse per quell’anacronismo, lui che era un idolo dei gialloneri, nel 1949 finì in panchina: ma il titolare si ruppe, Maspoli dovette giocare e vincere anche quel campionato, venendo convocato per il Mondiale. All’epoca l’Uruguay, quando partecipava, tendeva a vincere, e Maspoli vinse. L’ultima partita era quella dei 200.000 del Marcanà, di Ghiggia, Barbosa e Schiaffino, ma non contava: serviva una vittoria e l’Uruguay vinse. Maspoli prese un gol un po’ così dopo tre minuti, poi ci riprovarono tutta la partita, ma non ci riuscirono più. Nel 1954 invece Maspoli perse, contro l’Ungheria in semifinale, ma solo ai supplementari. Era la prima partita persa dall’Uruguay a un Mondiale, e pare appropriato che fosse quella.

Da allenatore, sempre del Peñarol, vinse una Libertadores e una Intercontinentale, battendo due volte il Real Madrid; a 80 anni allenò la Celeste, ma non si qualificò per il Mondiale. Anche questo è abbastanza particolare. Invece il resto, aver vinto sempre, ovunque, esser stato un fenomeno nazionale e una bandiera giallonera, questo per un uruguaiano è normale. Ma non dite a nessuno che quell’uruguaiano era un gigante svizzero, e che ha rischiato di giocare nel Nacional.

Pablo Justo Forlán Lamarque

Detto El Boniato (la patata dolce), è prima di tutto un bell’uomo, come si evince dalle foto d’epoca. Poi è anche uno che ha marcato centomila volte Pelè, e che in fondo non ci ha fatto troppo una brutta figura (Gento e Garrincha, invece, li ricorda con terrore); è uno che ha vinto un’intercontinentale contro il Real Madrid, i soliti campionati uruguagi con il Peñarol, un po’ di roba in Brasile, insomma niente di che per un uruguaiano; poi ha anche giocato tre Mondiali, arrivando a una semifinale, ma in fondo non è molto per un uruguagio, gente che di solito, quando gioca a pallone, vince. Ci piace però ricordarlo perché era un bell’uomo — in fondo anche “La patata dolce” si riferisce al suo essere lungo lungo, magro, elegante (in Uruguay non hanno quella finezza, e per dire “bell’uomo” dicono: patata dolce) -, perché ha giocato sette anni al Peñarol e perché l’unione di queste due cose gli ha consentito di essere anche filosoficamente, oltre che geneticamente, il padre di Diego Forlán. Scusate se è poco.

Diego Forlán

Su Diego Forlán potrei essere poco obiettivo, per una serie di ragioni: in primis perché è un centravanti elegante, tecnico, prolifico, uno che comunque, anche se nei club non ha mai sfruttato a fondo il proprio potenziale, in ogni caso è stato protagonista, al Villarreal, all’Atletico, in parte anche altrove, di belle pagine di calcio, anche di vittorie, perfino di rari trionfi; poi perché, in Nazionale, è stato invece fenomeno e trascinatore, ha praticamente spinto a forza di gol e di carisma la Celeste fin quasi alle porte di una finale Mondiale, persa più che altro per sfiga e gol improbabili, e poi l’ha issata in cima al Continente, in un bellissimo trionfo in casa degli argentini. Per anni è stato, da solo, sintesi e segreto di una squadra e una nazione che pareva inchiodata a un tempo passato e invece è ritornata ad essere una potenza calcistica globale. Ma soprattutto perché lo amo. Quant’è bello, Diego Forlán? Un sacco. No, scherzo: è bello tutto, il tutto, l’infinito, il celeste di quella maglia e dei suoi occhi. Quant’è biondo? È biondo il grano, è biondo tutto, è biondo l’oro delle sue vittorie, della sua anima dorata, vittoriosa, corretta, stupenda. Ha iniziato a giocare con l’Independiente, capite? Come omaggio a suo nonno, il mitico Corazzo. E poi è tornato al Peñarol, un po’ per via di suo padre, un po’ perché da italo-uruguagio e da persona meravigliosa non poteva esimersi. Mamma mia quanto lo amo. Quant’è stupendo? Non riesco a rispondere; il sangue mi sale alle guance; ho un mancamento; lo amo; datemi una maglia celeste, la cittadinanza uruguaiana, lo amo, cazzo! LO AMO!!! ALIENI NON PORTATEMELO VIA, IO LO AMO, LO AMOOOOOOO!

José Santamaria

Chi ha una nascita contesa tra due case, due nazionalità, e lo dico per esperienza personale, in genere passa una vita intera a cercare di conciliare la propria doppia origine. Magari nasci in un Paese da genitori emigrati, magari nasci in un altro da genitori originari di un altro posto. Fatto sta che, sono sicuro, molti di quelli divisi tra due posti diversi metterebbero una firma nero su bianco per poter dire di aver fatto il percorso di José Emilio Santamaria Iglesias, nato in Uruguay da genitori spagnoli, più volte campione nazionale e internazionale col Club Nacionàl e con il Real Madrid. Ognuno ha il proprio modo di risolvere la propria origine, per rendersi indispensabile sia per il proprio passato paterno che quello materno, non c’è che dire, per Santamaria la strada fu quella di essere il miglior difensore della sua epoca, di sfruttare la sua altezza, il suo equilibrio, la sua determinazione e mentalità per vincere cinque campionati con il Real Madrid e quattro Coppe di Campioni, di cui tre consecutive. Più i titoli vinti in Uruguay e una bella coppa Intercontinentale, tanto per gradire. Per non farsi mancare niente, giocò cinque anni con la nazionale sudamericana e quattro con quella europea. Difendeva tutti, José Santamaria, bastava gli facessi capire che c’era qualcosa da difendere.

Diego Perez

Diego Perez, di per sé, non merita di essere ricordato. Cioè, non lo dico in senso cattivo: ma non è che abbia fatto chissà che, o no? Come calciatore, dico; come persona non saprei. Se uno prende Diego Perez, lo studia anche da vicino, stando magari attento ad evitare i calci, le dita negli occhi, gli insulti che sicuro riserverebbe agli analisti, secondo me non ci cava fuori niente di particolare; ma se invece lo mettete in una squadra di calcio, Diego Perez, è diverso. È diverso non perché era lui, ma perché si trattava di una specie di riassunto dell’Uruguay. Se ne stava bel bello a centrocampo, menava, intimidiva, ripartiva di grinta, rabbia, scorrettezze, volontà, creando una specie di zona a transito limitato davanti a sé, un luogo in cui non contava la bravura, non contava la capacità, contava solo l’uruguaianità cieca, assoluta. In pratica Perez, brava persona per carità (ma poi non credo), va ricordato, tutelato, forse circondato di cordoni di raso rosso e fotografato, qualora se lo lasci fare (ma poi non credo), non per sé, e per le sue limitate qualità tecniche e tattiche, ma perché era una specie di iper-uruguagio: con quella faccia, quelle gambe, quei capelli di uno che non ha tempo da perdere con i vezzi. Fa un po’ sorridere che sia uno detto Ruso la sintesi dell’uruguaianità, almeno di quella calcistica, ma va così: in fondo stiamo parlando di una nazione di immigrati. E poi basta sorridere o vi meniamo, io e Diego.

Paolo Montero

Paolo Montero è un difensore, figlio di difensore, con nel sangue il DNA di chi ha sempre difeso qualcosa. Paolo Montero ha deciso di difendere una porta e nel farlo ci ha messo tutto sé stesso. Non è mai stato il più elegante o il più bello, neanche il più concreto, tanto meno il più forte, però se esistesse da qualche parte una classifica positiva della malizia, dell’idea che l’arte della difesa concede tutto perché l’unica cosa che conta è infilarsi tra palla e attaccante, se esistesse questa classifica, beh, Paolo Montero sarebbe tra i primi. Questo perché Montero era una specie di cattivo dei film, uno che menava per intimorire l’attaccante, ma anche per quel gusto sadico di menare. Uno con una logica da Terza Categoria elevata ad arte in Serie A. Uno che “alla prima palla all’attaccante gli devi far sentire i tacchetti, poi vediamo”. Uno con il record di espulsioni in serie A, 17. Ma anche uno bravo, che ha vinto tanto, che il posto da titolare in una delle squadre più forti del mondo, e la sua Juventus lo era, te lo devi meritare mica te lo danno solo perché sei cattivo; uno fedele che ha iniziato nel suo Peñarol e poi ha finito — molti anni dopo — nel suo Peñarol. Un amico, amato da tutti i suoi compagni di squadra e dai tifosi, che alla fine i cattivi hanno il loro enorme fascino. Insomma Paolo Montero non è mai stato il miglior difensore del mondo, ma andate a chiedere agli attaccanti se erano contenti di trovarselo tra loro e la porta.

Martin Caceres

Caceres ha questo modo di fare: arriva, si fa amare, se ne va. Torna, si fa amare ancora di più, se ne va un’altra volta. Ce l’ha sempre avuto, fa parte di lui. Da piccolo a Montevideo, il primo giorno di scuola non lo conosce nessuno. Lui arriva un po’ prima del bidello e infila il suo chewing-gum nella serratura. Risultato: non entra nessuno e lui idolo indiscusso. Poi se ne va, cambia scuola, ma qualche anno dopo ritorna a salutare i vecchi compagni. Entra, apre una borsa che porta con sé e libera nel corridoio una manciata di topolini di campagna. Scuola chiusa una settimana per disinfestazione, grazie Martin. Quando diventa un po’ più grande la cosa non cambia. Un giorno entra in un bar di Barcellona, paga da bere a tutto il locale e se ne va. Ritorna poco più tardi, offre un altro giro, racconta un paio di storie divertentissime, ruba la scena al karaoke e sparisce di nuovo. A Torino la stessa storia: appare, segna un gol alla Lazio e lascia detto a Bruno, il magazziniere «Bruno, vado via un attimo, però torno eh». Torna dopo un anno e mezzo, fa subito due gol al Milan e più avanti segna a Napoli e Inter, va a ballare con Isla, vince cinque scudetti e ancora una volta, va via. Signori alieni siete avvisati, affezionatevi sì, perché è impossibile non farlo, ma sappiate che Caceres, dopo avervi sedotto, abbandonato e poi rifatto cadere ai suoi piedi, alla fine, inesorabilmente, andrà via.

Abel Hernandez

Non l’ho ancora capito. È velocissimo? È tecnicamente funambolico? È un rapace d’area? Cos’è realmente Abel Hernandez? Perchè a 26 anni, dopo essere sempre stato accostato alle squadre più importanti del mondo, è ancora all’Hull City, rimasto anche l’anno scorso in Championship, anche quest’anno in Premier da ultimissimi in classifica? Dovrò aspettarmi, un giorno, improvvisamente, titoloni sui giornali tipo “Guardiola: tutto su Hernandez” o “Ancelotti punta i piedi: Hernandez o me ne vado”? Troppe domande, troppi ricordi di un sogno per tutti i tifosi delle squadre che, tutti giuravano, lo avevano già acquistato. Ci è sempre sembrato troppo forte per il Palermo, troppo forte per la Serie A, e invece oggi sta lì, a segnare solo gol da 3 metri (vedere per credere) nella peggior squadra della Premier League? Non lo so, davvero, mi mette troppi dubbi e ora sto riflettendo se io sono reale o sono solo la proiezione mentale di un’entità di un universo parallelo. Vado ad insaponare la corda.

Ladislao Mazurkiewicz

Tra i tanti soprannomi, gli avevano affibbiato pure quello di El Polaco e spulciando tra i suoi documenti non era difficile capirne il motivo: Ladislao Mazurkiewicz tradiva nel cognome le sue origini del padre, emigrato dalla Polonia in quel piccolo lembo di terra circondato dai giganti Argentina e Brasile. Considerato uno dei migliori numeri uno negli anni ’60 al pari di Banks e Jashin, in gioventù sogna di diventare un campione della pallacanestro, ma non è abbastanza alto per sfondare: un osservatore del Racing Montevideo lo convince allora a provare col calcio e Ladislao non se ne pentirà. La vera investitura arriva al Peñarol nel 1965, quando il portiere titolare Maidana viene allontanato per motivi disciplinari e tra i pali si libera un posto: il tecnico Roque Máspoli, uno degli eroi del Maracanazo, decide di dar fiducia a questo ventenne che compensa con un’agilità felina e un tempismo nelle uscite la non elevata statura. Carismatico e sicuro, Mazurkiewicz sapeva tranquillizzare i compagni come in occasione del debutto ai Mondiali del 1966 contro l’Inghilterra: a Wembley si presenta nientemeno che la famiglia reale e il portiere in maglia nera bacia la mano della regina aggiungendo “Voi sì che sembrate un quadro”. Una battuta per allentare la tensione. L’Uruguay imbriglia ben bene i maestri del calcio davanti a oltre 87mila spettatori grazie alle parole, e alle parate, di Mazurkiewicz.

Edinson Cavani

Cavani È un uccello? È un aereo? No, è semplicemente Cavani che, con la sua squadra sotto pressione, torna fino al limite della sua area, pressa la mezzapunta avversaria, gli ruba palla, la passa al compagno dotato di buon lancio in profondità, si butta nello spazio e, due passaggi dopo, va a finalizzare con un imperioso colpo di testa o una rovesciata o un tiro a giro all’incrocio o una sassata sotto la traversa. Vedendo solo i numeri di questo splendido ritrovato dell’ingegneria umana ci si aspetterebbe il centravanti da ultimi 25 metri, quello, si, anche disposto a pressare la linea difensiva, ma tutto sommato padrone del solo ultimo quarto di campo. Invece Edinson è il prototipo dell’atleta perfetto, il calcio totale applicato al solo centravanti, cuore, grinta, polmoni e tecnica da primi dieci al mondo. Qualcuno diceva di Di Stefano che “in una scala di valori da uno a dieci, se si dovesse dare un voto alle caratteristiche di un calciatore, Di Stefano aveva tutti nove”. Per non essere sacrileghi, iconoclasti o semplicemente per evitare la lapidazione digitale mi limito a dire che la stessa frase è applicabile a Cavani, ma con tutti otto.

Isabelino Gradin

Buenos Aires, 2 luglio 1916: lo stadio del Gimnasia y Esgrima ospita la gara inaugurale del primo Campeonato Sudamericano de Fútbol — l’attuale Copa América — e l’Uruguay straccia il Cile con un 4–0 che zittisce tutti. Non proprio tutti, in verità: gli andini chiedono l’annullamento in quanto gli avversari hanno schierato due “rinforzi africani”. Uno dei due, che ha persino marcato due gol, si chiama Isabelino Gradín e in effetti ha la pelle nera come l’ebano: è discendente di schiavi, però lui è nato e cresciuto a Montevideo. L’Uruguay, all’epoca, è l’unica nazionale con calciatori di colore in squadra e Gradín ne è una delle stelle più splendenti: ha una corsa esplosiva — non a caso si dedicherà pure all’atletica leggera primeggiando in varie distanze — e un sinistro al fulmicotone. Una delizia per gli esteti del calcio, tanto che il poeta peruviano Juan Parra del Riego compone in suo onore i versi di “Polirritmo dinámico a Gradín, jugador de fútbol”. Ammalatosi gravemente, nel dicembre 1944 è ricoverato all’ospedale Pasteur quando riceve la visita dei giocatori del Peñarol, sua ex squadra: hanno appena vinto il campionato e dedicano il trionfo a lui. Morirà di lì a pochi giorni, povero e solo, come un qualsiasi eroe tragico del calcio sudamericano.

Carlos ‘Pato’ Aguilera

Quando Venere e Marte si incontrano, in genere, è un casino. Di quelli belli però. O, quantomeno, di quelli ambivalenti, un po’ belli e un po’ brutti. Grandi passioni e grandi disastri, grandi emozioni e grandi palmi in faccia, e talvolta guai con il comune senso del pudore, dell’autostima, o anche guai con la giustizia. Il Pato Aguilera, come un incrocio stonato e travolgente di Venere e Marte, era latore di scompiglio, in qualsiasi forma si presentasse. Come attaccante brevilineo, specie se affiancato a bestioni come Skuhravy (al Genoa) o Casagrande (al Torino), era un incubo per gli avversari. In particolare al Genoa, cioè nel club più antico d’Italia, divenne un idolo della Gradinata Nord in poco, pochissimo tempo, partecipando a imprese storiche come gli 8 gol in 9 gare nella Coppa Uefa 1991–92, o contribuendo a sconfiggere il Liverpool di Rush e di un infante McManaman (i rossoblu prima squadra italiana a riuscire nell’impresa in una competizione europea ufficiale), senza contare poi l’impressionante media gol di 33 reti in 96 gare alla luce della Lanterna. Fin qui, tutto bene. Poi, vabbe’, una condanna per sfruttamento di prostituzione e detenzione e cessione di cocaina, ma che vuoi che sia. Negli anni ’90 l’Italia era terreno di frontiera, in cui venivi, vedevi, prendevi, davi, mettevi insieme il tuo bilancio del difetto o dell’eccesso tra una tua azione e l’altra, e se i conti erano in rosso potevi sempre fuggire lontanissimo, pronto a non metterci mai più piede. Hai visto mai, magari qualcuno ti avrebbe appioppato un indulto, da lì a qualche anno.

Julio Cesar Abbadie

Con buona pace del Pato Aguilera, il primo uragano uruguaiano ad approdare a Genova, sponda rossoblu, fu Julio Cesar Abbadie, ala destra con la palla incollata al piede, di padre francese e madre spagnola, dalla tecnica sopraffina e dallo scatto bruciante. Il Genoa lo strappò all’agguerrita concorrenza di Juve e Milan, e Julio Cesar dimostrò in poco tempo che ne sarebbe balsa la pena: il suo spirito sudamericano aiutò la squadra a raggiungere la salvezza nelle sue prime due stagioni e soprattutto conquistò Marassi in poche apparizioni, grazie alla spettacolarità dell suo calcio, e a un derby del 1957 in cui propiziò la vittoria con ben tre assist al bacio, ribaltando lo svantaggio iniziale e regalando la vittoria ai suoi. In Liguria giocò per quattro stagioni, in cui totalizzò poco meno di 100 presenze e poco meno di venticinque reti. Le maggiori soddisfazioni, tuttavia, se le tolse a casa, al Peñarol, dove i numeri in campo furono da stropicciarsi gli occhi, e dove portò nella bacheca di casa sette campionati, una Libertadores e un’Intercontinentale.

Ernesto Mascheroni

Ben prima di Beppe Bergomi, c’è stato un altro giocatore in maglia nerazzurra ad esser ribattezzato “lo zio”. O meglio: El tío. Ernesto Mascheroni è stato uno degli innumerevoli oriundi transitati dalla Serie A negli anni ’30: la Carta di Viareggio entrata in vigore nel 1926 proibiva alle società di ingaggiare calciatori stranieri, ma con argentini e uruguaiani bastava dimostrare le loro radici italiane per aggirare l’ostacolo. Roccioso centrale difensivo mancino, a dispetto della giovane età si mette in luce nell’Olimpia Montevideo e strappa la convocazione al Mondiale in patria del 1930: a poco più di 22 anni gioca l’intera finale vinta contro l’Argentina al fianco del temutissimo Nasazzi. A distanzia di un quadriennio approda in Italia, suo paese d’origine e grazie alle belle prove con l’Ambrosiana-Inter arriva a indossare la maglia azzurra della nazionale: tornerà eccezionalmente a vestire quella d’un blu più sbiadito dell’Uruguay al suo rientro in patria. Quando è venuto a mancare nel 1984 era l’unico superstite della prima nazionale campione del mondo.

Obdulio Varela

“Los de afuera son de palo”. Bastano sei parole per scrivere una leggenda. Varela è il volante del Peñarol, pensatore raffinato più svelto di idee che di gambe. È il “negro jefe”, l’artista convinto che il calciatore debba essere un po’ come il torero, dominare scena e pubblico. È il capitano dell’Uruguay che fa piangere il Brasile al Maracanà, che porta in spogliatoio le prime pagine dei giornali di Rio già listati a festa per il titolo mondiale verdeoro e riscrive il finale. Al lancio della monetina, non la lascia nemmeno atterrare, l’afferra al volo. “Lasci ai brasiliani la consolazione di scegliere” dice all’arbitro, “saremo comunque noi i campioni del mondo”. La partita, insegna, non si gioca sugli spalti, sulle monumentali tribune dove una folla di oltre 200 mila persone aspetta di vedere la Celeste matata come il toro sacrificale di turno. Chiede, impone ai compagni di non guardare in alto, ma al 6' del secondo tempo tutti gli oltre 200 mila spettatori hanno occhi solo per lui, che dopo il vantaggio brasiliano cammina a passo lento verso il centro del campo. Un passo studiato per raffreddare gli animi, una distrazione ostentata. Chiede all’arbitro un fuorigioco, ha visto il guardalinee alzare e poi abbassare la bandierina. Arriva anche a chiedere un’interprete mentre la gioia si tramuta in silenzio e poi in rabbia rumorosa, cieca, confusa. Il Brasile vede rosso, l’Uruguay vince il Mondiale. È una festa solitaria, la consegna della coppa è quasi furtiva, indiscreta. Varela torna in albergo da solo. Spera che i tifosi brasiliani non lo riconoscano. Ma è impossibile. Di quella sera gli restano due ricordi, il pallone del Maracanazo e i tifosi brasiliani, quelli che non contano ma si stanno contando già, che lo fermano per offrirgli da bere. Magia del calcio.

Egidio Arevalo Rios

Nella mitologia precolombiana, fatta di intrecci tra divinità insofferenti, mostri antropomorfi e campi a tremila metri d’altezza, uno dei personaggi di maggiore rilievo è Urcaguary, dio dei metalli, delle rocce e del centrocampo. Inguaribile casanova, nonostante la sua silhouette bassa e tozza a’la Danny De Vito, Urcaguary ebbe modo di condividere le lenzuola con le più variegate figure mitologiche del continente sudamericano, generando una prole della quale hanno potuto gioire procuratori e tifosi di tutto il pianeta. Dalla sua relazione giovanile con una dea Quechua di nome Pachakamak, nacque David Pizarro, che in lingua quechua significa “attaccatura dei capelli molto bassa”. In seguito Urcaguary si accoppiò con Tiahuanacoil, divinità Inca dalle sembianze di Red di Angry Birds, generando Gary Medel. Ma fu dalla sua relazione più intensa e duratura, quella con Mapingucumar, mostro con le sembianze di bradipo che abita la foresta amazzonica, che Urcaguary ebbe il suo prediletto: Egidio Arevalo Rios. Egidio ereditò dal padre la statura, l’affilatezza dei contorni e i piedi di bauxite e dal mostro i denti aguzzi e il fare selvaggio di chi sopravvive alla foresta pluviale. Ancora oggi il grande tempio di Paysandù, dedicato a Urcaguary e a suo figlio Egidio, è meta di migliaia di pellegrini che giungono nella cittadina uruguaiana per portare le loro offerte di Cachaça e palloni bucati.

Pablo Bengoechea

Da fermo, ecco, come si dice di alcuni calciatori che giocano senza troppo dinamismo. E invece no, ne aveva Pablo Bengoechea, El Profe che portava il numero 10 al Peñarol e che più di dieci anni si è fatto nella Celeste; “da fermo” sapeva tirare rigori e punizioni come pochi altri, ma quella espressione dice anche che la sua intelligenza tattica precedeva inesorabilmente il passo avversario, tanto da ritrovartelo sempre fermo, nel senso che proprio era arrivato prima, aveva letto l’azione e dove sarebbe caduto il meteorite, allora si era spostato, accogliendo invece la palla tra i piedi per portarla dalla trequarti fino al rettangolo dove fosse più facile per tutti, buttarla dentro. Come dire: va bene così, io l’ho portata fino a qui, adesso fate il piacere, fate gol ché io devo tornare a mettermi fermo a centrocampo perché ricominci il gioco. Prima che ve ne siate accorti.

Luis Cubilla

Al di là delle doti da calciatore, cristalline e celebrate, e quelle da allenatore, con una carriera costellata di successi internazionali, il motivo per cui dovreste riesumarlo, o Alieni, è per un episodio che lo rende immortale. Durante un match contro l’Huracan, quando lui allenava il Talleres, un tifoso avversario si avvicina alla panchina. Il tifoso è dietro la rete che divide gli spalti dal campo e urla qualche insulto a Cubilla tenendosi forte alla recinzione. Luis, uomo di 63 anni che le ha viste tutte, prende un cartoccetto dalla tasca, ne estrae qualcosa e la lancia verso il tifoso, accompagnando il gesto con una frase che andrebbe scolpita sulla sua lapide: “Tomà, los monos tienen que comer caramelos” (qualcosa tipo “Prendi, le scimmie devono mangiare le caramelle). Mentre il mister se la ride tornando in panchina il tifoso la prende bene e urla per qualcosa come 40 minuti la frase delicata “LA CONCHA DE TU MADRE! LA CONCHA DE TU MADRE!” e via dicendo all’infinito.

Diego Luis Lopez

La verità è sempre l’ultima ad arrivare e dire ‘te l’avevo detto’, anche quando davvero tu eri convinto di non aver sentito nessuno dirti quelle cose lì in quel momento, pronunciata in un moscio pomeriggio di fine inverno a Cagliari, per giunta. La verità vera è che per giocare da difensore in Serie A negli anni ’90 bisognava essere forti. La verità è che in un proliferar di staffette tra Baresi, Maldini, Nesta e Cannavaro, con buona pace di un Materazzi prossimo a laurearsi campione del mondo da protagonista, essere Diego Luis Lopez era cosa non da poco. Venire dall’Uruguay e combattere per una maglia sola per dodici lunghi anni, in una roccaforte su un’isola, voleva dire non soltanto essere un signor difensore, ma anche un devoto accolito del Gioco, delle sue bizze comportamentali, della sua refrattarietà alle scalate, alle ambizioni elitarie ed egotiche. Diego Luis Lopez, una vita per evitare un gol, una vita per il Cagliari.

José Leandro Andrade

Ecco a voler leggere la storia del calcio, quando proprio la cominci dal principio, c’è quella cosa di trovarsi in mezzo ai grandi del tempo l’imprevisto di un Uruguay mai così competitivo, nemmeno nel calcio moderno dei top player, forse al pari soltanto di quegli anni Cinquanta arricchiti da un Mondiale in terra brasiliana. Il calcio era diverso, i calciatori sembrano giganti a pensarli oggi, su campi improbabili a inventarsi modi per colpire la palla come nessuno prima aveva insegnato loro. Ecco, lì in mezzo al centrocampo uruguagio il gigante mediano era José Leandro Andrade, campione olimpico due volte e campione del mondo nel 1930. Fortuna che nel tempo senza mezzi di conservazione le gesta finissero incarnate nel poco che era possibile; è la testimonianza, dei pochi, o tanti, che lo videro e gli diedero il nome che lo consegna alla storia: José Leandro Andrade, la Maravilla negra.

Matías Vecino

«Si desea jugar al fútbol, hay que estudiar antes, Màti!», letteralmente «se vuoi giocare a calcio, prima devi studiare». Se a dirtelo è tua madre e nelle tue vene scorre sangue rioplatense, sponda uruguagia, non puoi fare altro che seguire le direttive. Così Matías Vecino Falero, si mette sui libri, ingaggiando una lotta contro il tempo. Prima adempie al suo dovere di studente per non deludere la madre, più tempo gli rimane per potersi allenare nelle piccole piazze del barrio Palermo. Il nome del barrio di non è casuale, fu fondato da immigrati siciliani che si stabilirono a Montevideo cercando l’altro sogno, quello sudamericano. Così come fecero i suoi familiari che, però, arrivarono da Torella del Sannio, un paesino che affonda le sue radici nel cuore del Molise. El Mate — lo chiamano così perché è ghiotto della bevanda tipica uruguaiana che porta lo stesso nome — sembra rincorrere il tempo che passa da sempre, zigzagando tra i suoi sogni e suoi incubi. Diplomatosi con il massimo dei voti, in effetti, vince con i libri il primo titolo della sua vita, el Pabellón Nacional, un’enorme bandiera nazionale che ancora campeggia dalla sua finestra a San Jacinto, a due passi da Motevideo. Da allora Matías corre, corre senza fermarsi per rincorrere l’immagine di se stesso, imprigionata nei sogni ad occhi aperti. Central Español stagione 2010, Nacional Montevideo con cui vince il campionato della stagione 2011/2012 poi un argento nel Sudamericano sub 20 del 2011 in Perù, dove elimina l’Argentina con un suo goal prima di cadere in finale al cospetto del Brasile degli alieni Neymar e Lucas. Poi l’Italia. La Viola lo manda a farsi le ossa a Cagliari, prima, e a Empoli, poi. Al Castellani, nella stagione 2014/15, dirige il gioco un certo Maurizio Sarri. Il professore dipinge calcio e poesia, plasmando gli uomini a disposizione stimolando la sublimazione delle loro doti. Ora Màti Vecino, El Viejo, è una colonna portante del gioco di Sousa che lo ha dichiarato assolutamente incedibile. Indispensabile per Sarri e per Sousa, non se mi spiego.

Pedro Rocha

Nato a Salto — città storica per la formazione dell’Uruguay — Pedro Rocha ha avuto una carriera sfolgorante tra Peñarol e San Paolo. Con gli Aurinegros ha vinto tre Copa Libertadores, poi tramutatesi in due Intercontinentali, di cui scherzando il Real Galactico degli anni ’60. Stella dell’Uruguay negli anni ’60, con la nazionale ha forse raccolto meno di quanto la sua classe meritasse (una Copa América nel 1967, unico uruguayano ad aver giocato 4 Mondiali). In fondo, se la Federazione internazionale di storia e statistica del football l’ha incoronato tra i 40 giocatori più forti del XX secolo, un motivo ci sarà.

Hugo de León

Guerriero indomabile e giramondo di professione, si è legato al Nacional, con cui ha aperto e chiuso la sua carriera. In mezzo, un tour del Brasile tra Gremio, Corinthians, Santos e Botafogo, con tanto di esperienze in Argentina e Giappone. de León ha vinto due Libertadores con Gremio e Nacional: iconica la sua immagine con la testa grondante di sangue e la coppa in mano. El Patriarca era fatto così, non negoziabile.

Diego Laxalt

Soffia forte il vento che risale il Rio de La Plata, accarezzando le coste uruguaiane prima di bagnare quelle argentine. Soffia forte, insinuandosi tra i capelli, come quando si corre veloce sulla fascia, verso il pallone, attraverso gli spazi, verso la porta avversaria. Diego Sebastián Laxalt Suárez da Montevideo ha cominciato a correre con la camiseta violeta dello Sporting Club Defensor, un fondamentale satellite della galassia del departamento de Montevideo. Correre, veloce, superando la soglia della fatica. Correre più veloce degli altri. Correre a prendersi il bronzo nel Sudamericano sub 20 del 2013 in Argentina, prima di bussare ai cancelli della Pinetina alla corte di Mazzarri. Il Mister non lo vede? Nessun problema. El Valde — se volete sapere cosa significhi potete sempre chiedere al signor Carlos Alberto Palacio Valderrama, che lo ha battezzato così — corre al Mondiale Under 20 in Turchia (2013–2014) a prendersi la medaglia d’argento. Al suo rientro, il Mister gli fa giocare solo amichevoli e tournee a stelle e strisce? Nessun problema. El Diego corre a scrivere il suo nome sul libro dei record del Football Club Bologna, segnando una doppietta all’esordio, al Dall’Ara, contro il Milan di Allegri. L’Inter, proprietaria del tuo cartellino, non riesce ancora a fidarsi di lui? Nessun problema. Diego scende di corsa l’Appennino in direzione di Empoli, alla corte del professore, Maurizio Sarri. Non giocherà molto ma, si sa, le mezz’ali per Mister Sarri sono patrimonio da tutelare e plasmare a perfezione. Nessun segnale, a fine stagione, dalla Pinetina? No hay problema, papà. Diego corre a Marassi, rispondendo alla chiamata del Gasp. Non cercatelo su qualche panchina o su qualche spiaggia, appollaiato al sole. È ancora a Marassi, a correre senza fermarsi, senza arrendersi.

Luis Suárez

Sulla sua pagina Wikipedia, dopo le generalità di rito, si legge che «durante la sua carriera ha vinto 1 campionato uruguaiano (2006), 1 Coppa d’Olanda (2010), 1 Coppa di Lega inglese (2012), 2 2 campionati spagnoli (2015, 2016), 2 Coppe di Spagna (2015, 2016), 1 Supercoppa di Spagna (2016), 1 Champions League (2015), 1 Supercoppa UEFA (2015) e 1 Mondiale per club (2015). Con la Nazionale ha disputato 2 Mondiali (2010 e 2014), la Coppa America vinta nel 2011, le Olimpiadi 2012 e la Confederations Cup 2013. A livello individuale, è stato eletto miglior marcatore del campionato olandese (2010), di quello inglese (2014), del Mondiale per club (2015) e del campionato spagnolo (2016). È stato insignito dei premi come calciatore dell’anno del campionato olandese (2010), giocatore dell’anno della PFA (2014), miglior giocatore del Mondiale per club (2015) e 2 Scarpe d’oro (2014, 2016)». Probabilmente questo è l’esempio più chiaro per spiegare il perché “i numeri sono freddi”. Lo sono perché non spiegano come un ragazzino di appena nove anni sia stato capace di non farsi inghiottire da Montevideo, lontano da casa — Salto, stessa città natale di Edinson Cavani — centinaia di paure e incognite. Luis Alberto Suárez Díaz a nove anni lavorava in una fabbrica per pagarsi da vivere e l’istruzione necessaria a non definirsi analfabeta, non una stranezza, nei primi anni ’90 sul Rio de La Plata. Luis è vittima del fato, bruciata sull’altare degli dei, come preghiera, per un futuro vero. La sua famiglia lontana si dissolve nel nulla, il suo amore adolescenziale, Sofìa, emigrata a Barcellona, gli amici perso ancor prima di trovarli per davvero. Alla continua ricerca dell’equilibrio, del futuro vero chiesto agli dei del pallone, il Sole di Suárez sorge in Olanda. Prima al Groningen, poi all’Ajax, El Pistolero segna 126 reti in 192 partite. Il suo Sole irradia la Terra di Albione, precisamente ad Anfield Road, dal 2011 al 2014 dove El Caníbal segna 82 reti in 133 partite. Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, è fisica, è la dinamica. È quello che spiega meglio la vita di Luis. Ad ogni discesa negl’inferi corrisponde uno slancio trionfante verso il paradiso del fùtbol. Ora è al Barcellona nel tridente più prolifico e talentuoso di sempre. È a Barcellona dove c’era Sofìa che ora è sua moglie.

Hector Scarone

La Belle Epoque del calcio uruguayano ha il nome e il volto di Hector Scarone. Lo chiamano El Mago, dicono che abbia l’abitudine di appendere un sombrero a un albero e calciarci dentro un pallone da ogni possibile distanza e posizione. Centravanti che si evolve in devastante mezzala nel metodo, il WW che imperava negli anni Venti, a meno di vent’anni vince il suo primo Campionato Sudamericano (l’attuale Coppa America). Nel 4–0 al Brasile segna il primo dei 31 gol con la Celeste (in 52 partite), un record che resisterà per oltre ottant’anni. Nella Parigi di Hemingway e Picasso, Scarone illumina le Olimpiadi del 1924: segna in tutte le partite, finale esclusa, verrà eletto il miglior calciatore dei Giochi. Per confermare il titolo ad Amsterdam, con tanto di magia decisiva contro l’Argentina, rifiuta l’offerta del Barcellona. In Catalogna passa solo sei mesi, vince la Coppa di Spagna poi torna a Montevideo per dividersi tra il Nacional (segna 301 gol in in 369 partite con “el Bolso”, meglio di lui solo Atilio García, 486) e un lavoro da portalettere. “Sapevo che, accettando il contratto professionistico offertomi dal Barça, avrei dovuto rinunciare alle Olimpiadi. Sarebbe stato come morire” dirà. Vince la seconda Olimpiade di fila e il primo Mondiale della storia. È un eroe nazionale quando, nel 1931, arriva all’Ambrosiana-Inter. “Aveva 33 anni ed era ancora il migliore al mondo. Faceva cose che noi altri potevamo solo immaginare. Non oso neppure pensare cosa dovesse essere 10 anni prima, quando era al meglio della forma. Nella mia vita ho affrontato molti avversari, ma per me Hector Scarone rimane il più forte di tutti”.

Diego Godìn

Quando pensi al concetto di “cholismo”, all’avere due testicoli grossi — in senso sportivo, s’intende — come una scultura di Pomodoro, alla capacità di mantenere l’agonismo sempre sopra il limite stabilito e consentito, al carisma innato, al gruppo prima di ogni cosa, ecco, immediatamente si palesa davanti a te il profilo spigoloso e rassicurante di Diego Godìn. D’altronde essere il capitano di una nazionale zeppa di grinta, cuore e cattiveria è un insignimento esemplificativo dell’idea che sto provando a comunicare: Godìn è il magnete che ha attratto ogni birciola di carisma che fluttuava a mezza altezza e l’ha conglomerato in un uomo di professione centrale di difesa.

Jorge Fucile

Fucile è innanzitutto una delusione. Dopo un brillantissimo mondiale 2010 su di lui, sotto contratto col Porto, ci sono Arsenal, City, Atletico Madrid, Milan, Inter, il top del mondo calcistico ai piedi di uno dei migliori giocatori della competizione. E poi poco altro. Un peccato, appunto. Ma vogliamo ricordarlo e salvarlo per quel meraviglioso mese di sgroppate senza briglia, di quantità e sacrificio sulla fascia agli ordini di Tabarez, più che per ciò che è stato e invece poteva essere.

Nicolas Lodeiro

Che sogno che era Lodeiro. Sembrava un fenomeno, ma uno di quelli veri, uno di quelli che andavano nell’Ajax. Infatti ci va. Fa male. Passa al Botafogo, e fa male. Passa al Corinthians, e fa male. Passa in MLS, ai Seattle Sounders, e fa male… No. Fa benissimo! E’ il miglior acquisto dell’anno, trascina la squadra alla vittoria del titolo e diventa idolo dei tifosi più caldi d’America. Talento, ambidestro, punizioni millimetriche, se solo avesse avuto voglia.

Maxi Pereira

I terzini, specialmente quelli di destra, vai a capire perché, hanno questa caratteristica curiosa di attraversare una carriera intera, vincere campionati di club o nazionale, essere sempre presente nelle competizioni che contano, ma poi essere poco ricordati se non come comprimari di epopee calcistiche. E allora come giudicare la carriera del Mono Maxi Pereira senza sapere delle oltre cento presenze nell’Uruguay di questi anni e la Copa America 2011, dei quasi dieci anni al Benfica pluri-scudettato, del passaggio recente al Porto impegnato nella scalata europea? Non si può, per i terzini, specialmente chi opera sulla destra, bisogna chiedere a quelli che se li trovano di fronte sulla fascia, a quelli che ricevono i loro cross, a quelli che da una loro ripartenza fanno gol e milioni.

Fernando Muslera

Dai, alzi la mano chi non ha pensato che fosse uno dei peggiori portieri passati nel nostro campionato Néstor Fernando Muslera Micol, quando mise piede e mani, soprattutto le mani, nelle prime in Serie A. Difendere la porta della Lazio non era impresa facile, si concorda, perché si doveva sostituire l’eterno Peruzzi da un lato e lo sfortunato Carrizo dall’altro, con un potenziale sostituto, Marco Ballotta, che insomma a 43 anni poteva benissimo restare in panchina da spettatore; ma qualcuno durante quei cinque gol presi contro il Milan, uno più assurdo dell’altro, si premurò di guardare la sua carta d’identità? Bocciato, via, regresso a qualche squadra in giro per l’Europa. E invece poi se ne andò al Galatasaray a crescere, diventare nel tempo un portiere affidabile di cui l’Uruguay vittorioso della Copa America 2011 non può fare a meno. Capito? Commentatori contestatori compositori di ritratti frettolosi?

Pedro Petrone

Genova si vede solo dal mare. E dal mare sbarcano nell’estate del 1931, il terzino Guido Laino, Luisito Monti, mediano argentino che vincerà il Mondiale con l’Italia di Pozzo, e l’Artillero Pedro Petrone. Figlio di emigranti lucani, torna per impreziosire la Fiorentina nel primo campionato a girone unico aperto agli oriundi. Ha fama di bomber infallibile, 116 gol in 108 presenze al Nacional Montevideo, 24 in 29 partite con la maglia dell’Uruguay. Tre volte capocannoniere della Copa America, a Firenze si costruisce da subito una fama da divo. Ha lasciato le scarpe a Montevideo e nessuno sembra averne di uguali. Le trova, scrive Stefano Prizio nelle “1001 curiosità sulla Fiorentina che dovresti conoscere”, l’amico Sansone a Bologna. Viaggia sempre in carrozza, con le ghette ai piedi, e dopo la rete alla Juventus nel clou del quinqennio d’oro, un gol di rapina per lui inusuale che scatena l’entusiasmo del pubblico del Berta, si fa regalare una Fiat 508 dal presidente viola. Passa però gran parte delle giornate in casa, a via ponte alle Mose, in compagnia dei suoi struggenti dischi di tango. Perché la distanza è atlantica, e la memoria cattiva e vicina. “Venditore di ortaggi” per sua stessa definizione, nel marzo 1933 manda a quel paese il tecnico Felsner. Il presidente, il marchese di Ricolfi, lo multa per duemila lire. Scarone non ha intenzione di pagare, si procura un secondo passaporto (il suo è depositato negli uffici della società), si imbarca per Genova e da lì per Montevideo. Firenze, dopo 44 partite e 37 gol, resta solo un ricordo, vivo anche nella scuderia ippica che riuscirà ad aprire in Uruguay: la chiamerà Fiorentina.

Diego Lugano

Nacional, Plaza Colonia, San Paolo, Fenerbahçe, PSG, Malaga, WBA, Häken, Cerro Porteño, San Paolo. Per Diego il calcio tra un torneo internazionale e l’altro è stato solo un orpello utile a guadagnarsi da vivere, buono più che altro per riprendere la forma fisica giusta in vista dell’estate. Dove si fa sul serio. Dove ogni volta torna ad abitare gli incubi degli attaccanti avversari che osavano risparmiarsi o usare i tornei per nazionali per mettersi in mostra per il miglior offerente. No, la Celeste per Diego è tutto. Pochi mesi dopo il debutto è già capitano e lo sarà per gli 8 anni che sanciscono il rinascimento di una nazionale storica tornata finalmente a competere con le migliori: due Mondiali (con un terzo posto conquistato in Sudafrica) e due Coppe Americhe (con l’edizione 2011 alzata al cielo). Ci crede talmente tanto nella sua missione da rifiutare di tornare a chiudere la carriera in Uruguay, perché questo significherebbe essere di qualcuno, tifato da una parte del paese, quando lui sente di essere legato solo alla Celeste. Diego chiede solo di essere ricordato per sempre come il giocatore dal fisico possente, capelli mossi, sguardo tirato e sempre un po’ imbrocciato, calcio ruvido, maglia celeste sempre sudata e fascia al braccio. Quando il CT non lo convoca più dal post Mondiale 2014, gli chiedono se vista l’esclusione ha deciso di ritirarsi dalla nazionale. Lui risponde di no, che non ci si ritira dalla Celeste e che sarà sempre disposto a tornare se ci sarà bisogno di lui.

Alvaro Recoba

L’amore nacque in un pomeriggio di fine agosto del 1997. Con la fine delle vacanze pericolosamente vicina, l’unica consolazione era l’inizio della nuova stagione della Serie A e, soprattutto, vedere in campo il Fenomeno, dopo un’estate passata a perdermi in fantasmagorie con la zucca pelata e il doppio passo infernale. Quella prima giornata di campionato stava diventando un incubo: Ronaldo non brillava e il Brescia andò in vantaggio con un gol di Dario Hubner. Panico. Poi entrò un ragazzetto con i capelli a caschetto neri e gli occhi a mandorla. El Chino, all’anagrafe Álvaro Alexander Recoba Rivero. E per far nascere l’amore non fu necessaria una freccia scoccata dall’arco di Cupido: bastò un sinistro da fuori area, fortissimo e preciso, a cui seguì una punizione sovrannaturale. Quest’amore si solidificò con la lontananza di un prestito al Venezia e resistette agli alti e bassi del ritorno a Milano. Si assopì quando El Chino vestì prima la maglia del Torino e poi quella del Panionios. Bastarono un paio di cartoline da Montevideo per farmi riconoscere i segni dell’antica fiamma: gol olimpici, punizioni calciate come solo lui sapeva fare, reti decisive. È proprio vero che certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano.

Pepe Herrera

C’è stato un tempo in cui le rose delle squadre non erano gonfiate all’inverosimile, non contavano 30 giocatori, in grado di metter su due formazioni titolari e qualcosa di più. Non tutti i ruoli avevano il loro sostituto ideale, e così bisognava arrangiarsi. Quell’epoca, lontana ormai più di 20 anni, è stata l’era d’oro dei jolly: giocatori che non eccellevano in alcun fondamentale, se non nella versatilità, specialisti di nulla, a parte la capacità di adattamento. E alcuni di questi erano così bravi che riuscivano persino a fare i titolari, non importa in quale posizione di campo. José Herrera, detto Pepe, nato a Tala, paese con poco più di 5 mila abitanti a 76 chilometri da Montevideo, era questo: un jolly. L’Italia lo scoprì ai Mondiali del 90, Paco Casal lo portò a Cagliari, dove Pepe giocò 5 stagioni da protagonista: a correre, picchiare, recuperare palloni, da mediano o da terzino, togliendosi qualche volta lo sfizio di segnare. Di testa, spesso, lui che alto non era. Sette anni di Serie A, un lungo inciso in mezzo a una carriera iniziata e conclusa in Uruguay. Cinquantasei presenze con la Celeste e la Copa America del 1995. Senza essere uno specialista di nulla, se non dell’intelligenza applicata al pallone.

Fabian O’Neill

Se Dioniso non avesse svelato all’uomo le meraviglie del vino, la storia del calcio sarebbe stata diversa. E tra i suoi grandi avrebbe dovuto contare un ragazzone di Paso de los Toros, con lo sguardo assonnato, gli occhi azzurri e un piede destro delizioso. Fabian O’Neill beveva. Tantissimo. Fin da quando aveva 10 anni. Beveva e raramente era lucido. Ma quando entrava in campo e si trovava un pallone davanti, era capace di vedere spazi e compagni di squadra senza nemmeno spostare gli occhi, di spedire delle raccomandate che puntualmente finivano sui piedi del destinatario. Fabian O’Neill amava così tanto quel pallone da accarezzarlo, e non se ne separava mai, fossero anche tre o quattro gli avversari che arrivavano per portarglielo via. Fabian O’Neill dribblava come si riusciva a fare una volta, da fermo, senza correre, con lentezza ed eleganza, e tracciava traiettorie come fosse un compasso. Fabian giocava semplicemente da dio, eppure fu capace di mostrarlo solo a Cagliari, solo per cinque anni. Quando la Juventus lo prese, nel 2000, per fargli fare il vice Zidane, un mix letale di alcol e panchina lo ridusse a un uomo triste, imbolsito e borracho. Nemmeno la cura Cosmi a Perugia riuscì a guarirlo, pur permettendogli di mettere in mostra, di nuovo, sprazzi di quella classe perduta annegata in una bottiglia di vino. Hasta la ultima gota, Fino all’ultima goccia, così Fabian ha intitolato la sua autobiografia, la storia di due grandi amori — il pallone e il bicchiere — in cui, alla fine, a vincere è il secondo. Così, quando tornò a Cagliari in B, durò pochi mesi. Nessuna presenza, solo una manciata di allenamenti da ubriaco, poi via, di ritorno in Uruguay, per chiudere la carriera a 29 anni. E osservare il suo talento ormai sbiadito, lontano, attraverso il fondo di una bottiglia.

Ruben Sosa

La verità è che chi vi scrive è romanista. La verità è che, da romanista, quando mi piace un giocatore laziale (e, vuoi o non vuoi, è accaduto davvero molto spesso), mi sento profondamente in colpa. Anche perchè a me Ruben Sosa piaceva da morire: un attaccante forte ma agile, tecnico ma potente, gran sinistro e gran colpo di testa, decisivo e sempre sul pezzo. E il bello è che non ha solo giocato con la Lazio: Real Saragozza, Inter, Borussia Dortmund eppure a sentirlo oggi, nella nostra linea temporale, lui si sente ancora un vero laziale. Ecco, ecco, per questo mi sento davvero molto in colpa. Io, romanista, ho amato il calcio di Ruben Sosa. Segretamente, in silenzio, simulando indifferenza. Ma non ditelo a nessuno.

Oscar Miguez

Centravanti del Peñarol, con cui vinse sei titoli d’Uruguay, e della nazionale, con cui fu campione del mondo nel ’50 e d’America nel ’56, perché non si accontentava mai. Aveva anzi un problema tale, con il fatto di accontentarsi, che nella sua carriera in giallonero siglò 107 gol in 137 partite, il che lascia presumere che in 30 partite avesse deciso saggiamente di riposarsi, ché non di soli gol vive il calciatore. Numeri da pazzi, e caratteristiche da attaccante completo, instancabile e pieno di risorse: aveva infatti un tiro potente quanto preciso, era abile di testa, veloce e aveva un ottimo dribbling. Il prototipo del centravanti ideale per qualsiasi selezione nazionale.

Javier Ernesto Chevanton

Che spina nel fianco che era Chevanton. Una di quelle che inizia a far male prima ancora di capire da dove esattamente proviene il dolore, dato che sul fronte d’attacco spaziava da una posizione all’altra dando ben pochi riferimenti agli avversari. Disegnava parabole letali con una tecnica desueta, anche per una seconda punta di provincia,. Di corsa e di dribbling arrivò dal Danubio al tacco dello Stivale, e con la maglia giallorossa del Lecce in tre stagioni fece fuoco e fiamme, sia in A che in B, soprattutto al terzo anno quando raggiunse quota 19 reti in campionato. I suoi numeri lo portarono al Monaco e in Champions League, e più generalmente a un viaggio in Europa che per il suo talento oltre che meritato era apparso tardivo, ma la svolta più ingiusta e inattesa furono i continui infortuni, che gli condizionarono la carriera e gli negarono la possibilità di mostrare alle platee del mercoledì sera cosa era in grado di fare davvero. I problemi fisici continuavano a susseguirsi, prima al Monaco (dove pure mise a segno 20 reti in due stagioni) e poi al Siviglia, dove nonostante tutto consegnò alla memoria dei tifosi andalusi una splendida vittoria contro il Real Madrid grazie a una sua sontuosa semirovesciata, bella come erano belli praticamente tutti i suoi gol. La città del suo destino, d’altronde, era una che aveva già visitato. Tornò a Lecce altre due volte, entrambe per una stagione sola: la prima in A e la seconda in Lega Pro. Lo fece per amore della città che lo aveva adottato e osannato, e che era diventata la sua casa adottiva Aveva infatti sposato una ragazza leccese, la figlia di Salvatore “O’ Animale” Bruno. Questo per dire che tipo di attaccante era Chevanton: riuscì a conquistare il cuore della figlia del difensore più feroce e arcigno che il Salento avesse regalato alla Serie A. Che dolore, solo a immaginare la marcatura a uomo al primo pranzo in trasferta a casa dei suoceri.

Carlos Diogo

Figlio d’arte di un ex nazionale uruguayano, Carlos arriva in Europa con le credenziali di chi farà meglio del genitore (comunque 33 presenze con la Celeste). Polivalente e capace di giocare da terzino, esterno di un centrocampo a cinque o persino ala, Diogo fa il grande salto nel 2005: è il suo momento d’oro, anzi Blanco, visto che il Real Madrid lo prende dal River Plate. L’avventura madrilena sarà un buco nell’acqua e dopo tanti anni spesi a Saragozza, oggi è a piede libero. A 33 anni, si attende ancora l’annuncio del suo ritiro.

Marcelo Otero

Volto triste da sudamericano consumato dalla vita, Otero è il perfetto sconosciuto arrivato all’improvviso di cui ti innamori e non ti scordi più. Nel ’95 vive un anno di grazia, tra i gol con il Peñarol e la vittoria in Copa América con l’Uruguay, e le sue reti pesano tanto nella corsa alla finale. Con queste credenziali, il Vicenza — IL VICENZA! Oggi col mercato globale espanso in tanti farebbero a botte per lui- lo compra quell’estate. Per quattro anni, i veneti incantano le platee tricolori e lui si toglie la soddisfazione di vincere una Coppa Italia, e di guidare i biancorossi/lanerossi in una storica sgroppata in Coppa delle Coppe. La sua carriera da pro è durata poco (appena 13 anni), ma il suo poker a Firenze, le sue medie realizzative (tre stagioni in doppia cifra sulle quattro disputate in A) e la caricatura sull’album Panini ’96-’97 non le dimentica nessuno che è riuscito ad assistervi. .

Schubert Gambetta

Il suo nome completo sembra più un personaggio uscito da un trailer di Maccio Capatonda — Schúbert Gambetta Saint Léon — ma in realtà lui è l’eroe nascosto del Maracanazo del 1950. Se Schiaffino e Ghiggia hanno segnato i gol decisivi con Varela a fare da anima spirituale più che da capitano, Gambetta è stato la forza motrice di quella squadra e di quell’upset. La lista delle vittorie con il suo amato Nacional è imbarazzante per quant’è lunga, ma l’onore più grande, quello della storia, se l’è caricato sulle spalle in quel catartico pomeriggio brasiliano.

Dario Pereyra

“Un difensore riesce nel suo compito quando diminuisce la zona di gioco dell’avversario secondo le sue necessità”. Le parole di un giocatore concreto, riflessivo, pacato, magari fin troppo diretto per essere apprezzato in luoghi dove è richiesta molta più locura, molta più stravaganza. E invece. Strano destino quello di un libero uruguagio degli anni ’80 che diventa una leggenda in Brasile. Dario Pereyra, tra l’altro, era un libero anni ’80 con tutti i crismi del ruolo, tra cui discreta tecnica, grande tenuta fisica e indefesso agonismo. Avrebbe ben figurato in Europa, in patria, ovunque, ma portò la sua concretezza agli apogei nella terra della samba, della toda joya e della toda beleza. Che fosse un predestinato lo si era capito presto, dato che aveva debuttato a 18 anni nel Club Nacional, a 19 era già il Capitano della sua squadra e a 21 era stato acquistato dal Sao Paulo, dove sarebbe rimasto per undici anni di importanti vittorie, che fecero la storia del calcio brasiliano, oltre che di quello paulista.

Rodolfo Rodríguez

Per tanto tempo, finché non è subentrato un nuovo calendario e il gruppo che negli ultimi anni ha vinto anche una Copa América, è stato uno dei più presenti con la Celeste. Rodríguez ha collezionato ben 78 presenze con l’Uruguay, nonché l’onore di essere una bandiera del Nacional, con il quale ha vinto una Copa Libertadores e l’Intercontinentale. Oltre a tutto questo, era un portiere coi baffi. E noi amiamo i portieri coi baffi, dovrebbero essere d’ordinanza al pari dei guanti.

Dario Silva

Pibinca, a Cagliari, è la persona pignola e puntigliosa. Ma anche la zecca, qualcosa che ti si attacca addosso e non ti molla più, fino a risultare fastidioso. Dario Silva, precisino, non lo era di certo. Ma fastidiosamente appiccicoso per i difensori avversari sì. Non mollava mai, andava su tutti i palloni, persino quelli impossibili. Spesso correva più forte della palla, che gli restava dietro mentre lui ancora mulinava le gambe. Qualche volta, però, quel suo moto perpetuo riusciva a incanalarsi — non si sa bene per quale strana legge della fisica — in una corrente d’energia che si trasformava in gol. E quell’incoscienza, quell’ingenuità che traspariva dai suoi occhi di bambino sognante, lo portava a fare cose incredibili. Una volta segnò in rovesciata contro il Castel di Sangro. Aveva provato quella giocata centinaia di volte in allenamento e non li era mai venuta, ma se ne fregò e la cercò anche in partita. Quella volta, l’unica che contava, riuscì a colpire il pallone con il collo del piede, e a spedirlo nell’angolino basso sul palo più lontano. Faceva casino, Dario, dentro e fuori dal campo. Come quando, contro la Roma, decise di fare tutto lui: servendo l’assist a Tovalieri per l’1–0 dopo aver preso un lancio impossibile di Minotti, regalando l’1–1 a Carboni con un controllo osceno nella sua area di rigore, segnando il 2–1 con una girata di collo pieno che solo i grandi attaccanti sono in grado di fare. E come quando, in ritiro, raccontò a tutti del suo imminente trasferimento al Real Madrid, facendo impazzire i giornalisti accreditati, o quando, per festeggiare il ritorno in A, decise di guidare la sua auto bendato nel parcheggio del Sant’Elia, e finì per tamponare quella di un compagno di squadra. Le auto e l’incoscienza, anni dopo, gli avrebbero presentato il conto, con un incidente sul lungomare di Siviglia che l’ha costretto all’amputazione della gamba destra. Dario, però, non ha smesso di sorridere: «Andrò alle Paraolimpiadi di Londra col canottaggio», disse. Non lo fece mai, ma tornò a giocare a pallone, quello sì, in un’amichevole di beneficenza tra vecchie glorie dell’Argentina e vecchie glorie dell’Uruguay. Segnando una doppietta. Con una gamba artificiale.

Enzo Francescoli

La grandezza di un calciatore la si riconosce dai gol, dalle giocate, dai titoli vinti. Ma spesso sono i dettagli a fare la differenza tra un grande campione e una leggenda. Sei un grande campione se vinci un Pallone d’Oro, diventi leggenda se un Pallone d’Oro chiama suo figlio col tuo nome. Sei un grande campione se segni un gol decisivo in una finale, diventi leggenda se a un centravanti che fa una doppietta in una finale hanno appioppato il tuo stesso soprannome, solo perché ti somiglia — da morire — fisicamente. Enzo Zidane e El Príncipe Milito sono due prove inequivocabili dello status di leggenda di Enzo Francescoli. Il Baggio del Sud America, un numero 10 che a Cagliari si adattò a indossare il 9 per rispetto di Gianfranco Matteoli, un giocatore di classe e talento che in Italia non andò mai oltre la provincia, scegliendo il rossoblù dei sardi da migliore giocatore del campionato francese, e poi passando al granata del Torino, prima di tornare al River Plate. Tre Copa America conquistata da trascinatore della Celeste, due titoli di campione argentino, due Palloni d’Oro sudamericani. Ecco, i titoli, quelli che fanno il grande campione. Per la leggenda, invece, chiedete pure a Zizou e Milito.

Sebastian Abreu

Una delle imprese calcistiche più terribilmente belle che l’Uruguay ha compiuto nella sua storia, nella mia mente sadica pure peggio del Maracanazo, è stata l’eliminazione dell’unica squadra africana rimasta nel Mondiale del 2010 ai quarti di finale, impedendo a un Ghana tutto cuore che davvero non si poteva non tifare un risultato storico. Suarez e Abreu quella notte, mentre tutto il mondo si stringeva intorno alle stelle nere, impersonificarono un romanzo di formazione calcistico e umano in un quarto d’ora, dal 120' alla fine dei rigori: se il primo mi ha fatto capire che le scorrettezze sono parte del regolamento, il secondo con quel cucchiaio terribile e senza alcun rispetto per i milioni di sogni spezzati ha strappato via l’ultima innocenza che avevo, e mi è pure piaciuto. Il gigante Abreu ci ha insegnato che il male può vincere ghignando, cattivo come darth vader e brutto pure come darth vader; la notte i genitori ghanesi ai figli dicono di fare da bravi, o arriva El Loco.

Ruben Paz

“El uruguayo, uruguayo” intona il Cilindro di Avellaneda. Un coro unanime per il miglior giocatore del Sudamerica 1988, l’anno della Supercoppa e del trionfo nell’Interamericana del Racing. Trionfi nati dalle geometrie del “Churrasco” Ruben Paz, un virtuoso del pallone. Preciso, intuitivo, creativo, dopo due parentesi alla Academia e due esperienze in Brasile (all’Internacional oggi retrocesso in seconda divisione) e in Francia (al Racing Matra de Paris, campione di Francia nel 1936), Paz sbarca a Genova. Per il ritorno in A dei rossoblù, Spinelli regala a Scoglio tre uruguagi: oltre al regista della Celeste arrivano il volante José Battle Perdomo Texeira e Carlos ‘Pato’ Aguilera. Paz non si integra negli schemi del Professore, regala solo qualche sprazzo di vera classe e un solo gol, il temporaneo ma inutile pareggio al San Paolo il 4 marzo del 1990. Eppure c’è anche il suo nome nell’undici genoano ideale che tratteggia nel suo diario un tifoso d’eccezione del Grifon, Fabrizio de Andrè. In anticipo sul suo stupore, quell’amore finirà dopo i Mondiali, dopo la sconfitta contro l’Italia di Schillaci in un ottavo di finale lento e intricato come una ragnatela. Torna per completare un discorso sospeso, torna al Cilindro che l’ha incoronato simbolo, icona.

William Martinez

Nella line temporale da cui vi scriviamo siamo abituati a giocatori che superano i vent’anni di carriera: arrivano a venticinque, ventisei, si fermano a ventidue (cifra comunque notevole), ma nessuno sfiora i trenta. Questo perché non li fanno più come William Martinez, difensore colossale (192 cm per più di 90 chilogrammi, una specie di record della razza umana per l’epoca) e campione del Mondo che ha giocato per una vita intera nel suo Paese natio, cambiando anche diverse maglie e ritirandosi a 42 anni dopo aver iniziato a poco meno di quindici anni. A questo proposito, indossò sia la casacca del Club Nacional (all’inizio della sua carriera) che quella del Peñarol, con cui comunque si tolse le soddisfazioni maggiori (cinque titoli nazionali, una Libertadores e una Intercontinentale). Mi dirai: ma come si faceva all’epoca a passare da una rivale all’altra e riuscire a consacrarsi comunque come leggenda? Eh, vai a capire. Certo giocare per quasi trent’anni di fila aiutava, in assenza di internet alcune generazioni probabilmente dimenticavano proprio tutte le tue figurine in fila. L’altra ipotesi è che la vulgata che William Martinez si è portato appresso fosse vera, e che sia stato quindi il difensore più forte e importantre della storia dell’Uruguay.

Atilio Ancheta

Difensore longilineo e arcigno, quintessenza della garra, reattivo e potente fisicamente, esordì nel Club Nacional ma giocò i sette anni più importanti della sua carriera in Brasile, al Gremio, dove in più di 150 presenze si tolse anche lo sfizio di segnare sette gol.

Federico Magallanes

Ha giocato col Real Madrid. Giuro. Seedorf, Raul, Roberto Carlos, Suker, Morientes, Panucci, Hierro, Redondo E MAGALLANES. Probabilmente ha vissuto il calcio in un periodo in cui essere nati nel ’76 era considerato come garanzia di essere un fenomeno, magari la lunga chioma attirava l’attenzione o più semplicemente ha preso in ostaggio qualche parente di Lorenzo Sanz, fatto sta che i Blancos sborsarono 12 miliardi per fargli fare 2 partite. Oggi Federico Magallanes, 40 anni, può raccontare di aver giocato con il Real Madrid. E allora vale tutto, dai.

Walter Gargano

Sono convinto di quello che dico: Gargano, ad oggi, sarebbe ancora utilissimo a correre su e giù per il campo del San Paolo con indosso la maglia azzurra. Immagino un Sarri innamorato di questo piccolo furetto assatanato che morde le caviglie, recupera palloni, li gestisce egregiamente e si fionda da ogni parte del campo verso ogni altra parte del campo. La pagina Wikipedia a lui dedicata, senza alcuna fonte, sostiene abbia un cuore più grosso della media il che gli permetterebbe di sentire meno la fatica per via delle basse frequenze cardiache. Non lo so, magari non è vero, ma che Walter Gargano abbia un cuore grosso così, almeno in campo, ce n’eravamo accorti anche senza ecocardiogramma.

Marcelo Zalayeta

Zalayeta non aveva niente del suo soprannome, panterone, forse giusto la pelle scura. Non era felpato o aggraziato sul rettangolo verde se non nel viso dagli occhi troppo grandi per essere cattivi (gli occhi piccoli sono da cattivi, serrati; pensate a Hitler con gli occhioni), e ogni volta che lo chiamavano panterone sembrava lo prendessero in giro come si chiamano col diminutivo gli omaccioni. I suoi mezzi tecnici sono sempre stati appena inferiori a quelli richiesti al suo livello, e ogni volta che segnava un gol solo un bugiardo poteva dire che se lo sentiva che avrebbe segnato Marcelo Danubio, perché lui sviluppava un livello di alienazione dal playmaking che lo rendeva invisibile; e però a fare la zampata era sempre pronto. Sensibile al punto di ritirarsi dalla sua nazionale perché aveva sbagliato un rigore decisivo, Zalayeta è uno degli ultimi calciatori-carte pazze che gli allenatori mettevano in campo (rigorosamente dalla panchina) non per fornire un’alternativa tattica ma per la loro presenza e i loro guizzi inspiegabili, come i gol che resero Zalayeta il castigatore di Barcellona e Real Madrid in coppa dei campioni.

La Linea Difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da Tommaso Giancarli, Adriano D’Esposito, Valerio Savaiano, Alessandro Mastroluca, Saverio Nappo, Simone Pierotti, Simone Vacatello, Matteo Serra, Mattia Pianezzi, Gabriele Anello, Daniele Morrone, Gabriele Lippi, Simone Nebbia, Leonardo Ciccarelli, Sebastiano Iannizzotto, Marco D’Ottavi e Fabrizio Gabrielli.

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